Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’attacco iraniano di ieri non apre una fase di guerra aperta tra Teheran e Tel Aviv. Nonostante tutto, siamo ancora nella fase della deterrenza – o, se si preferisce, del celodurismo.
Indiscutibilmente, e non poteva essere altrimenti, la rappresaglia iraniana è stata su una scala ben maggiore rispetto a quella dello scorso aprile, ed aveva chiaramente lo scopo – ancora una volta – di inviare un messaggio ad Israele ed agli USA; messaggio sia sulla determinazione iraniana a non farsi intimidire, sia sulla propria capacità di risposta militare.
Con l’attacco di ieri, assai spettacolare, l’Iran ha quindi spostato un po’ l’asticella. Non c’è stato il largo preavviso della volta precedente, non c’è stato uso di droni (molto più lenti), la quantità di missili (quasi tutti balistici) è stata significativamente maggiore.

Altri elementi degni di nota dell’operazione sono stati: l’attacco più massiccio ad almeno 4 aeroporti (Tel Nof, Nevatim, Hatzerim, Lod), che rappresentano l’infrastruttura necessaria per l’aviazione – cioè lo strumento con cui maggiormente si manifesta la supremazia militare israeliana; la scelta di bersagli esclusivamente militari (l’occidente è risucchiato nel proprio ombelico, ma il resto del mondo vede la differenza con quanto fa Israele a Gaza ed in Libano); la correlazione diretta tra bersagli e causale (aeroporto Nevatim, sede del Mossad e dell’unità 8200). E, ancora una volta, l’aver utilizzato solo una parte, e non la più avanzata, del proprio arsenale.
Al tempo stesso, non può sfuggire il fatto che ben tre degli obiettivi più rilevanti (Nevatim, Mossad, 8200) siano stati evacuati qualche ora prima, il che – al di là di una certa prevedibilità, e delle capacità d’intelligence – fa sospettare che qualcosa sia stato fatto volutamente filtrare, per ridurre al minimo il numero delle vittime.

Il segnale inequivocabile che, in ogni caso, si sia trattato di un avvertimento, e non dell’avvio di una guerra, sta precisamente nel fatto che l’operazione si è conclusa nel giro di un paio d’ore. Se fossimo stati dinanzi all’inizio di un conflitto, l’attacco sarebbe andato avanti per tutta la notte, e sarebbe ancora in corso, poiché Teheran avrebbe cercato di sfruttare al massimo l’impatto del primo colpo. E, ovviamente, l’estensione e l’intensità dell’attacco sarebbe stata assai maggiore.
Ma, esattamente come accade quando si affrontano due individui che vogliono affermare la propria supremazia l’uno sull’altro, il problema è capire a che punto uno dei due cederà. E naturalmente, poiché qui siamo in presenza di due nazioni – oltre che di ben altri attori che le sostengono – la faccenda è assai più complicata. Oltretutto, è abbastanza evidente che ad essere in gioco è sempre meno il mero rapporto di forze, e sempre più la stessa reciproca esistenza. In questo caso, diventa fondamentale il ruolo di chi può agire se non proprio da mediatore quanto meno da moderatore.

È abbastanza chiaro che, dopo la rappresaglia iraniana per l’attacco israeliano al consolato in Damasco, a convincere Netanyahu a non rispondere a sua volta sono stati gli USA. Ma Washington non ha alcuna prospettiva strategica che preveda la moderazione, si tratta sempre e soltanto di scelte tattiche, opportunistiche. Ed in questa fase non sono particolarmente interessati a farsi coinvolgere in un conflitto mediorientale, le cui conseguenze, oltretutto, sono molto più imprevedibili di quelle del conflitto ucraino.
Al tempo stesso, però, e proprio come in Ucraina, gli Stati Uniti cercano di applicare la strategia della rana bollita, alzando la temperatura un po’ alla volta. Per quanto le situazioni siano ovviamente diverse, sotto molti punti di vista, da quello di Washington gli israeliani sono i propri proxy in Medio Oriente, esattamente come gli ucraini lo sono ai confini russi. Quindi massimo sostegno, se questo serve a logorare l’Iran ed i suoi alleati regionali, e ad innervosire la Russia…, ma la soglia (al momento) invalicabile è che la faccenda deve andare avanti senza che l’U.S. Army debba mettere gli scarponi sul terreno. Anzi, poiché nella regione ne ha già abbondantemente, senza che questi corrano rischi significativi di un massiccio rientro in patria all’interno di sacchi neri.

La questione, quindi (assolutamente dinamica, per niente determinata da prevedibili automatismi), è capire se c’è, e dove si colloca, un punto accettabile al di qua del confine che separa il confronto tra deterrenze e guerra aperta.
In questo momento, la palla è nel campo israelo-americano. E, fondamentalmente, la scelta è tra una replica diretta ed una indiretta.
Se gli USA, insieme ad Israele (e ad altri disposti a seguirli nell’avventura), decidono che vale la pena di alzare ulteriormente la temperatura, convinti che a questo giro sarà l’Iran ad abbozzare (o che comunque il prezzo da pagare sarà accettabile), vedremo una risposta che colpisca direttamente l’Iran. E che, a sua volta, potrà essere diversamente declinata, dall’attacco a qualche base militare secondaria a quello ad impianti di stoccaggio petrolifero, dall’affondamento di qualche nave iraniana ad un attacco su centri di alto valore simbolico, etc. Tenendo comunque presenta la variabile (impazzita) israeliana, che tende comunque a forzare la mano, e quanto più gli USA saranno esposti e coinvolti, tanto più sarà possibile che lo facciano.

Se invece la valutazione sarà che i rischi superino i possibili vantaggi, la replica colpirà interessi iraniani (e dei suoi alleati) fuori dal territorio iraniano; in Siria soprattutto, ma anche in Iraq, in Yemen, in Libano.
Tutto ciò rientra comunque, da ambo le parti, in quello che potremmo considerare un wargame, ma non ancora una guerra.
Guerra che peraltro è già in atto con altri attori, sia pure parzialmente in modo asimmetrico.
Perché il contesto generale rimane il medesimo, ed è sempre opportuno richiamarlo alla memoria.

Israele è in guerra con la Resistenza palestinese da un anno. Un anno durante il quale ha distrutto tutto quanto c’era nella Striscia di Gaza, facendo decine e decine di migliaia di vittime civili, ma senza minimamente venire a capo delle formazioni combattenti palestinesi.
Israele subisce sporadici attacchi dall’Iraq e dallo Yemen, mentre questo ha messo in crisi la sua economia (e non solo la sua) con il blocco navale del Golfo di Aden. Né gli attacchi israeliani, né l’intervento della coalizione aero-navale a guida statunitense, sono stati minimamente in grado di risolvere il problema.
Israele affronta da un anno una guerra di frontiera con Hezbollah, che oltre alle perdite belliche – in termini di infrastrutture, mezzi e personale militare – ha determinato l’evacuazione di un’ampia fascia a nord del paese, con gravi conseguenze sociali ed economiche. Dopo dodici mesi di scambi di colpi – durante i quali la quantità di attacchi israeliani è stata enormemente superiore a quelli provenienti dal Libano – senza riuscire a modificare gli equilibri, Tel Aviv ha provato massicciamente la carta del terrorismo – un po’ confidando nell’effetto intimidatorio, un po’ nella provocazione all’Iran, un po’ nella effettiva capacità di ridurre per questa via l’operatività dell’Asse della Resistenza. Da ultimo, sta provando ad avere ragione di Hezbollah usando la medesima strategia usata contro la Resistenza palestinese – nonostante lì abbia chiaramente fallito: massicci e violenti bombardamenti aerei [1]. Ad ora, anche se sembra avvicinarsi sempre più, l’invasione di terra tarda ad arrivare, segno evidente che lo stato maggiore israeliano è ben consapevole degli enormi rischi che comporta.

Richiamare alla memoria il quadro generale del conflitto, quindi, serve a ricollocare opportunamente in esso tutti gli avvenimenti, anche quando la loro spettacolarità e/o drammaticità tendono a farci scivolare verso l’emotività piuttosto che verso la razionalità.
Nella sua essenza, è questo il baricentro di tutto: Israele sta affrontando la guerra più lunga della sua storia, senza avere alcuna realistica speranza di vincerla, e pertanto trovandosi nella condizione di poter scommettere soltanto sull’espansione del conflitto. Ma il passaggio da un conflitto regionale ad uno globale, attraverso il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti, non solo è estremamente difficile – per le suddette ragioni, Washington non lo vuole – ma peraltro non è affatto garanzia di vittoria. Anche perché, ovviamente, se si globalizza coinvolgerà inevitabilmente Russia e Cina (la prima già presente militarmente nella regione), che hanno nell’Iran un partner strategico ed irrinunciabile. Non solo, infatti, salterebbero completamente i piani di sviluppo della Via della Seta ma, almeno per quanto riguarda Mosca, un’eventuale sconfitta dell’Iran porterebbe conseguentemente alla caduta della Siria di Assad, e quindi a perdere la base navale strategica di Tartus [2] – unico approdo sicuro della flotta russa nel Mediterraneo. Tutti elementi che fanno dell’Iran un elemento irrinunciabile per le strategie geopolitiche di Mosca e Pechino.
Difficile pensare che Washington decida di giocarsi il tutto per tutto qui ed ora. Come sempre, quindi, cercherà di massimizzare il danno per il nemico, e minimizzare quelli per sé ed i suoi proxy, senza avvicinarsi troppo alla sottile linea rossa che separa tutto questo dalla guerra cinetica.


1 – Vale la pena di sottolineare come l’aviazione costituisca la chiave di volta delle strategie israeliane (in effetti, anche di quelle NATO), ma al tempo stesso ne sia il maggior punto debole. Molto probabilmente, quando Teheran afferma di aver distrutto a terra 20 caccia F-35 ed alcuni F-15, si tratta di una stima ottimistica – e propagandistica – degli effetti dei propri attacchi. Ma è abbastanza evidente che colpire gli aeroporti non è semplicemente la risposta diretta agli omicidi terroristici portati a termine dall’aviazione israeliana, ma anche andare ad incidere sulla capacità operativa (offensiva e difensiva) delle forze armate di Tel Aviv. Israele, ricordiamolo, è un paese piccolo (poco meno della Lombardia), con un numero limitato di aeroporti civili e militari. Distruggerne o danneggiarne gravemente le infrastrutture non è poi così difficile, anche alla luce del fatto che le difese anti-missile sono chiaramente saturabili e superabili. Privare Israele della sua aviazione equivarrebbe a metterlo in brache di tela.
2 – Ricordiamo, a tal proposito, che sinora è esistito un agreement di fatto tra Russia ed Israele, in base al quale ogni qualvolta l’aviazione israeliana si apprestava ad effettuare una incursione in territorio siriano, il locale comando russo veniva preavvertito per evitare incidenti. E infatti la contraerea russa non si è mai attivata per intercettare i caccia con la stella di david. Sino a che, pochi giorni fa, questi non hanno cercato di colpire obiettivi vicini a Tartus. In quel caso, tutti i missili lanciati dai caccia israeliani sono stati abbattuti dai russi. Un modo inequivocabile per marcare il territorio.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *