Perfect Blue rimane a distanza di quasi trent’anni un’opera innovativa e coraggiosa per le sue continue invenzioni stilistiche, ma anche per aver saputo costruire un thriller e quindi un film cosiddetto “di genere”, che sa mescolare la dimensione onirica e allucinatoria con forti tematiche sociali. Emergono chiaramente il desiderio di successo, la competizione; il pericolo della virtualità dei media, della manipolazione attraverso internet, agli albori nel ‘97; la ricerca di un’identità vera che si scontra con l’identità creata attraverso i media. Un film che parla all’uomo di oggi con grande anticipo.

1997: Satoshi Kon esordisce alla regia con Perfect Blue, un film di animazione liberamente tratto dal romanzo omonimo di Yoshikazu Takeuchi. Un thriller psicologico che mette subito in evidenza il grande talento dell’artista giapponese. Oggi, in versione restaurata, il film torna nelle sale italiane il 22, il 23 e il 24 aprile distribuito da Nexo Digital.

Protagonista è la giovane Mima, cantante di un gruppo di idol, le Cham. Nonostante il discreto successo però Mima decide di abbandonare questa carriera per lanciarsi nella recitazione. La sua scelta, da un punto di vista professionale, sembra ripagarla abbastanza velocemente. Tuttavia, fin dal suo debutto nella serie televisiva intitolata Doppio legame, iniziano ad accadere cose alquanto strane. Mima Scopre l’esistenza di un sito internet chiamato La stanza di Mima dove vengono raccontati dettagli della sua vita privata che quasi nessuno potrebbe conoscere; un inquietante stalker sembra pedinarla ovunque, perfino sul set; si verificano poi una serie di misteriosi incidenti e omicidi che colpiscono alcune persone vicine a lei.

Inoltre, dopo pochi giorni di riprese, le viene proposto di girare una scena molto forte all’interno della serie, uno stupro in cui lei apparirà nuda. Mima accetta, sente che è un passo che deve affrontare per provare a se stessa e agli altri che può essere un’attrice, per lasciarsi finalmente alle spalle l’immagine fanciullesca di cantante pop e acquisire una dimensione adulta. E dopo che l’episodio va in onda viene subito contattata da un fotografo per un servizio fotografico senza veli.

Tutti questi “piccoli sconvolgimenti” hanno però un impatto profondo sulla sua psiche. Mima comincia ad avere allucinazioni, in alcune delle quali vede se stessa vestita con gli abiti del suo vecchio gruppo di idol che la rimprovera di aver preso la strada sbagliata, di non essere più la vera Mima, di essere diventata “sporca”. Per Mima e per lo spettatore la distinzione fra realtà e immaginazione si fa sempre più labile. I colpi di scena, gli slittamenti narrativi si susseguiranno fino all’inaspettato finale.

Satoshi Kon affronta un materiale così complesso con un tocco originale nella regia e ancor più nel montaggio. A restare immediatamente impresso è l’uso delle transizioni fra una sequenza e la successiva. Egli cerca di far interagire diverse linee e categorie narrative: sogni, ricordi, incubi, allucinazioni, film e realtà. L’uso che lui fa delle transizioni ha quindi l’effetto di collegare e far convivere mondi differenti.

Usa zoomare fuori da uno schermo di un televisore, o utilizzare oggetti come “tendine” per cambiare inquadratura o scena. Altre volte sono i movimenti degli stessi personaggi che diventano un ponte visivo fra le scene. Le transizioni in alcuni casi sono così ravvicinate che si è catapultati nel giro di pochi secondi in diverse ambientazioni.

Un’altra tecnica di cui Kon si dimostra padrone è quelle delle ellissi che tolgono così ogni residuo didascalico al film. Si passa di frequente dall’inizio di una sequenza narrativa alla sua risoluzione, come ad esempio nella scena della morte dello sceneggiatore della serie Tv in cui recita Mima.

Ancora. Kon spesso apre una scena col primo piano del personaggio per rivelare solo successivamente l’ambiente nel quale si trova. Oppure mostra un’immagine per poi mostrare allo spettatore che non era quello che lui stava immaginando.

Questa scelta stilistica, maneggiata con una naturalezza sorprendente, amplifica lo spaesamento e la sensazione di soggettività che ha però proprio l’effetto di far entrare lo spettatore ancora più nel mondo del personaggio. Ci si percepisce realmente dentro l’universo di Mima, nelle sue visioni, nelle sue angosce.

Registi come Darren Aronofsky e Christopher Nolan hanno tratto ispirazione dall’opera di Kon finendo addirittura per “replicare” alcune sue scene nei loro film. Si vedano ad esempio Requiem for a Dream e Inception.

Perfect Blue rimane quindi a distanza di quasi trent’anni un’opera innovativa e coraggiosa per le sue continue invenzioni stilistiche, ma anche per aver saputo costruire un thriller e quindi un film cosiddetto “di genere”, che sa mescolare la dimensione onirica e allucinatoria con forti tematiche sociali.

Emergono chiaramente il desiderio di successo, la competizione; l’idolatria del corpo e di una giovinezza che deve resistere al trascorrere del tempo, come al contrario anche il bisogno di maturare come donna; il pericolo della virtualità dei media, della manipolazione attraverso internet, agli albori nel ‘97; la ricerca di un’identità vera che si scontra con l’identità creata dal luccicante mondo dello spettacolo, con l’immagine che il pubblico e i fan hanno introiettato; una generale instabilità che si riversa anche sulla definizione di cosa sia reale e cosa no. Uno sguardo penetrante non solo sul Giappone di quegli anni, ma capace di guardare avanti e di parlare anche a tutti noi oggi.

Qui vorremmo soffermarci sulla ricerca di identità e sulla complessità e difficile definizione di realtà che è caratteristica della nostra era tecnologica e virtuale. Mima vive molte vite, quella ordinaria, quella immaginata dai suoi fan, quella della serie televisiva in cui recita che sembra misteriosamente intrecciarsi con la sua, quella dei suoi incubi e sogni che talvolta le appaiono più reali del reale. E in questo concatenarsi di mondi la suggestione e la manipolazione sono dietro l’angolo. Noi oggi lo vediamo forse chiaramente, ma Satoshi Kon, alla fine del secolo scorso, è riuscito e a mostrarci con anni di anticipo dove possono condurre certe dinamiche. Quante Mima esistono? Ci potremmo chiedere. E ciascuno può a sua volta rivolgere la domanda a se stesso.

Chissà, forse ci va bene così. Perché leggere dentro se stessi per scoprire la propria vera identità è un viaggio che comporta sforzo, battaglie, sacrificio. Significa acquisire un poco alla volta la capacità di cogliere da una sfumatura, da un dettaglio che agli altri sfugge, la verità su una cosa, e specialmente su una persona.

Il mondo multiforme e stratificato di internet e delle piattaforme virtuali porta all’estremo ciò che si è inaugurato con i media tradizionali. Tutto si può dirigere, manipolare per suggestionare facilmente il pubblico. Tutto è quindi tecnica comunicativa, slogan, anche in molti ambienti “buoni”. Non serve nessuna sensibilità educata a riconoscere gli aspetti sottili, ci si muove esclusivamente sul piano più grossolano.

«Si può sapere chi è lei?». Questa la prima battuta che Mima deve recitare nella serie. Una sola battuta che ovviamente è emblematica. E lei, nervosa prima di battere il ciak, la ripete ossessivamente tanto da creare nello spettatore un effetto quasi ipnotico. «Si può sapere chi sono io?», sentiamo come un’eco rimbalzarci dentro. Se ci venisse davvero posta questa domanda dovremmo ammettere che la maggior parte di noi non saprebbe cosa rispondere, o al massimo si illuderebbe di superare l’ostacolo con frasi preconfezionate in cui la facciata è bella che pronta con il nostro ruolo sociale, politico, religioso, familiare ecc. E cosa sappiamo veramente dei personaggi che pur seguiamo sui social, sui canali video? Ne abbiamo un’immagine molto spesso idealizzata, perché da quegli schermi, o dalle pagine in cui scrivono emergono solo concetti, idee astratte che ci sentiamo di condividere, di abbracciare. Ma se ci facciamo caso, della loro realtà profonda di persone non sappiamo nulla, anzi, ancora di più, non riusciamo più a percepire nulla. Perché in fondo non siamo più educati a leggere in profondità le persone, dato che per primo avremmo dovuto farlo con noi stessi.

Il pericolo forse maggiore di quest’epoca dove la virtualità è ovunque nelle nostre vite, un pericolo di cui spesso si tace, è che non serve cercare la propria vera identità e quella altrui. Basta costruirsene una di facciata, fatta di bei concetti, di idee che funzionano nell’ambiente in cui stiamo. Del resto, nessuno ce ne verrà mai a chiedere conto.

Ma possiamo, o meglio dovremmo, cogliere in questo pericolo una chiamata ad una vita vera, senza compromessi, che sappia riprendere confidenza con la propria interiorità, prima di tutto.

Il film di Kon è tutte queste cose, e altre ancora. Perché è un’opera d’arte che consigliamo vivamente di vedere o rivedere. Purtroppo il regista giapponese scomparve prematuramente nel 2010 per un tumore al pancreas. Di lui restano quattro lungometraggi e una serie televisiva in cui ha continuato ad esplorare ed approfondire le tematiche del suo esordio. E ogni suo film è una scoperta visiva ed emotiva. Per la bellezza e la profondità che ha saputo donarci, lo ricordiamo con le sue stesse parole che aveva dedicato al pubblico poco prima di morire: «Pieno di gratitudine per tutto ciò che di buono c’è nel mondo, poso la mia penna. Con permesso. Satoshi Kon».

NOTA: Le immagini riportate nell’articolo sono di proprietà di Nexo Digital

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