CARL SCHMITT: LA POLITICA COMINCIA DAL NEMICO

DiOld Hunter

6 Giugno 2025

Chad Crowly, substack.com, 6 giugno 2025    —   Traduzione a cura di Old Hunter

“Il concetto del politico” di Carl Schmitt è una delle opere più sobrie della filosofia politica del XX secolo. Non offre alcun conforto, nessun idealismo o riconciliazione. La sua forza risiede nella precisione e nel rifiuto di oscurare la natura della vita politica.

Schmitt comprese che il tentativo di abolire la politica è di per sé un atto politico, e spesso il più pericoloso. Contro la fede liberale nella pace universale e nel negoziato infinito, afferma una verità più dura. La politica non inizia con il dialogo o il compromesso. Inizia con la definizione di un confine tra amico e nemico, un principio che identifica come la distinzione amico-nemico.

Per Schmitt, la politica non è definita da leggi o procedure parlamentari, né dagli scambi di mercato o dal sentimento umanitario. È definita dalla possibilità di conflitto. Il politico sorge ogni volta che un gruppo umano identifica un altro gruppo come una potenziale minaccia alla propria esistenza collettiva. Tale identificazione può essere culturale, etnica, religiosa o ideologica, ma non è riducibile a nessuno di questi ambiti. La politica inizia quando le differenze diventano così gravi che gli uomini sono disposti a morire, o a uccidere, per esse.

La lingua latina coglie chiaramente questa distinzione. Schmitt invoca i termini hostis (nemico pubblico) e inimicus (avversario privato). La politica inizia con hostis, non con inimicus. Non si tratta di una rivalità privata, ma di un rapporto collettivo. La distinzione amico-nemico non è odio personale, ma opposizione esistenziale. Si può non provare animosità verso il nemico come individuo, ma riconoscere che appartiene a un gruppo i cui obiettivi negano i propri. Questo riconoscimento non è morale. Non si basa su chi ha ragione o torto. Non riguarda la verità, ma la sopravvivenza.

Ecco perché Schmitt rifiuta il tentativo liberale di riformulare il conflitto come qualcosa di gestibile attraverso la competenza, la negoziazione o il commercio. Tratta il conflitto non come una questione di opposizione esistenziale, ma come un problema tecnico da risolvere attraverso il compromesso.

Il liberale immagina che le differenze possano essere gestite dalle istituzioni, che la ragione possa prevalere senza coercizione e che la guerra sia un’aberrazione che il progresso eliminerà. Schmitt nega tutto ciò. L’utopia liberale, sostiene, è un miraggio che nasconde la propria violenza. Ogni regime deve decidere chi proteggere e contro chi mobilitare. Questa decisione è sovrana. E la sovranità, scrive Schmitt, è definita dalla capacità di decidere sull’eccezione, ovvero di determinare quando la legge ordinaria viene sospesa e chi è il nemico.

Il sovrano non si limita ad amministrare la legge. Definisce le condizioni in base alle quali la legge si applica. E lo fa non in astratto, ma nel mondo reale della minaccia e del conflitto. Quando uno Stato dichiara guerra, non agisce arbitrariamente. Sta nominando il suo nemico. Quando si rifiuta di nominare il suo nemico, o nega di averne uno, si limita a garantire che altri lo facciano al suo posto.

Sovrano è colui che decide l’eccezione

Le implicazioni sono enormi. Abolire la politica richiederebbe l’eliminazione della capacità stessa di prendere sul serio le differenze. Perché una società trascenda veramente il conflitto, deve cancellare ogni differenza o renderla priva di significato. Il primo obiettivo si persegue attraverso l’assimilazione, il dominio e la violenza. Il secondo attraverso il relativismo, il consumismo e l’indifferenza morale. Entrambi conducono alla rovina spirituale.

L’uomo che non crede più che valga la pena lottare per qualcosa non è un eroe morale. È un sintomo di decadenza. È ciò che Nietzsche chiamava l’Ultimo Uomo, colui che preferisce il comfort alla grandezza, la sicurezza alla lotta e la pace personale alla verità pubblica. Il mondo liberale gli promette tutto tranne il significato. E lui accetta il patto, perché gli è stato insegnato che ogni significato, ogni valore, è pericoloso.

La concezione schmittiana della politica affonda le sue radici nella filosofia classica. Platone e Aristotele riconobbero entrambi una terza parte dell’anima che la psicologia moderna spesso ignora. La chiamarono thumos (spirito). Non è né ragione né appetito, ma la fonte dell’orgoglio, dell’onore e della giusta indignazione. È il thumos che spinge gli uomini a difendere il proprio popolo, le proprie convinzioni e il proprio stile di vita. È il thumos che rende possibile la politica. Senza di esso, ci sono solo calcolo e consumismo.

Nella filosofia della storia di Hegel, questa vivacità non è solo individuale, ma plasma il mondo. La storia, per Hegel, è il dispiegarsi della libertà umana attraverso il conflitto. Interpretazioni contrastanti di chi siamo si confrontano, non solo nei libri e nelle aule scolastiche, ma sui campi di battaglia e nelle rivoluzioni. La verità della natura umana non si stabilisce attraverso il consenso, ma attraverso la lotta. Schmitt eredita questa visione, ma la spoglia di ogni conforto escatologico. Per lui, il conflitto non finisce mai. Non esiste una riconciliazione finale. Esiste solo la possibilità sempre presente della decisione.

Ecco perché ogni utopia finisce nella coercizione. Più un regime insiste nel dire di rappresentare l’umanità intera, meno può tollerare il dissenso. L’uomo che non è d’accordo diventa non solo sbagliato, ma malvagio. E poiché il male non può essere compromesso, il regime deve distruggerlo. Le guerre della modernità non sono conflitti limitati per il territorio o il potere. Sono guerre totali di sterminio morale. Il bombardamento di Dresda, l’annientamento di Hiroshima, la distruzione delle città in nome del progresso derivano tutti da questa logica.

L’avvertimento di Schmitt non riguarda solo la guerra, ma anche le illusioni che le preparano il terreno. Prima tra queste è la convinzione che la politica possa essere abolita, che le differenze non contino più e che tutti i valori siano in definitiva intercambiabili. Questi non sono errori innocui. Servono come strumenti di controllo, mascherando la coercizione dietro la retorica della pace. Quando la politica viene negata, non scompare, ma ritorna in forme nascoste: attraverso la rivoluzione culturale, la trasformazione demografica, la manipolazione economica e la censura ideologica. L’ordine liberale afferma di aver trasceso la politica, eppure impone la sua ortodossia più rigidamente di qualsiasi regime che lo abbia preceduto.

Il liberalismo adotta l’apparenza della neutralità. Immagina che la vita pubblica possa essere strutturata attorno ai diritti individuali, all’equità procedurale e al libero scambio. Ma questa neutralità è un’illusione. Maschera la distinzione amico-nemico dietro il linguaggio burocratico e gli slogan umanitari. Quando il liberalismo incontra un nemico che non può assimilare, risponde con tutta la forza del suo apparato istituzionale, non in nome di un popolo particolare, ma in nome dell’umanità nel suo insieme; non per difendere una comunità definita, ma per reprimere ciò che designa come intolleranza; non come una decisione politica fondata sull’interesse, ma come un imperativo morale presentato come universale e assoluto.

Il risultato è una politica spogliata di responsabilità. Si prendono decisioni, si designano nemici e si combattono guerre, ma sempre in nome di ideali astratti. Il regime toglie la vita, ma si rifiuta di ammettere di aver scelto di farlo. Smantella le nazioni con il pretesto di espandere la libertà. Mette a tacere il dissenso, ma lo chiama protezione. Il nemico non è più riconosciuto come un avversario politico, ma riformulato attraverso un vocabolario terapeutico di inclusione e danno. Questa non è la scomparsa della politica, ma la sua deturpazione.

Contro questo, Schmitt non offre una soluzione facile. Non propugna il conflitto fine a sé stesso, né glorifica la violenza. Il suo obiettivo non è la giustificazione, ma la precisione, una chiara comprensione di cosa sia la politica e di cosa richieda. Comprendere la politica non significa celebrare la guerra, ma riconoscerne l’inevitabilità. Comprendere la sovranità non significa venerare lo Stato, ma accettare che qualcuno debba decidere. E comprendere il nemico non significa odiarlo, ma sapere che non è sempre possibile negoziare con lui.

Ciò che conta di più nell’analisi di Schmitt non è la strategia o la politica, ma l’orientamento. Un popolo che non sa più chi è non può riconoscere i propri amici. E un popolo che si rifiuta di identificare i propri nemici sarà governato da coloro che li riconoscono.

In fin dei conti, la politica non è un gioco, ma il regno in cui si plasma il corso del destino umano. Non è resa obsoleta da trattati di pace o accordi commerciali. Riemerge ogni volta che gli uomini ricordano di appartenere a qualcosa di più grande di loro, e svanisce solo quando se ne dimenticano.

Carl Schmitt ci ricorda che la politica inizia con una decisione e che ogni vera decisione rivela chi siamo. In un’epoca che nega ogni confine, in una cultura che celebra l’indifferenza, questo promemoria è al tempo stesso pericoloso e necessario.

Per coloro che cercano di costruire un mondo radicato nell’identità, nella gerarchia e nella verità, Schmitt non è solo un teorico. È una guida ai fondamenti dell’ordine politico e un precursore di un rinnovamento ancora da venire.

Lasciamo che gli altri sognino un mondo senza nemici. Noi ci prepareremo per il mondo così com’è.

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