Nell’imminenza dell’attacco israeliano a Rafah, l’ultima città palestinese non ancora completamente distrutta, proviamo ad analizzare le tattiche dell’IDF alla luce della particolare natura della società israeliana, di cui l’esercito è uno specchio fedele. Tenendo presente il gioco delle parti che sempre si tiene tra Washington e Tel Aviv.
La guerra biblica che Israele sta conducendo contro i palestinesi, come era facilmente prevedibile, sta raggiungendo il suo limite, senza aver conseguito un solo obiettivo. Naturalmente la propaganda sionista – e quella occidentale di rincalzo – negano tutto il negabile: le ingenti perdite militari, la fuga dal paese degli israeliani con doppia cittadinanza, la crisi socio-economica conseguente alla guerra, la mancata liberazione dei prigionieri israeliani a Gaza, l’impossibilità di smantellare la rete di tunnel della Resistenza, e ovviamente il fatto che l’IDF non sia stato capace di infliggere a questa perdite superiori ad un 20% della sua forza combattente.
Ma ovviamente negare la realtà non serve a trasformarla. E, per di più, non dura a lungo. Quello che è accaduto in questi sei mesi e mezzo è che l’esercito per mezzo secolo ritenuto uno dei più potenti al mondo (nonché “l’esercito più morale del mondo”, nelle parole degli attuali leader sionisti) ha perso l’onore; quello militare, dimostrandosi incapace di sconfiggere un nemico infinitamente inferiore per armamenti, e quello umano, comportandosi sempre più come una banda di criminali di guerra.
Per comprendere Israele, bisogna guardare alla sua storia ed alla sua società, e l’Israel Defence Force è non solo un elemento fondamentale della società israeliana, ma ne è anche uno specchio. In un certo senso, quella che tradizionalmente è una divisione ben presente nelle società occidentali (tra civili e militari), in quella israeliana è quasi inesistente, non solo per via del fatto che la leva (obbligatoria) sia lunga (tre anni) ed estesa ad ambo i sessi, ma perché la società stessa si percepisce come costantemente in armi. Che poi più che essere minacciata da nemici esterni, sia invece essa stessa una costante minaccia per i vicini e per la popolazioni della regione, è qualcosa che ha a che vedere con la percezione soggettiva – ben alimentata dall’ideologia sionista.
Questa osmosi tra esercito e società ha fatto sì che, storicamente, molti dei leader politici israeliani siano stati alti ufficiali dell’IDF, poiché – in una società guerriera – i successi militari diventano automaticamente un trampolino di lancio politico.
Nonostante che, per ragioni puramente propagandistiche, Israele tenda a rappresentarsi come una società estremamente omogenea (al punto da proclamarsi recentemente come “stato degli ebrei”), la realtà è assai diversa. Il primo mito da sfatare è che gli ebrei siano una razza, o quantomeno un’etnia, e non semplicemente i seguaci di una religione. In questo, proprio l’osservazione della società israeliana offre una chiara chiave di lettura. I cittadini israeliani di religione ebraica, infatti, appartengono ad almeno quattro diversi gruppi etnici. Anche se non è molto noto, vi è una comunità di origine etiope (i falascià), la cui immigrazione fu largamente favorita nei decenni passati, proprio per sopperire al gap demografico tra ebrei ed arabi. Ed ancor meno nota – e del resto ancor più piccola – vi è una seconda comunità di ebrei di origine indiana.
Le due maggiori comunità ebraiche israeliane sono comunque quella ashkenazita (cioè gli ebrei di origine europea) e quella sefardita (gli ebrei di origine arabo nord-africana).
A queste due comunità corrispondono, per grandi linee, anche due diversi ruoli nella società, e due diverse visioni della stessa.
Tradizionalmente, le élite politiche israeliane appartengono alla comunità ashkenazita. E sono state a lungo espressione dell’ala socialdemocratica e (poi) liberal del sionismo. Mentre tra i sefarditi prevale un atteggiamento più conservatore.
Entrambe le comunità sono significativamente impegnate nella colonizzazione dei territori occupati, ed a partire da questa realtà si è prodotto un processo sia di radicalizzazione politica (verso l’estrema destra) sia di radicalizzazione religiosa (verso un sionismo messianico).
Questa doppia radicalizzazione, inoltre, va a sommarsi ad una maggiore prolificità dei coloni, rispetto agli israeliani urbanizzati, che quindi va a riflettersi in modo crescente sul diverso peso politico ed elettorale; in una popolazione abbastanza ristretta (gli israeliani di religione ebraica sono meno di otto milioni), basta poco per far pendere la bilancia da una parte piuttosto che da un’altra. E tutto ciò ha un riflesso immediato anche sulle forze armate, che come detto sono un esercito di leva.
La caratteristica dell’esercito israeliano, quindi, è che questa sua forte connessione con la società lo plasma in molti sensi. Poiché infatti la società israeliana è piccola, necessita che le sue risorse umane siano pienamente impegnate nel farla crescere e prosperare; e ciò si traduce nel fatto che, mentre praticamente tutti i cittadini [1] prestano servizio di leva, sono molto pochi coloro che proseguono la carriera militare. Questo produce un fenomeno molto singolare, rispetto alle forze armate degli altri paesi. Mentre infatti in questi sia il corpo ufficiali che quello sottufficiali (cioè l’infrastruttura gerarchica) sono pressoché completamente formati da personale di carriera, nell’esercito israeliano sono prevalentemente di leva. Non è quindi raro trovare ufficiali, anche di grado elevato, molto giovani d’età. Questo comporta non solo un minore controllo lungo la catena di comando, ma ovviamente anche una minore esperienza a vari livelli di questa.
Il fatto che un numero crescente di giovani militari venga dalle colonie dei territori occupati, e siano quindi radicalizzati in senso politico e religioso, si riflette immediatamente sull’atteggiamento nei confronti del nemico palestinese, così come sul fatto che buona parte della linea gerarchica è coperta dai medesimi giovani, il che a sua volta si traduce nel fatto che gli ufficiali condividono questo atteggiamento, e non vi pongono freni.
Questo è ciò che Alastair Crooke [2] definisce “escatologia calda”, ovvero la manifestazione politica e militare di quella parte di società che si ritiene la vera interprete dell’ebraismo, e che tende ad applicare letteralmente e pedissequamente l’Antico Testamento come base normativa e comportamentale. In questo senso, quella che si sta profilando è una trasformazione della società israeliana in senso integralista, quasi prefigurando una sorta di ISIS ebraico.
Le conseguenze pratiche di tutto ciò, sul campo di battaglia, sono tutto sommato abbastanza evidenti.
Unità militari composte da soldati, sottufficiali ed ufficiali giovani e giovanissimi, privi di esperienza di combattimento, ma al tempo stesso carichi di una forte ideologia politico-religiosa nazionalista, che si sono trovati catapultati in una situazione di guerra già di per sé estremamente complicata, stanno prevedibilmente reagendo nel modo sbagliato.
Uno degli aspetti interessanti di questo conflitto, è che si sta per certi versi sviluppando secondo uno schema già visto in Vietnam [3]. Quando gli strateghi del Pentagono cominciarono a rendersi conto che l’esercito americano, con tutta la sua potenza di fuoco, non riusciva ad aver ragione della guerriglia vietcong, cominciarono a pensare che dovessero provare ad applicare una diversa strategia. Poiché la direttiva politica era che bisognava vincere, e d’altra parte i generali non avevano alcuna voglia di andarsene da lì sconfitti, si immaginarono un approccio capace di snidare i guerriglieri, ed avviarono il programma “search and destroy”, che consisteva nel dividere il territorio in settori, e procedere a ripulirli uno dopo l’altro. Il risultato fu che la catena di comando chiedeva risultati, e che questi finivano con l’essere espressi dal numero di vietcong uccisi. Per cui i vari reparti dell’US Army in pratica uccidevano tutti gli uomini dei villaggi, rubricandoli poi come guerriglieri. Esattamente quello che sta facendo l’IDF, che identifica come combattenti di Hamas praticamente tutti i maschi adulti che uccide quotidianamente.
A monte del problema strettamente militare, infatti, c’è quello politico. Colto in contropiede dall’attacco della Resistenza palestinese del 7 ottobre, Israele ha infatti reagito con rabbia e ferocia, ma senza alcuna strategia, cioè senza obiettivi conseguibili e senza una idea sul come conseguirli. Il tutto complicato dal fatto che il capo del governo teme di finire in carcere appena dovesse perdere l’incarico, ed ha quindi tutto l’interesse a tenere aperto il conflitto il più a lungo possibile. L’IDF si è così rapidamente trovato a combattere in una situazione per la quale non solo non era preparato, ma nella quale non ha un percorso chiaro da perseguire, ed in cui invece – nonostante la preponderanza bellica e tecnologica di cui dispone – è l’insieme delle forze che compongono l’Asse della Resistenza a mantenere l’iniziativa strategica.
Di conseguenza, le perdite – sia di attrezzature che di personale – si sono fatte sempre più elevate, a fronte dell’inconsistenza di successi militari acquisiti. Il che, ovviamente, non poteva che produrre frustrazione nelle truppe sul campo. Inevitabile conseguenza, le unità di prima linea perdono il controllo, si abbandonano a saccheggi, a rastrellamenti indiscriminati, a torture ed esecuzioni sommarie.
In questo contesto, Israele è costretto a spostare ancora una volta in avanti la resa dei conti con sé stesso (con i propri fallimenti militari e politici), e quindi – poiché il tentativo di allargare il conflitto contemporaneamente all’Iran ed agli Stati Uniti è miseramente fallito – non ha molte altre chance a disposizione, se non quella di proseguire nell’operazione su Gaza. L’attacco a Rafah è l’ultima spiaggia, e da questo deve sortire qualcosa spendibile come un risultato capace di dare un senso a tutto quanto.
La quadratura del cerchio, però, è più complicata che mai. Washington ha dato il via libera, ma ha assoluto bisogno che l’operazione non si trasformi nell’ennesimo sterminio di massa; la scadenza elettorale si avvicina, e già il clima si sta infuocando nel paese, con le università e le comunità islamiche e nere in rivolta contro le politiche filo-israeliane dell’amministrazione Biden. Pensare di distruggere Hamas, dopo non esserci riusciti in quasi sette mesi, è una pia illusione. Le possibilità di liberare almeno un po’ di prigionieri sono decisamente scarse.
Oltretutto, è facilmente prevedibile che l’attacco all’ultima città della Striscia di Gaza non ancora del tutto rasa al suolo provocherà una reazione su tutti i fronti, da parte dell’Asse della Resistenza. C’è da aspettarsi un moltiplicarsi degli attacchi dal Libano, dall’Iraq, dalla Siria, dallo Yemen. E la Resistenza non ha soltanto l’iniziativa strategica, ma anche la capacità tattica di modulare la propria azione militare in modo tale da impedire l’escalation voluta da Tel Aviv, pur mantenendo una forte incisività. Tutto ciò porta purtroppo a prevedere che, per quanto il gabinetto di guerra vorrebbe evitarlo, l’unico risultato visibile che l’IDF potrà ottenere entrando a Rafah sarà quello di fare una nuova, grande strage di civili palestinesi.
Questo, ovviamente, è semplicemente orribile, e tragico. Il prezzo che il popolo palestinese sta pagando per il suo ostinato rifiuto a sottomettersi – cioè a farsi espellere dal proprio territorio – è enorme. Ma è importante comprendere che la questione è più ampia.
Per Israele, questo è ovviamente un passo verso la realizzazione del sogno di Eretz Israel. E per far sì che si realizzi, bisogna prima di tutto spezzare la resistenza del popolo palestinese, e trasformare in realtà quella che era la doppia menzogna fondativa di Israele: “una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Doppia perché non solo quella terra un popolo lo aveva e ce l’ha, da migliaia di anni, ma perché non c’era neanche un popolo senza terra, ma i seguaci di una religione che intendevano abbandonare le terre in cui vivevano per appropriarsi di quella altrui (un caso tipico di colonialismo). Quindi il genocidio in atto è una misura di terrorismo di massa, che insieme alla distruzione sistematica di Gaza (non solo delle sue abitazioni ed istituzioni, ma anche di tutto ciò che può costituire retaggio culturale e legame con la terra), ed alla fame come arma, punta a spingere i palestinesi ad un esodo di massa, una seconda – e più grande – Nakhba.
Ma per gli Stati Uniti non c’è solo il mantenimento di un presidio in Medio Oriente. Il conflitto israelo-palestinese è oggi anche un test, per comprendere come reagisce il resto del mondo alle proprie politiche egemoniche, portate all’estremo.
In questo senso, Israele gioca il ruolo del proxy esattamente come gli ucraini con i russi. Ed una delle cose che più interessano agli USA è che oggi “Israele è impegnato in uno sforzo deliberato e sistematico per distruggere le leggi e le norme esistenti sulla guerra” [4].
Nella percezione occidentale – o meglio, in quella che la narrazione propagandistica ha fatto sì che divenisse la percezione occidentale – la guerra è una questione sempre più tecnologica, ed anche quando diventa ibrida è da intendersi come giocata su altri piani, diversi dal campo di battaglia e per ciò stesso meno sanguinosi. Ma la realtà – che tutte le guerre contemporanee ci restituiscono, dall’Ucraina alla Palestina, dal Sudan al Myanmar – è che invece sono ancora massicciamente fatte di uomini in carne ed ossa, e che il fattore umano (la capacità di mobilitare ed impegnare manpower) è ancora determinante. Per questo, la possibilità di liberare la guerra da quell’insieme di norme che cercano di circoscriverne gli effetti – si direbbe, di scioglierne i lacci che la tengono legata – diventa un terreno da esplorare con interesse, per chi vede nella guerra la prima e l’ultima risorsa con cui cercare di mantenere il dominio globale.
In questo senso, quindi, Rafah potrebbe essere visto anche come un grande esperimento, per capire se, cosa e come si può fare, spingendosi oltre.
1 – In Israele, almeno fino a ieri, le piccole comunità di ebrei ortodossi erano esentate dal servizio militare, ma una recente legge lo impone ora anche a loro, il che sta suscitando forti proteste da parte delle stesse. Da notare che anche tra queste comunità esistono differenze significative; ve ne sono infatti alcune fortemente sioniste, ed altre che, in virtù della loro interpretazione della Torah, non solo ritengono il sionismo una aberrazione, ma addirittura negano il diritto di Israele ad esistere come stato, e conseguentemente sono filo-palestinesi…
2 – “Will zionism self destruct?”, Alastair Crooke, Strategic Culture
3 – Cfr. “Gaza: The Strategic Imperative”, intervista a Michael Hudson, riportata sul sito dello stesso.
4 – Ibidem