Il documentario Food for profit diretto da Giulia Innocenzi e Paolo D’Ambrosi e Quarto Potere di Orson Welles in versione restaurata hanno incassato finora oltre 200 mila euro a testa e la loro corsa è tutt’altro che finita. Oltre ad una lettura sociologica di un movimento “dal basso”, che non riguarda solo il cinema ovviamente, vi può e deve essere una lettura metapolitica. È questa che vi proponiamo.

Osservando gli incassi dei film in sala balzano all’occhio due titoli che per ragioni certamente diverse ci introducono però ad una riflessione più generale e unitaria su quanto sta accadendo non solo nel mondo del cinema, sulle risposte del pubblico, ma su quanto si muove “nel sottosuolo” di questa società. E ancora di più, sui segni che si debbono leggere dietro certi fenomeni. Segni che in pochi notano, perché non siamo più educati a leggerli e forse nemmeno a cercarli.

Il documentario Food for profit diretto da Giulia Innocenzi e Paolo D’Ambrosi e Quarto Potere di Orson Welles in versione restaurata hanno incassato finora oltre 200 mila euro a testa e la loro corsa è tutt’altro che finita.

Il primo è un’opera di denuncia che racconta il mondo degli allevamenti intensivi in Europa. Progetto finanziato da donazioni e sponsor privati, ha trovato poi il supporto distributivo della piccola Mescalito film. Ma il suo successo – perché aver superato il 200 mila euro in poco più di un mese è un ottimo risultato – è trainato da tutta una serie di circoli, associazioni o anche singoli attivisti riconducibili al mondo ambientalista, animalista e vegano.

Quarto Potere, uscito negli Stati Uniti nel ’41, e qui da noi nel dopoguerra, viene riproposto al pubblico dopo circa 80 anni in versione originale con sottotitoli. Un film che non ha bisogno di molti commenti. Un’opera iconica che segna l’esordio alla regia di Welles, con una struttura narrativa, una regia e una fotografia innovative per il cinema americano, e non solo, dell’epoca. Esso racconta l’ascesa e la caduta di un magnate dell’editoria, Charles Foster Kane, da cui il titolo originale: Citizen Kane. Un film sul potere, la vanità, la manipolazione mediatica, sul sogno americano. Certamente il suo attuale successo al botteghino è in parte ascrivibile a molti cinefili che non volevano perdersi l’occasione di rivedere il film nella versione originale. Ma anche alla promozione veicolata da una stampa progressista che ha insistito sull’attualità del film, anche in vista del “pericolo” che si può ripresentare quest’anno in cui centinaia di milioni di persone sono chiamate al voto. Vedasi prima di tutto le elezioni europee e americane.

In ogni caso, entrambi i film rappresentano un mondo che si muove “dal basso” in un certo senso. Un mondo molto eterogeneo che in quest’ultimo periodo ha visto il diffondersi di varie pellicole. Non ci interessa qui soffermarci sulle singole opere e sui particolari gruppi che le sostengono. È però indubbio che esse, come altre qui non citate, stanno riscuotendo i favori di una fetta di pubblico, mentre titoli ben più “importanti” e con una distribuzione strutturata e capillare, arrancano. Lungi da noi il voler dare giudizi di valore per il semplice fatto che un’opera ottiene un suo, seppur piccolo, successo. Questo è uno dei miti dell’era moderna, tutta quantitativa. Ci interessa andare più in là.

Vi è da una parte la generale disaffezione del pubblico per la grande sala. E tale disaffezione ha varie ragioni. Vi è dall’altra il muoversi di una minoranza verso qualcosa che si riconosce come identitario. Qui occorre sostare.

La crisi, anche di spettatori, del cinema è parte e sintomo della crisi dell’intera società. E una crisi di tal portata segna il crollo di tutta una serie di strutture, di dinamiche, di forme a cui eravamo abituati. È un momento in cui tutto si rimescola, perlomeno virtualmente. La diffusione di certi film va letta sotto questa lente. Apparentemente vi è del buono, a patto che lo si legga come una premessa a qualcos’altro.

Al momento, a dominare, come già prima accennato, è l’aspetto identitario e quindi ideologico. Ognuno credendo che la propria ideologia sia migliore delle altre. E che quindi non sia un’ideologia anch’essa. E si potrebbero fare anche altri esempi, di altri colori e casacche. Questo bisogno di identità, il focalizzarsi quasi solo esclusivamente sul messaggio di un’opera, denota una paura e una rigidità negate. Di fronte al cadere di “un mondo” ci si chiude nel cortile che definiamo buono. L’importante è non essere “come gli altri”. Non si mettono in discussione le strutture profonde di “questo mondo”, ma solo quelle del potere o di una certa parte. E di quelle si auspica il crollo finale. E così il cortile rischia di divenire una gabbia. Una piccola gabbia buona scelta per scappare dalla grande gabbia cattiva. L’aria finisce presto per essere pesante, i discorsi si ripetono sempre uguali, lo sguardo è sempre e solo rivolto verso l’esterno, verso un nemico. Si resta sul piano sociologico. Noi invece vogliamo, già nella nostra riflessione, sollevarci sul piano metapolitico e provare a dare una lettura diversa.

Scegliere una parte non è di per sé un male, ma lo diventa quando si sceglie una parte per il tutto. È questo il senso anche etimologico di eresia. Chiudersi in un cortile rappresenta anche questo. La crisi che stiamo tutti vivendo non è passeggera e non riguarda affatto alcuni gruppi e strutture di potere. È al contrario la crisi radicale di questa società, meglio dovremmo dire di “questo mondo”. Il suo dissolversi dovrebbe allora portarci a guardare oltre le forme attuali e fuggire la tentazione di chiuderci all’interno di circoli già delineati, la cui visione è parziale e per forza di cose derivante dalle categorie stesse dell’era moderna. Dovremmo essere curiosi, di quella curiosità evangelica per cui solo «chi cerca trova». Perché una verità più profonda, non sociologica, non addomesticata, la si può trovare nei luoghi più impensati, talvolta. E così per la bellezza. Ci dovrebbe muovere l’esortazione paolina: «esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono». A muovere e a liberare dall’inerzia dovrebbe essere la ricerca e la promozione di opere – non solo cinematografiche ovviamente – capaci di scuoterci per un’intuizione, per la poetica originale, capaci anche di provocarci benevolmente. Capaci di portarci oltre la cornice delle forme della modernità. Perché è da questa cornice che dobbiamo avere la forza di uscire.

Vincere la paura che non vorremmo nemmeno confessare è allora la condizione essenziale. Ma per farlo dobbiamo ancor prima vedere con chiarezza che esiste questa cornice. Quanti invece non la vedono affatto! Mancano le categorie intellettuali per riconoscerla. Liberarsi infatti dall’idolo della modernità significa recuperare la dimensione totale dell’uomo, che è prima di tutto metafisica. E il pensiero deve tornare ad esser metafisico, e quindi simbolico. E da questo pensiero deve sgorgare l’azione.

I tempi mandano segnali, chiamano. Molto si deve e si può fare partendo dal piccolo, dal basso, ma occorre oltrepassare i cortili ideologici che sono sempre frutto della mentalità moderna.

La Vita e la Verità tutta intera stanno oltre le forme di questa società. Perché non iniziare a cercarle?

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