L’urgenza interiore è ciò che rende l’uomo e una comunità capaci di grandi azioni, di sacrificio per un ideale. L’arte vive la sua crisi anche perché manca un fermento che solo da tale urgenza può nascere. Terminiamo così la nostra riflessione sulla crisi dell’arte, inquadrando meglio quali “specialissimi” tempi stiamo vivendo.

Per completare la nostra riflessione sulla crisi dell’arte, che è ovviamente parte della crisi dell’intera società, dobbiamo inquadrare meglio e più a fondo l’era che stiamo attraversando, e cosa essa ci stia dicendo. Ma è necessaria la disponibilità ad uscire dalla cornice mentale che crediamo scontata.

Che tempi sono dunque questi che stiamo vivendo? Meglio ancora: quale il significato di questi tempi? Credere che la Storia sia linguaggio che parli agli uomini, e che dunque essi siano chiamati a dipanarne il discorso fatto di segni è certamente qualcosa che è stato espunto dall’orizzonte dell’uomo della modernità. E il materialismo, si faccia bene attenzione, ha inizio dal regno della conoscenza.

Osserviamo anche solo questi ultimissimi anni, a partire dall’esplodere della cosiddetta “pandemia”, con tutto ciò che ne è conseguito ben oltre la specifica questione sanitaria, per poi passare ai conflitti in Ucraina e in Palestina. Noteremo che ogni aspetto della società interna – giustizia, lavoro, economia, istruzione, cultura, ecc. – come di quella globale, ovvero degli equilibri internazionali ci parla dell’approssimarsi di una fine. Ci parla di una crisi che non è circoscritta ad alcune aree, ad alcuni livelli, ad alcuni gruppi, ma è strutturale e quindi terminale. Ci parla di un’accelerazione che non può essere semplicemente arrestata, cambiando la guida del veicolo. Qui, ancora, restando sul piano dell’osservazione sociologica e politica.

La Sapienza Tradizionale, che è guida in tutte le nostre riflessioni, non solo conferma puntuale, ma specifica assai meglio il significato di questa Fine e del Nuovo Principio. Non si tratta affatto della fine del mondo, quanto la fine di un ciclo umano-terrestre che comporterà la trasformazione di tutte le forme dell’attuale società e dell’uomo stesso, così come siamo abituati oggi a considerarlo. Perché ogni fine comporta sempre la Restaurazione originaria. E l’attraversamento da un ciclo al successivo non potrà avvenire senza grandi sconvolgimenti, di cui quelli appena trascorsi sono solo le prime avvisaglie.

Di tutto ciò, cosa vedono gli uomini, anche quelli che si definiscono antagonisti rispetto al potere attuale? Alcuni, pochissimi in verità, riconoscono i segni di questa fine ma con l’ingenuità di chi si illude che il passaggio al “dopo” avverrà con poche scosse. Tutti gli altri, in fondo a se stessi, forse la scorgono, ma oppongono una feroce resistenza al portare tale consapevolezza in superficie. Qui bisogna riconoscere che si è davanti ad un’altra suggestione per certi versi perfino più subdola e profonda di quella generata dalle élites al potere. La suggestione in cui l’intelletto si culla in un dolce sonno trae la sua forza dal voler a tutti costi restare aggrappati a “questa vita”, a “questo mondo”. Nel voler credere che tutto il male e le storture che vediamo non ci chiamino in causa anche in prima persona. Nel voler sperare di poter tornare in una certa misura ad un’idea di mondo che crediamo “normale”. E così oscilliamo tra una “superiore indifferenza” che ci fa attendere la semplice caduta dei potenti e un’agitazione di chi sa essere solo “contro”.

Se invece vincessimo la nostra resistenza e ci aprissimo anche a ciò che la Tradizione ha da insegnare, comprenderemmo come tutto quanto sta accadendo, oltre la coltre di soprusi, ingiustizie, accecamenti della ragione, ha un suo valore superiore: è permessa e prevista dall’Alto, è quindi provvidenziale. Perché solo attraverso il crollo rovinoso di un’idea di mondo e di uomo, si potrà accedere al nuovo ciclo, dove tutto, lo ripetiamo ancora, sarà rinnovato.

Cosa fare allora in questa fase che precede la dissoluzione e prepara una nuova rinascita? Restare semplicemente in attesa, in piedi fra le rovine? Niente affatto! I segni invitano all’opposto. E mano a mano che le prove aumenteranno nuovi segni appariranno sul cammino. Occorre divenire quel seme che poi farà nascere il fiore ed infine darà frutto, a suo tempo. Perché il linguaggio della Storia comunica quell’urgenza interiore che è espressione di un’anima viva. Invece, come già abbiamo detto, e come è facilissimo constatare, si sperimenta o l’inazione o l’essere inefficacemente antagonisti. Niente di tutto questo ha a che vedere con la Vita. La crisi dell’arte, quindi, come di ogni altra attività dell’uomo, soffre terribilmente anche dell’assenza di quel fermento che dovrebbe pervadere i nostri giorni. Un fermento che non deve affatto riguardare solo gli ambienti artistici, ma l’intera comunità.

In verità molti avvertono una profonda sofferenza per questo non-vivere. Basta non pensarci troppo o dirigere i propri sforzi contro un nemico facilmente identificabile. e tutto parrebbe risolversi, pensano. Ma la sofferenza in realtà rimane. Perché ogni vera sofferenza è una malattia spirituale e non psicologica. E deve essere riconosciuta e affrontata come tale. Diciamo di più: è un ulteriore segno di quest’era escatologica affinché le anime si destino dal sonno. Ecco che allora bisogna innanzitutto lasciarsi invadere dalla crisi, bisogna accettare di attraversare la notte dell’anima, perché solo chi ha visto prima crollare le sue certezze e ha benedetto questo crollo può cooperare alla chiamata. La crisi interiore è la porta verso una vita nuova. Quella a cui siamo tutti chiamati.

Nell’aria sempre più offuscata dalla polvere, dalle macerie di un edificio sociale e umano che deve crollare, bisogna dunque sin da ora iniziare a costruire, ad edificare con un’opera veramente Restauratrice. E quando per l’appunto le forme di un mondo si sciolgono e svaniscono dietro i veli che le avevano protette e rese appetibili ai nostri occhi, si deve prima di tutto agire fuori dai binari conosciuti, lontano dai percorsi istituzionali che sanno solo di morte. Binari e percorsi che non supereranno certo il crollo, vale la pena sottolinearlo. L’arte più di ogni altro ambito ha bisogno e urgenza di percorrere queste nuove traiettorie. E si può costruire solamente se rinasce in noi il senso della comunità, in cui ciascuno mette a disposizione tutto ciò che ha, e tutto ciò che è. Perché il Bene non lo si compie per una ricompensa, per un tornaconto, e nemmeno in virtù di un equo scambio, ma per una Voce interiore a cui non si può che obbedire. E se serve lo si compie anche a costo della vita.

Viene allora in mente la costruzione delle cattedrali medievali, dove un’intera comunità si univa per qualcosa che era segno stesso di quella comunità, meraviglie dell’arte e dello spirito che molti non sarebbero nemmeno riusciti a vedere terminate. Al di là del valore ovviamente religioso di tali opere, è importante per noi coglierne il significato profondo che deve essere esteso a ciascuna azione che dobbiamo mettere in campo oggi, anche nell’arte. Vi era un’urgenza interiore in quegli uomini, uno slancio, un senso del sacrificio e un sentirsi parte di qualcosa che trascendeva l’individuo, la comunità appunto, che sono proprio le caratteristiche che dovrebbero contraddistinguere questa nostra cavalcata tra le macerie.

Leggiamo alcuni racconti dell’epoca davvero illuminanti. «Ciascuno, per come poteva, dava il proprio contributo per quest’impresa comune: principi, mercanti che lasciavano le loro ingenti fortune, uomini d’arme, ma anche prostitute, strozzini, briganti, che al termine dei loro giri notturni versavano parte dei loro guadagni, oppure, perlopiù, gente comune che lasciava le proprie modeste offerte. Furono le piccole offerte, donate dalla popolazione meno abbiente, la parte più cospicua delle entrate per l’edificazione, ad esempio, della cattedrale milanese», ci riporta Martina Saltamacchia.

E Daniel Rops nella sua Storia della Chiesa trascrive questo brano di un documento relativo alla costruzione della cattedrale di Chartres: «Si vedevano uomini vigorosi, orgogliosi della loro nobile nascita e delle loro ricchezze, e abituati ad una vita di ozio, attaccarsi con corde a un grosso carro e trascinare pietre, calce, legno e tutti i materiali necessari».

Riportiamo tutto al presente. Per cosa ancora saremmo capaci di sacrificare il nostro tempo, la nostra intelligenza, le nostre forze, le nostre ricchezze? Per assai poche cose. E l’arte e la cultura sono fra queste poche?

La bellezza dell’arte per sprigionarsi anche e più in questi anni tumultuosi ha bisogno solo di una comunità di uomini come quelli sopra descritti, e forse anche di più. Ha bisogno di uomini capaci di incarnare la loro dimensione spirituale e non di imbellettarsi con un po’ di moralismo inutile. Di uomini che non hanno terrore di questa fine, ma anzi, dall’averla compresa in profondità, traggono tutta la loro energia, il loro slancio interiore. Come mai sarebbe stato possibile prima.

Solo ciò che è puro, bello e vero supererà la dissoluzione. E non potrà che essere traghettato oltre la soglia da uomini che a loro volta saranno stati purificati col fuoco, avranno costruito bellezza, operato per la giustizia e saranno stati testimoni credibili della verità. L’ora è tarda, ma già i primi bagliori dell’alba si possono intuire in fondo alla notte. La chiamata è rivolta a tutti noi. Terribili non sono tanto le prove a cui saremo posti di fronte, quanto l’esito di non aver assecondato la chiamata. Come ripetono 366 volte le Scritture: «non temete».

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