Miele e foglie d’eucalipto: gialle dal Sole, dalla luce e dal calore. Alti e frondosi erano i centri fallici, poi
col passare delle ore e delle stagioni foglie marce e foglie nuove ornavano il terreno circostante; alla
base del pilastro cadevano, filavano, cadevano e poi giù lentamente; lentamente piegate verso un nuovo
orizzonte, verso un nuovo orizzonte di sogni.

Di fianco all’alveare ovoidale roteavano in certa cifra le api – piccoli tuberi pelosi: gialli e neri –
impollinando boccioli, impallinando suoli. Troppi fiori malinconicamente: troppi fiori naturalmente.
Un distacco graduale. Inatteso. Poi un riverbero solare, sferico, parallelo ai bulbi oculari.

Dov’eri/ero? Disteso/teso con lo sguardo rivolto verso lo zenit del proprio personale apogeo, disteso
fra i petali e le secche erbe fresche, in un periodo estivo. Ciclicamente. Amaramente.
Nuvole, cumulonembi, cirri e sulla vetta del sacro spirito il girovagare della ragione favorì il riserbo
dell’Io; e così calcolai numerose volte il percorso fra individuo e individuo, le volontà nascoste, gli occhi
dai bordi rosei e le aureole poggiate sulle teste altrui.

Pensai: “Concediamoci una mano!” – troppa vigliaccheria celebrale.

Nel luogo delle grandi ali – ricordo – c’era una formosa ispiratrice di sensi. Così lasciai andare il sogno
romantico e patetico di volar lontano e gettai la spugna – forse di mare/forse di “plastiké” – e – come
impietrito di fronte al suo volto rivestito d’oro – m’imbarcai verso altre rotte, non molto distanti dalle sue.

Il cielo era azzurro blu-chiaro fra rami di ginepro e corbezzolo: come reminiscenze di luoghi o tempi pre-nuragici, e nel profondo nero inconscio dei singoli individui attraversai il lungo viale che conduceva al luogo prestabilito; nello stesso tempo sfuggivo verso spazi incontaminati dalle miserie globalizzate della vita.

I pensieri germinavano nervosamente e in modo molto pavido rivolsi lo sguardo verso una piccola luminosa lampyris sardiniae: posata sulla cornice dell’uscio di casa e più a nord – verso il nord magnetico – la luna traboccava ripetutamente dalla collina e le nubi corpose/compatte accorsero all’istante come per sorreggerla, proteggerla dai pensieri umani: indifferenti e feroci.

Le stelle ricoprivano lo spazio sovrastante la casa ed io cercavo il modo di ricongiungerle con una grossa matita HB da operaio edile. Cercavo di scoprire il segreto della mia venuta. Perché proprio Io? Perché non un altro? O un altro Io con un altro cranio: un’altra testa? Rinforzavo quelle che – da milioni di anni – avevano già terminato il fuoco interno, avevano compiutamente cessato di brillare, per non dimenticarle, per non eclissarle definitivamente: come molti visi incontrati nella vita, come quelli che non rivedrò mai più; per volere mio o per volere del caso.

Poi cercavo la composizione e la ragione della corona lucente, quella creatasi fra l’unione del nero oscuro, nero-abisso, e la luce lunare. Come una dea – sempre al fianco di chi ha bisogno. La brina – la mattina – aveva ricoperto tutto il campo e le foglie, ricoperte di rugiada, scintillavano con le prime luci dell’alba e un profumo deciso di erba fresca invadeva lo spazio fisico e mentale – quello di tutti. La brina mattutina, sopra i nostri corpi in divenire, intorpidiva le nostre membra e le nostre vite e lasciava sui nostri volti un senso di irrequietezza mortale – mortale come malessere fisico e mentale, come una discrasia –

Impietrito davanti al momento torcente di nervi, di nerbi tesi e frantumi di ossa – di pietre, di Massi, di locali bui asettici: nosocomiali autunnali – mi diressi verso sud, verso le grandi città metropolitane – come sempre grigie, come sempre si fa.

Poi una mattina mi svegliai a est della Città Eterna all’interno o all’esterno del grande metàmero Ouroboros. Prima 7.1 poi 6.5 di energia di magnitudo. Compresi che la mente vagheggiava al di fuori dello spazio specifico onirico e lontano dal talamo – dall’alcova di sogni e dolori – quando percepii materialmente la visione subliminare e di bellezza dell’evento accaduto.

Siamo natura che sboccia improvvisamente e improvvisamente perisce lontano dalle mura di casa, lontano dai nostri congiunti, dal nostro sangue, dal nostro ottomano fatto d’amore e di vita.

Natura abhorret a vacuo

Dall’alto vidi la grande marea.
Vidi mia Madre.
Vidi mio Padre.
I miei Bambini.
Il mio sangue.
La mia rabbia.
Il mio orgoglio.
La mia terra.
La mia casa.
Le mie nuvole.
Il mio cisto.
Il mio/tuo Sì.
La tua voce.
Il mio vuoto.
I vostri occhi.
Il mio Credo.
La mia fine
e il mio inizio

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