GERMANIA IN CRISI, PARTE 1  —  L’UOMO PERDUTO D’EUROPA

DiOld Hunter

6 Aprile 2025
Questo è il primo di quattro reportage sulle crisi che oggi affliggono la Germania: quali sono, la storia che le ha prodotte e come i tedeschi pensano di trovare nuovamente la strada per un futuro.
Friedrich Merz e Julia Klöckner al Congresso per il Futuro della CDU il 27.04.2023 a Berlino
 

di Patrick Lawrence per scheerpost.com del 06/04/2025    –   Traduzione a cura di Old Hunter

Tra le tante cose dette — cose perspicaci, cose sagge, alcune cose sciocche — quando sono arrivati ​​i risultati delle elezioni nazionali in Germania domenica sera, 23 febbraio, la più notevole per me è stata l’esclamazione del nuovo futuro cancelliere della Repubblica Federale: “Abbiamo vinto“, ha dichiarato Friedrich Merz davanti ai suoi sostenitori a Berlino, mentre i sondaggi all’uscita dal voto, dimostratisi esatti, davano la maggioranza dei voti alla conservatrice Unione Cristiano-Democratica.

Merz è una di quelle figure politiche che parlano prima di pensare, e nessuno sembra aver preso questa uscita come qualcosa di più di un’espressione da vincitore esuberante nella notte delle elezioni. Io l’ho sentita diversamente. Per me, le quattro parole di Merz hanno tradito una nazione in crisi: la sua politica e la sua economia in disordine, la sua leadership senza una visione, il suo malessere pervasivo, le fratture sempre più profonde tra gli 83 milioni di tedeschi, l’incapacità della Germania, diciamo, di parlare con sé stessa o di capire, persino, cosa significhi dire “Abbiamo vinto”.  

Il “noi” del meschino Merz significa la CDU, che lui guida, e il suo partner di lunga data, l’Unione Cristiano-Sociale. Ma quanto è limitata questa nozione di vittoria per qualcuno che pretende di essere non solo un leader nazionale, ma un leader d’Europa? La CDU/CSU non ha ottenuto altro che il 29% dei voti, appena abbastanza per formare una nuova coalizione di governo. Ciò lascia il 71% degli elettori tedeschi che non hanno vinto nulla. 

Il “noi” del prossimo cancelliere, per andare direttamente al significato più ampio delle elezioni tedesche, dovrebbe allarmare tutti noi in Occidente, non solo in Germania, dato che Merz e i suoi partner di coalizione intendono guidare la Repubblica Federale. Hanno reso chiaro il loro intento radicale anche prima che Merz assumesse formalmente l’incarico. Si tratta di smantellare la socialdemocrazia più avanzata d’Europa in favore di un rapido e radicale riarmo, scioccante di per sé data la storia della Germania, e di un ritorno alle ostilità sempre pericolose della Guerra Fredda. La velocità di questa svolta sembra cogliere tutti di sorpresa: lunedì 1 aprile, la Bundeswehr ha iniziato a stazionare una brigata corazzata in Lituania, il primo dispiegamento a lungo termine di truppe tedesche all’estero dalla Seconda Guerra Mondiale.      

La storia, che invoco in tutta questa serie, infesta questo momento di trasformazione come un fantasma. Molti sono coloro che hanno visto nella repubblica del dopoguerra la promessa che il mondo transatlantico avrebbe potuto prendere una nuova direzione, che l’Occidente avrebbe potuto coltivare – qui voglio farla breve – una forma di democrazia più umanista o umanizzata. Negli anni ’60, Ludwig Erhard, ministro dell’economia sotto Konrad Adenauer, creò la soziale Marktwirtschaft, l’economia sociale di mercato, un modello notevolmente in contrasto con il fondamentalismo del libero mercato che gli Stati Uniti stavano imponendo al mondo. Rese potenti i sindacati e diede ai lavoratori i seggi nei consigli di amministrazione aziendali, tra le altre cose, e così facendo suscitò il pensiero che la tradizione socialdemocratica europea avrebbe potuto finalmente domare gli eccessi del capitalismo.

Verso la fine degli anni ’60, Willy Brandt, ministro degli esteri socialdemocratico e in seguito cancelliere, sviluppò la sua celebrata Ostpolitik, una politica che aprì la Repubblica Federale ai suoi vicini del Blocco Orientale e all’Unione Sovietica. Questo fu un rifiuto non solo del binario della Guerra Fredda di Washington; più di questo, fu una risposta decisa all’animosità anti-russa che ha segnato la storia tedesca per un secolo.

Conoscere questa storia ora significa riconoscere le elezioni di febbraio come una sconfitta di notevole portata che si estende, ancora una volta, ben oltre quella che fino a poco tempo fa era la nazione più potente d’Europa. Friedrich Merz e i suoi partner di coalizione – che includeranno un Partito Socialdemocratico che ha ripudiato vigliaccamente la stessa tradizione che un tempo difendeva – hanno abbandonato molto di più del passato della Repubblica Federale. Chiunque nutrisse la speranza che il Continente potesse fungere da guida per un mondo più ordinato, ora è in qualche modo privato di una ragione in meno per sperare che l’Occidente errante trovi la strada per superare il ciclo di declino in cui è caduto.

Merz è un uomo di contraddizioni, il che, bisogna ammetterlo, non lo distingue dai politici centristi in Germania o in qualsiasi altro posto in Occidente. Ora sarà distinto come il leader irrimediabilmente contraddittorio del popolo tedesco. La sua responsabilità interna più urgente è quella di rilanciare un’economia che la coalizione di neoliberisti guidata dal suo sfortunato predecessore, Olaf Scholz, ha quasi portato alla rovina. Prendete posto mentre questo disastro in divenire si dispiega. 

Merz è un russofobo virulento (è vigoroso in questo come qualsiasi figura politica del dopoguerra, mi è stato detto) ed è fortemente impegnato ad aumentare il sostegno della Germania alla guerra in Ucraina. Ma riportare in vita l’economia tedesca non può essere fatto a meno che la Germania non decida di ripristinare la sua fitta, del tutto naturale interdipendenza con la Russia, in particolare ma non solo sul fronte energetico. Il ricorso alla costruzione di una macchina da guerra da mille miliardi di euro è un atto di disperazione politica indescrivibile: la misura in cui avrà successo come stimolo economico sarà la misura in cui distruggerà la socialdemocrazia tedesca mentre (da non perdere) grava il governo di un debito enorme. Quanto alla follia della guerra per procura ispirata dagli Stati Uniti in Ucraina, ogni impegno che il nuovo governo assume per continuare a sostenere il regime corrotto e nazificato di Kiev (sostegno finanziario, sostegno militare, sostegno politico, sostegno diplomatico) alienerà una quota maggiore della cittadinanza tedesca.

La situazione della Germania è quella dell’Occidente, messa semplicemente in risalto: deve cambiare, deve trovare una nuova direzione (i suoi elettori esigono queste cose), ma la Germania, così come è attualmente costituita la sua leadership, non può cambiare. La Germania è presumibilmente unica tra le potenze occidentali in quanto il galleggiare (l’incessante altalena dei centristi, se mi è concesso usare le metafore) non è più una scappatoia praticabile. La nazione semplicemente non ha tempo per questo se vuole evitare un tasso di declino sempre crescente.

Un numero notevole di elettori tedeschi è passato a febbraio da un partito all’altro — questo fenomeno è chiamato “migrazione degli elettori”,— in quello che a occhio nudo sembra un perverso gioco della campana. La maggior parte degli elettori che hanno abbandonato i socialdemocratici — e ce n’erano moltissimi, come indica un crollo del sostegno alla SPD — sono andati alla CDU/CSU (quest’ultima radicata nella Baviera conservatrice e cattolica) o — che ci crediate o no — all’AfD, l’Alternativ für Deutschland, la nemesi populista di destra dei socialdemocratici di lunga data. 

La cosa diventa ancora più strana, secondo un’analisi citata da un commentatore della notte delle elezioni di nome Florian Rötzer. “Molti della CDU/CSU sono effettivamente passati all’AfD”, ha osservato Rötzer mentre i risultati venivano conteggiati, “ma stranamente anche alla Sinistra [Die Linke] e al BSW [il populista di sinistra Bündnis Sahra Wagenknecht]. La Sinistra ha guadagnato molto, ma gli ex elettori [Die Linke] sono passati all’AfD in misura minore e al BSW in misura maggiore”. Quanto a Die Grünen, gli ormai ridicoli Verdi — insieme ai Socialdemocratici, i grandi perdenti del 23 febbraio — hanno ceduto elettori a Die Linke, una mossa abbastanza prevedibile, ma anche all’AfD.

Non vedo come questo schema impossibile da leggere possa essere etichettato come qualcosa di diverso da una disperazione condivisa. E ora osservate. La coalizione che Merz sta per formare con i socialdemocratici tradisce quella che sembra essere un’assurda indifferenza a ciò che gli elettori tedeschi hanno appena detto. Ma nella mia lettura, è meglio intesa come una misura della paura tra le élite governative tedesche. La SPD è scesa al terzo posto nella costellazione politica tedesca, con 30 seggi in meno nel Bundestag rispetto all’AfD. Ma quest’ultimo, ora il partito numero 2 in Germania, sarà bloccato dal governo per mezzo del “firewall” antidemocratico che i centristi neoliberisti tedeschi non mostrano alcun segno di voler rimuovere. 

In termini netti: il governo crollato lo scorso autunno, una coalizione nominalmente di centro-sinistra di partiti neoliberisti guidata dai socialdemocratici, sarà ora sostituito da una coalizione di partiti neoliberisti guidata dai cristiano-democratici di centro-destra che quasi certamente includerà i socialdemocratici. Questa sarà una riproduzione diretta dell’alleanza estremamente impopolare che ha governato fino al 2021. La versione europea di Tweedle-Dee e Tweedle-Dum [se non è zuppa è pan bagnato] non è mai stata più ordinata. 

Molto prima delle elezioni di febbraio, quando era già chiaro che una leadership neoliberista inetta aveva sconsideratamente danneggiato l’economia per puro fervore ideologico, commentatori di vario genere avevano iniziato a chiamare la Repubblica Federale “il malato d’Europa”. Ora possiamo fare di meglio di questo cliché stanco: la Germania è più utilmente considerata “l’uomo perduto d’Europa”.  

Ecco Patrik Baab, un importante giornalista e scrittore tedesco (e un uomo di comprovata integrità nei suoi giudizi, aggiungerei) nella notte delle elezioni:

I tedeschi non hanno scelto la stagnazione questa sera, ma il declino. Un popolo si sta conducendo alla propria rovina. Ora ne avremo di più. La politica di guerra delle élite europee deve continuare. Il declino economico continuerà perché energia a basso costo e quindi un buon rapporto con la Russia sono necessari per rilanciare l’economia. Non ci saranno cambiamenti in questo momento… 

Aggiungerei alla concisa opinione di Patrik solo questo: per quanto i tedeschi stiano marciando verso la loro rovina, vedo gli inamovibili neoliberisti centristi della nazione in testa alla colonna.

La Germania del dopoguerra è stata senza dubbio, e lo direi senza esitazione, l’epitome stessa del profondo impegno dell’Europa verso un ethos socialdemocratico, infuso di dottrina sociale cristiana nel caso tedesco, che affonda le sue radici nel fermento della politica continentale del XIX secolo . Francia e Germania si sono distinte, ciascuna in modo diverso, come le espressioni più chiare della distanza che gli europei mantenevano dal liberalismo anglo-americano, neoliberismo come chiamiamo il suo discendente. Il posto dell’individuo era diverso da una parte o dall’altra della Manica. La libertà è stata raggiunta attraverso la politica, non attraverso la libertà da essa. Sono stati imposti limiti alle operazioni del capitale. L’economia politica degli europei era, nel complesso, di un ordine più umano.

Ora la Germania dimostra l’abbandono da parte del continente delle sue onorevoli tradizioni socialdemocratiche e il suo abbraccio, con lo zelo del convertito, del neoliberismo con cui l’anglosfera ha gravato il mondo occidentale. Quando, perché e come l’ideologia neoliberista ha attraversato la Manica, o, più probabilmente, l’Atlantico? Non sono uno storico dell’economia, ma ricordo di aver rilevato questa migrazione ideologica durante il primo decennio successivo alla Guerra fredda, quando il trionfalismo americano era sfrenato. Le crisi finanziarie del nostro secolo, inutile dirlo, hanno consolidato il posto delle élite neoliberiste del continente, quelle che chiamiamo austerità quando la loro ideologia viene trasposta in politica.

Grazie ad amici intimi e colleghi, ho trascorso del tempo in Germania nei mesi che hanno preceduto le elezioni di febbraio. Ho posto mille domande a persone dalle cui intuizioni ho tratto grande beneficio. E la domanda che mi si è imposta con tanta insistenza è stata: come è possibile che la Germania sia arrivata così lontano da quello che era una volta?

Nei resoconti che seguiranno svilupperò in un modo o nell’altro questa insistente questione.

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