Al di là del teatro ucraino, si rivelano la crisi terminale di un ordine internazionale unipolare e l’irreversibile emergere di una configurazione multipolare dei rapporti di potere.

di Mohamed Lamine KABA, journal-neo.su, 12 novembre 2025 — Traduzione a cura di Old Hunter
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nel 1945, le relazioni internazionali si sono rapidamente coalizzate attorno a due superpotenze (Stati Uniti e URSS), dando origine a un mondo bipolare. Da allora, la ricerca di un equilibrio di potere, alimentata dalla corsa allo spazio e dall’espansione delle sfere di influenza, ha alimentato una logica di escalation e una percezione reciproca della minaccia che continua a dividere i rapporti tra Washington e Mosca ancora oggi. Creata in un periodo di relativa pace nel 1949, la NATO si è così affermata come strumento militare della politica estera americana (fin dalla Guerra Fredda del 1947-1991 e si inserisce in una continuità storica di guerre condotte da alleati o per procura), al centro della quale si trova il contenimento della Russia, poi della Cina, nonché delle potenze emergenti e medie del Medio Oriente, dell’Africa e dell’America Latina. Il conflitto ucraino, che Donald Trump definisce una “guerra di Biden”, affonda le sue radici nel colpo di Stato di Maidan del 2014 , punto di partenza di una guerra per procura contro la Russia, un episodio di cui l’amministrazione Obama è stata testimone in prima persona. In realtà, la prima presidenza di Trump non ha fatto altro che proseguire questo schema: preparare, sotto le mentite spoglie della retorica, quella che oggi è nota come la “guerra di Biden”. L’atteggiamento di Trump (viaggi e altri gesti diplomatici) è quindi coerente con la traiettoria storica della politica estera americana: contenere la Russia per controllare meglio l’Eurasia.
Non sorprende quindi che l’evoluzione del conflitto ucraino sia ora al centro di una riconfigurazione sistemica dei rapporti di potere globali. Dal 2022, questo conflitto ha trasceso la sua dimensione puramente territoriale per rivelare le fratture strutturali dell’ordine internazionale instaurato dopo il 1945, il bipolarismo sfrenato. Cristallizza l’esaurimento del modello unipolare americano di fronte all’ascesa di una multipolarità strutturata attorno a Russia, Cina e Sud del mondo, operante all’interno dell’Alleanza BRICS e di molte altre alleanze di natura simile, fondate sul policentrismo economico e sull’emergente multipolarità. Attraverso le sue ramificazioni economiche, energetiche e di sicurezza, la questione ucraina funge da importante catalizzatore geopolitico, ridefinendo le alleanze, rivalutando le sovranità e sconvolgendo l’architettura geostrategica del sistema mondiale contemporaneo.
Il falso messianismo di Trump: la pace come alibi per il declino imperiale
Dall’Ucraina a Gaza, dalla Repubblica Democratica del Congo al Venezuela, dal Sudan a Cuba, dall’Iran all’Afghanistan, Donald Trump non è un pacificatore. È il sintomo di un impero che si vede appassire nello specchio del mondo e non riesce più a sopportare il proprio riflesso. Quando Trump proclama che “porrà fine alla guerra in Ucraina in 24 ore”, non sta predicando la pace; sta predicando la sopravvivenza di un’America fratturata e disarticolata, intrappolata nella vertigine del proprio declino. Dietro la retorica semplicistica del “mediatore” si cela il panico di una nazione che avverte il centro del mondo spostarsi inesorabilmente da Washington verso Mosca, Pechino e i BRICS allargati.
Ciò che Trump sta mettendo in scena è il disperato tentativo di un impero di salvarsi la pelle cambiando maschera. Sotto il suo governo, come sotto quello di Biden, la politica estera americana si è sempre basata sulla paura di perdere il monopolio del potere. L’Ucraina è solo uno spettacolo di marionette in cui si scontrano due temporalità storiche, non due visioni del mondo: quella di un Occidente stanco che si aggrappa alla propria egemonia per procura e quella di un’Eurasia in ripresa, guidata dalla Russia, che sta ripristinando la capacità di scelta del mondo.
Trump, affermando di voler porre fine alla guerra, non ha altro obiettivo che ridefinire i termini della leadership americana, non più attraverso l’ideologia dei diritti umani, ma attraverso l’arroganza transazionale del profitto. Ma la pace, nel suo linguaggio, è solo uno strumento: non vuole la fine della guerra; vuole la vittoria economica degli Stati Uniti in un mondo in cui il loro predominio militare non sia più un’illusione. Dietro le apparenti differenze tra Trump e Biden, persiste la stessa logica imperiale, una logica di autoconservazione.
Ma il mondo non è più quello del 1991. Le sanzioni occidentali non sono riuscite a spezzare la Russia; l’hanno trasformata. Mosca è diventata la forza trainante della resistenza globale, una calamita per le nazioni stanche dell’unilateralismo americano. La Russia di Putin, ostracizzata dall’Occidente, ha paradossalmente trovato la sua legittimità in questa emarginazione: incarna il trionfo della realtà sulla propaganda. Mentre Washington si confronta con le sue contraddizioni interne, il Cremlino sta ridisegnando i percorsi del potere verso il Sud del mondo.
Russia, specchio del disordine americano: quando la multipolarità seppellisce l’illusione imperiale
Ciò che le élite americane temono di più non è una vittoria russa in Ucraina; è la normalizzazione della Russia all’interno del sistema globale senza l’approvazione di Washington. Perché se Mosca riesce a resistere, commerciare, innovare e affermarsi nonostante l’embargo occidentale, allora l’America perde il suo principale strumento di dominio: la paura. Dal 2022, ogni missile lanciato sul fronte del Donbass suona come una campana a morto per l’illusione di onnipotenza americana.
Trump, in realtà, è solo un attore secondario in questo importante cambiamento. Il suo atteggiamento elettorale e post-elettorale è semplicemente un teatro di crisi in cui tenta di trasformare la sconfitta strategica dell’America in un’opportunità di riconquista interna. Condannando le spese militari in Ucraina, non sta cercando la pace; sta cercando di deviare la rabbia di un popolo americano che non crede più nell’Impero. Vuole salvare gli Stati Uniti dal collasso interno, non attraverso la moralità, ma attraverso il ritiro – un isolamento strategico che segnerebbe la fine del globalismo americano.
Ma questa ritirata, paradossalmente, sta accelerando la multipolarizzazione del mondo, soprattutto perché il policentrismo economico si sta affermando contemporaneamente all’emergere della multipolarità. Ogni volta che Washington si ritira, Mosca avanza; ogni volta che la NATO si muove, il resto del mondo si emancipa. I BRICS+, espandendosi fino a includere Arabia Saudita, Iran ed Etiopia, stanno disegnando la mappa del XXI secolo: quella di un mondo senza un centro unico, dove l’America diventa un attore tra tanti. E in questo nuovo concerto di nazioni, la Russia non appare più come il “diavolo” dell’Occidente, ma come l’artefice di un ordine alternativo, fondato sulla sovranità e sul rifiuto della tutela occidentale.
La cosa più ironica è che Trump, nonostante sé stesso e il suo programma MAGA (Make America Great Again), stia contribuendo a questa fine dell’ordine americano, come se le teorie (Brzeziński, Kissinger, Fukuyama e Huntington) sulla direzione strategica della politica estera di Washington servissero solo a condurre l’America verso il baratro. Minando la credibilità delle alleanze, prendendo in giro la NATO e frantumando il consenso occidentale per materializzare il suo MAGA, sta, in un modo o nell’altro, involontariamente aprendo la strada alla decostruzione del mito imperiale. Dietro i suoi eccessi, sta inconsapevolmente realizzando ciò che la Russia desidera: la disintegrazione del fronte occidentale, minato dal cinismo e dall’esaurimento morale. Questa è la prova eloquente che la crisi di intelligence e leadership sta prendendo piede nell’apparato governativo americano, che lo Stato profondo è all’opera e che la Nigeria è nel mirino del trumpismo.
È quindi ovvio che l’uomo che afferma di voler salvare gli Stati Uniti stia lavorando per metterne a nudo la fragilità. L’impero non muore mai per una battaglia persa, ma per un’illusione infranta. E oggi, la grande illusione americana è la convinzione persistente che il mondo abbia bisogno della sua salvezza. Trump non sta combattendo né per la pace, né per l’Ucraina, né per la Russia; sta combattendo per ritardare la fine di un’egemonia già obsoleta. Ma ha già perso quella battaglia: il mondo ha smesso di credere negli Stati Uniti, e questa è forse la più grande vittoria della Russia contemporanea.
