Il contenuto è divenuto l’unico metro di misura, l’unico orizzonte visibile, per molte, troppe persone. La forma resta qualcosa di estraneo, o di “scontato”, come se esistesse ormai un a priori, un’unica forma, un unico immaginario con cui rivestire le opere: l’immaginario unico di questo “mondo unico”.

Che il mondo dell’arte, in questo scorcio finale dell’era moderna, sia in mano alle forze che per semplificazione definiamo progressiste, è un fatto evidente. Le eccezioni, rarissime, vi sono, ma appunto in quanto tali, confermano la regola. Ed inoltre, laddove esse sono semplicemente reazionarie, non mutano la cornice dentro la quale l’arte, oggi in profondissima crisi, si muove. Ciò naturalmente può aprire ad innumerevoli riflessioni, ma qui ne scegliamo due che serviranno da premessa a quello che esporremo in seguito.

Da una parte, bisogna sottolineare che tale dominio è pressocché totale proprio perché si struttura in ogni ambito dell’arte: dalla formazione degli artisti, alla produzione, al finanziamento, e alla distribuzione e promozione delle opere. Fuori da queste cerchie magiche c’è assai poco, potremmo dire quasi nulla. E non senza grave demerito di chi non sente di appartenere a tali cerchie! Si è assistito nell’arco di poche generazioni ad una abdicazione, ad una resa che oggi non si può affatto imputare alla sola scarsità di mezzi, di appoggi, ma ad una graduale perdita di contatto con i principi stessi dell’arte, su come essa debba venire realizzata, su quale tipo di arte è necessaria al tempo in cui viviamo. Un distacco che si è fatto disabitudine, estraneità, colmata da un vacuo nostalgismo per un’arte che fu, per un tempo che fu, per una vita che fu.

Dall’altra parte, vogliamo considerare come all’interno di quelle cerchie di potere, il “saper fare” arte, pur deteriorato e impoverito, sia rimasto. Un deterioramento dovuto alla corrosione delle ideologie che sono i sintomi ultimi di quest’epoca, come si può evincere da quanto abbiamo già espresso nei precedenti articoli. Così oggi, la ridondante produzione artistica esplicita unilateralmente quali siano i contenuti da veicolare e quelli da seppellire. Senza contraddittorio.

Questi contenuti, queste “idee” sono però sempre inseriti all’interno di un immaginario estetico. Un immaginario che sa rielaborare creativamente le forme di questa società, ma allo stesso tempo aprire direzioni di cambiamento. Non importa quanto eterodirette dalle centrali del potere.

Cosa accade di contro, nei territori “antagonisti” in cui non si sposano, ma spesso si osteggiano tali ideologie? Che ci si concentri ormai solo e soltanto su questi aspetti, al punto che laddove emerge una qualche opera, di qualsivoglia genere artistico, che esprima idee diverse se non addirittura opposte, ecco che subito viene omaggiata dei più grandi onori. Senza rendersi conto che nella quasi totalità dei casi si tratta di opere che non raggiungono nemmeno il carattere della mediocrità. Eppure tutto questo non viene più notato. Anzi! Se qualcuno osa farne una critica circostanziata, la sua voce viene repressa.

Il contenuto è divenuto così l’unico metro di misura, l’unico orizzonte visibile, per molte, troppe persone. La forma resta qualcosa di estraneo, o di “scontato”, come se esistesse ormai un a priori, un’unica forma, un unico immaginario con cui rivestire le opere: l’immaginario unico di questo “mondo unico”. E questa assolutizzazione ha già prodotto degli effetti tragici.

Ma che cos’è l’arte?

«L’arte è essenzialmente parola, ma la parola ha da essere intesa – in questo caso – come verbo trascendente il linguaggio comune. […] Ma in realtà la parola, il Verbo, è prima di tutto pienezza dell’essere volta alla creazione e alla Redenzione. È quindi ordine dell’essere sul caos; è unità trascendente che si protende sull’abisso indefinito delle possibilità per manifestarsi nella molteplicità delle creature». Così sintetizza magistralmente uno spirito tradizionale come Attilio Mordini. L’arte è parola, e la parola si fa articolazione, architettura di suoni e significati che costruiscono visioni.

La molteplicità si restaura in unità attraverso la sapienza dell’artista. Unità che trascende il piano grossolano del molteplice, unità che è principio soprannaturale. E tale azione creatrice è capace di esprimere unità attraverso l’armonia delle parti e della parte con il tutto. L’arte è quindi equilibrio, senso delle proporzioni. Perché il cosmo è regolato dalle stesse leggi di perfezione e quindi di Bellezza.

Diceva Pio XI: «L’universo è così risplendente di bellezza divina perché una matematica, una divina combinazione di numeri, regola i suoi movimenti, poiché, come ci dice la Scrittura, Dio ha creato tutto “con numeri, pesi e misure”». E S. Agostino nel De Musica spiega come musica e architettura siano arti “figlie del Numero”, manifestazioni dell’armonia eterna. Molti costruttori del Medioevo hanno infatti utilizzato l’analogia fra proporzione architettonica e intervalli musicali per edificare i Templi cristiani. Opere davanti alle quali anche il non credente si sente sopraffatto da tanta coerente soprannaturalità.

Persino la parola stessa Arte, ci parla di questa armonia, di questo ordine che si ricompone dal caos. Essa infatti viene dalla radice ariana Ar, che significa andare verso, muoversi in modo appropriato, ma anche comporre. Dalla stessa radice abbiamo anche il termine sanscrito Rta, l’ordine cosmico: vedasi l’italiano rito. Sempre dalla radice Ar si hanno anche i nostri termini Armonia, ed Origine.

Non si ha quindi vera arte che non manifesti, attraverso la sua forma, tale ordine. Lì sta il segreto della bellezza. E la bellezza è Vita.

Nei dipinti e nelle sculture certamente tale bellezza, in cui la forma plasticamente si fonde con il contenuto, è più facilmente comprensibile, o perlomeno intuibile. In altre arti più “complesse” perché assommano più qualità e generi come ad esempio il teatro e massimamente il cinema, occorre uno sguardo affinato, una mente non corrotta.

Anche la recitazione è ritmo, è senso dei giusti intervalli. E anche gesto e movimento, è suono, voce che vibra, è parola che dà significato. Nel cinema poi, l’armonia generale di un film si dà dalla sintesi della scrittura, della regia, della recitazione, della fotografia e di tutte le altre arti che lo compongono. Questa forma artistica, che più caratterizza la nostra epoca, ha inoltre un tratto unico, ovvero è la rappresentazione della vita stessa, non una raffigurazione. Potremmo meglio specificare che essa dovrebbe essere la rappresentazione della vita interiore, dell’anima, come ci insegna massimamente un Tarkovskij. Ma, a parte il grande regista russo, pochissimi altri autori hanno saputo cogliere questa segreta essenza della settima arte. Resta in ogni caso il fatto che davanti ad uno schermo, noi assistiamo alla vita, in tutta la sua ricchezza visiva e sonora.

Che troppe persone non sappiano più cogliere il valore di un’opera perché focalizzate solo sul suo contenuto grezzo, mostra la decadenza a cui siamo giunti. Una decadenza ormai terminale. Di più. Mostra quanto ci siamo allontanati dalla Vita. Perché essa pare diventata uno slogan, un concetto astratto magari confezionato con belle parole. Ma intanto essa, furtiva, ci sfila accanto. La Vita, come la grande arte, la si afferra e la si comprende nei dettagli, nelle piccole sfumature, non nei proclami buoni solo per suggestionare la psiche di un uomo che non ha più nessun reale contatto con la sua vita interiore. Una battuta fuori tempo, o ad effetto, una musica che cerca furbescamente di strappare un’emozione allo spettatore, rovinano una scena e talvolta l’intero film. Solo per fare un esempio. E come siamo inondati di tali facili suggestioni e di piattezza! Se poi guardiamo alla produzione artistica, cosiddetta “antagonista” le cose non migliorano; essa è completamente infettata da questa scarsa attenzione ai dettagli. Può dunque allora essere considerata arte?

Invece è proprio dal saper riconoscere i dettagli che si evidenzia la nostra confidenza con la Vita. Allora non possiamo che domandarci: oggi cosa sappiamo dire realmente sulla Vita? Pressocché nulla. Del principio vitale, dell’anima si odono solo balbettii, e dunque nulla sappiamo più della Bellezza, né tantomeno sappiamo cercarla e crearla.

Un uomo che ha risvegliato la sua dimensione animica si accosta naturaliter alla Bellezza e allontana da sé tutto ciò che non le è conforme. Quante opere che pur ottengono favori, e da una parte e dall’altra, lui subito rifiuterebbe come una violenza alla sua anima!

Siamo invece tutti sprofondati nel Regno della Quantità, nel dominio dell’informazione, che è appunto contenuto immediato, veloce, facilmente digeribile, orizzontale. La Vita, che è Poesia, perché è mistero oltre l’immediatezza, non la sappiamo cogliere più. In fondo ci basta la sua versione in prosa.

Esaltiamo opere che “denunciano” verità nascoste, che svelano complotti, o che in positivo “trasmettono valori”. Così da poterci tranquillamente sentire dalla parte giusta della Storia, quella della minoranza che vede gli inganni del potere. Ci mettiamo così al riparo dalla Vita che invece dovrebbe scuoterci e mostrarci senza pudore anche le nostre miserie.

Nulla di tutto ciò ha a che vedere con l’arte, semmai con un’idea astratta di politica o con un sentimentalismo inutile. Occorre con onestà riconoscere che non c’è rifiorimento artistico anche perché a mancare non sono solo gli artisti, o le strutture di sovvenzionamento e di promozione. A mancare è in massima parte il pubblico.

Giunti qui dove ci troviamo, nel punto più basso della Storia, non possiamo allora superare la crisi dell’arte e in generale la crisi di questo mondo, se prima non ammettiamo che ormai siamo esseri estranei alla Vita e quindi alla Bellezza. Non si dà messaggio senza forma. Non si danno messaggio e forma che non si modellino vicendevolmente. Fuori da questo, non c’è arte. È questo che dobbiamo recuperare. Tutti.

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