C’è una storia che, forse, non tutti conoscono e che attraversa l’Italia per ben due secoli, fra il Seicento e l’Ottocento. È la storia del Grand Tour, il grande viaggio di formazione che ogni europeo aveva il dovere di compiere per potersi definire una persona per bene. Inglesi, Francesi, Spagnoli, Russi, Polacchi, solcano le strade del nostro territorio per andare alla scoperta del nostro patrimonio culturale, paesaggistico, scientifico, politico, linguistico, antropologico, costituendo “la più grande comunità itinerante che l’Occidente abbia mai conosciuto”. (1)
Il tema ha confini che potrebbero essere allargati a dismisura perché qui arriveranno proprio tutti e se nel precedente articolo della nostra “trilogia del viandante” abbiamo seguito l’itinerario degli stranieri mossi da interessi scientifici, pittorici e archeologici, questa volta ci mettiamo in cammino sulle orme di alcuni dei più grandi geni della letteratura mondiale che ameranno l’Italia come una seconda patria percorrendola da nord a sud e in ogni senso.
GOETHE: “CONOSCI TU IL PAESE DOVE FIORISCONO I LIMONI?” (2)
Il viaggio di Johann Wolfgang von Goethe inizia il 3 settembre del 1786 quando, alle tre di notte, parte con un postale senza salutare nessuno. Il suo Grand Tour è innanzitutto una fuga da Weimar e da quel lavoro al servizio del duca Karl August che, a 37 anni, stava inaridendo la sua creatività. Sperava che l’Italia potesse ispirarlo come intellettuale e farlo rinascere come uomo perché, come dicevano i nordici, il Bel Paese è la migliore medicina per guarire dalla malinconia. Un viaggio a lungo vagheggiato il suo, anche per l’esempio del padre, che lo aveva compiuto nel 1739-40 lasciandone testimonianza in un testo, “Viaggio per l’Italia”, scritto in italiano e per l’influenza del suo maestro, l’ex monaco Domenico Giovinazzi.
In Italia Goethe si fermerà fino al 18 giugno 1788. Quasi due anni che avranno un’influenza decisiva su tutta la sua opera. Mentre viaggia, tiene un diario in cui descrive dettagliatamente ogni tappa, le impressioni che riceve insieme a riflessioni sull’arte, sulla cultura e sulla letteratura. Dopo essere stato rivisto, lo scritto viene pubblicato quasi tre decenni dopo, nel 1829, con il titolo “Italienische Reise” (Viaggio in Italia). (3)
E così scopriamo che, subito dopo aver attraversato il Brennero, giunge a Malcesine sul Lago di Garda dove viene scambiato per una spia austriaca. Lo scrittore era solito fare schizzi dei luoghi visitati (ne riporterà a casa almeno mille) e ciò aveva destato il sospetto che i disegni servissero per preparare un attacco da parte dell’imperatore Giuseppe II essendo, all’epoca, il paese al confine tra la Repubblica di Venezia e l’Austria. Goethe dovette difendersi davanti alla popolazione e alle autorità locali per chiarire l’equivoco: “Lungi dall’essere un suddito dell’imperatore, esclamai, posso vantarmi quanto voi d’essere cittadino di una repubblica che, sebbene non possa essere paragonata per potenza e grandezza all’illustre stato di Venezia, si governa da sola, e non è inferiore ad altre città della Germania per attività commerciale e ricchezza”.
Il viaggio prosegue poi a Verona dove si emoziona davanti all’Arena, che è il primo monumento romano che vede elogiandone lo stato di conservazione, il migliore d’Europa. Quello che Goethe cerca non è tanto l’Italia di Michelangelo, di Leonardo, della grande pittura rinascimentale e barocca, ma l’antichità classica dei Romani e della Magna Grecia. Infatti, non visita Firenze perché “il mio desiderio di arrivare a Roma era cotanto vivo, e cresceva per tal modo ad ogni istante, che non mi riusciva possibile il fermarmi per più di tre ore”, riporta sul suo diario.
Il 1° novembre 1786 arriva finalmente nella “capitale del mondo” e a Roma si comporta come se non avesse mai vissuto da nessun altra parte eleggendola a sua vera patria: “Io, povero uomo del Nord, vedo ora qui avverati i sogni della mia prima gioventù”, scrive in pagine di pura emozione.
Il Colosseo lo scuote nel profondo e congegna un itinerario che gli schiuda ad ogni passo la grande bellezza della classicità. “Voglio vedere la Roma immutabile, non la Roma che trapassa con ogni secolo” annota e si rammarica di come le costruzioni moderne rovinino la vista dei monumenti antichi paragonando gli architetti ai barbari che invadevano Roma nei secoli precedenti.
Memore dell’insegnamento di Winckelmann, lo scrittore tedesco concepisce il viaggio in Italia come un’alta “scuola della vista” e per vedere meglio rilegge sul posto i testi latini e greci, un’operazione che culmina in Sicilia dove ritrova la natura intatta dei poemi omerici: “Non esiste miglior commento all’Odissea” degli arcaici paesaggi siciliani, scrive definendoli “le vette eternamente classiche dell’antichità della terra”.
Goethe è stato uno dei primi turisti stranieri a includere l’isola nel Grand Tour istituzionalizzandola come tappa necessaria: dopo di lui la scoperta della “terra della primavera perenne” conoscerà un successo crescente diventando uno dei motivi più frequenti della letteratura di viaggio sette-ottocentesca. È stato anche il primo ad avventurarsi nelle zone interne perché ad Agrigento, oltre alla Valle dei Templi, resta incantato dalla fertilità dei terreni a grano e desidera vedere i campi che hanno dato il titolo di granaio d’Italia alla Sicilia in epoca romana. Ovvia all’assenza di strutture ricettive cercando ospitalità nei conventi, nelle taverne o presso conoscenti.
ll 9 aprile si reca a villa Pelagonia a Bagheria, dove rimane impressionato dalla bizzarria delle figure mostruose decorative, tanto che la visita influenzerà alcuni passaggi del “Faust” come “la notte di Valpurga” in cui descrive una serie di mostri.
L’itinerario dell’isola lo porta poi a Monreale (dove curiosamente, invece del Duomo, visita il Convento di S. Martino), al Tempio di Segesta, a Castelvetrano, a Sciacca, ai faraglioni di Aci Trezza, a Taormina (che definisce “il più grande capolavoro dell’arte e della natura”), a Catania, dove incontra il principe Biscari ammirando la collezione di opere del suo palazzo e il cavaliere Gioeni, da cui ottiene suggerimenti per salire sull’Etna, cosa che farà a dorso di mulo, ma senza raggiungere la vetta per le condizioni meteorologiche. A Messina si ferma tre giorni descrivendo nel suo diario la città distrutta dal terremoto del 1783.
E tuttavia, dei tanti luoghi visitati, quello che, oltre a Roma, lo ha conquistato veramente è Napoli, a cui dedica pagine sublimi: “Si dica o racconti o dipinga quel che si vuole, ma qui ogni attesa è superata. Queste rive, golfi, insenature, il Vesuvio, la città con i suoi dintorni, i castelli, le ville!”, scrive raccontando di una città “libera, allegra, vivace” e splendida per le sue bellezze.
“È un paradiso, ognuno vive in una specie di ebrezza e di oblio di sé stesso!”, esclama. “Dunque le cose sono due: o ero pazzo prima di giungere qui, oppure lo sono adesso. Siano perdonati tutti quelli che a Napoli escono di senno!”
Ogni vero viaggio implica sempre la fase dello smarrimento, quella in cui si perdono i confini rassicuranti di ciò che si conosceva per aprirsi all’Altro, percorrendo nuove traiettorie. Per l’autore del Faust Napoli rappresenta questo bivio: andare avanti o tornare indietro. In Italia tutto è da vedere perché qui c’è il “tutto” che ad ogni passo si spalanca davanti come un panopticum che minaccia di stordire e risucchiare il visitatore.
Qui bisogna disimparare tutto per poi riapprendere tutto, operando una vera e propria conversione epistemologica. Come ha scritto Luigi Pareyson, l’esperienza estetica maturata in Italia dal poeta tedesco diventa da allora inseparabile da quella scientifica e filosofica. Sarà infatti proprio di ritorno dal Tour che Goethe inizierà a dedicarsi sistematicamente allo studio scientifico della natura andando oltre le ristrettezze materialistiche degli scienziati del suo tempo, limitate a una concezione meramente meccanicista dei fenomeni. Creerà opere importanti come la “Metamorfosi delle piante” e la “Teoria dei colori” e concepirà l’artista veramente come uno scienziato perché, lungi dal seguire un caos sconnesso di sentimenti, riesce a penetrare l’ordine intimo delle leggi naturali.
Goethe arriva in Italia già noto per il Werter e si cambia il nome per non essere riconosciuto spostandosi sotto pseudonimo in una sorta di rito di passaggio in cui occorre dimenticare ciò che si era per ritrovare se stessi.
Il suo viaggio è fondamentalmente un percorso tra i meandri della sua anima, un itinerario che procede tastando il suolo italico come un rabdomante alla ricerca delle pietre dei monumenti antichi, dei minerali e delle specie vegetali che incontra nel suo cammino (Linneo è fra i pochi libri che porta da Weimar). Un viaggio che, passo dopo passo, lo conduce a sconfinare in una dimensione metastorica dove poter sublimare il particolare nell’universale, il fisico nel metafisico, sempre in bilico tra la tradizione dei Lumi e le pulsioni dello Sturm und Drang.
Nel suo secondo viaggio in Italia, Goethe scriverà in una lettera:
“L’Italia è ancora come la lasciai, ancora polvere sulle strade, ancora truffe al forestiero, si presenti come vuole. Onestà tedesca ovunque cercherai invano, c’è vita e animazione qui, ma non ordine e disciplina. Ognuno pensa per sé, è vano, dell’altro diffida, e i capi dello stato, pure loro, pensano solo per sé. Bello è il paese! Ma Faustina, ahimè, più non ritrovo. Non è più questa l’Italia che lasciai con dolore”.
BYRON: “IL FATAL DONO DELLA BELLEZZA”
Nell’estate del 1809 il poeta inglese George Gordon Byron (1788-1824) intraprende il Grand Tour accompagnato dall’amico e politico John Hobhouse spostandosi fra Milano, Venezia e Ravenna. (4)
È un viaggio che gli cambia la vita e che ispira il IV canto de “Il pellegrinaggio del giovane Aroldo”, composto fra il 1812 e il 1818, poema che narra le avventure di un personaggio in cerca di una nuova esistenza in terre straniere. (5)
Dopo aver viaggiato in Spagna, Portogallo, Albania, Grecia e Belgio (descritti nei primi tre canti), Aroldo supera le Alpi e Byron abbandona la finzione del pellegrino proseguendo la narrazione in prima persona in totale immedesimazione con il suo personaggio. L’opera ottiene subito un grande successo e concorre a creare il mito dell’eroe romantico che incarna le inquietudini, le intemperanze, le malinconie e le appassionate ribellioni contro la società dello stesso Byron.
È sul “ponte dei sospiri” di Venezia che inizia il IV canto del poema: “Ero a Venezia sul Ponte dei Sospiri; un palazzo da un lato, dall’altro una prigione; vidi il suo profilo emergere dall’acqua come al tocco della bacchetta di un mago”.
Anzi, secondo la tradizione popolare, è stato proprio il poeta inglese a dare tale appellativo al ponte coperto che collega Palazzo Ducale alle Prigioni Nuove (primo esempio della storia di costruzione isolata a blocco, unifunzionale, destinata a carcere di Stato), ispirandosi alle afflizioni che i condannati dovevano provare attraversandolo davanti alla prospettiva di vedere per l’ultima volta il cielo attraverso le sue finestre.
Il racconto prosegue ad Arquà per visitare la tomba di Petrarca, a Ferrara per vedere la città di Torquato Tasso, a Firenze per omaggiare la Basilica di Santa Croce dove sono sepolti i grandi, per poi attraversare il Trasimeno giungendo alle fonti del Clitumno e concludere il viaggio a Roma, “l’eterna città dell’anima”.
Sullo sfondo dell’Europa napoleonica definitivamente sconfitta e il trionfo della Restaurazione, Byron alza in tutto il poema il suo urlo di dolore per l’amatissima Italia, culla dell’arte e della letteratura, ostaggio delle monarchie secolari, invasa e conquistata da orde di stranieri che “scendono dalle Alpi per bere l’acqua del Po”.
Dotata del “fatal dono della bellezza” e perciò desiderata da tutti, Byron spera che l’Italia diventi meno bella, ma più potente per riuscire a difendersi e a cacciare dal proprio suolo gli “atterriti briganti” stranieri causa di oppressione e di dolore, anche se teme che sia destinata o ad essere vinta dai nemici, quindi loro schiava, o ad essere vincitrice, ma con l’aiuto della spada straniera e quindi schiava dei suoi alleati. La contemplazione della natura e dei fasti del passato stridono agli occhi dello scrittore con la decadenza del presente verso cui il poeta mostra una vera insofferenza frenando a fatica il vigore di una riscossa culturale e politica.
Visionario, idealista, avventuroso, sempre pronto a lanciarsi in difesa degli emarginati e dei popoli oppressi, lottò in prima persona per i suoi ideali liberali, trovando la morte a soli 36 anni in Grecia dove era andato per combattere la dominazione turca.
Dopo l’esperienza del Grand Tour, il genio della poesia romantica torna in Italia nel 1817 e vi rimane fino al 1823 componendo le sue opere più note. Un’esistenza inquieta la sua, tra avventure amorose, scandali, passioni politiche, fughe obbligate e una vasta produzione letteraria che si snoda fra Venezia, Ravenna, Pisa, Livorno, Porto Venere e Roma.
Va ad abitare a Mira, a 20 km da Venezia, presso villa Foscarini dei Carmini, allaccia rapporti amorosi con diverse donne locali, compone versi e studia l’italiano, l’armeno e il veneto. Poco dopo si trasferisce a Venezia, famosa per essere la capitale europea dei liberi costumi, dei postriboli, del gioco d’azzardo e di tutta una serie di attrazioni sentite da un uomo avido di conoscere il mondo quale era lui. Frequenta il Caffè Florian in piazza San Marco, il caffè più antico del mondo e luogo di ritrovo di illustri personalità come Carlo Goldoni, Charles Dickens, Silvio Pellico e Wolfgang Goethe.
Nella città lagunare è dapprima ospite del mercante tessile Pietro Segati, del quale seduce la moglie Marianna (come racconta in una lettera allo scrittore irlandese Thomas Moore), poi, nel 1818, si trasferisce a Palazzo Mocenigo affacciato sul Canal Grande dove scrive “Beppo” e i primi canti di “Don Juan”.
Conosce Teresa Gamba in Guiccioli, moglie di un ricco ravennate, che diventa la compagna di una passione struggente ed assoluta per la quale si trasferisce a Ravenna dove compone altri tre canti del “Don Juan” e nel 1821 scrive le tragedie teatrali “Marin Faliero”, “Sardanapalo” e “I due Foscari”.
Grande ammiratore della letteratura italiana, visita Ferrara e si fa rinchiudere nella cella del Tasso per comporre il “Lamento del Tasso” (1817), testo che contribuirà all’affermazione del mito romantico del poeta italiano.
Fra Sette e Ottocento, infatti, l’autore della “Gerusalemme liberata” diventa oggetto di un vero culto letterario: la sua vita errante, il conflitto tra il poeta e il principe e soprattutto la sua “follia” vengono letti come l’espressione di una sensibilità eccezionale, l’immagine stessa dell’artista geniale e incompreso, isolato dal mondo e destinato a scontrarsi sempre con esso, tutti temi di grande fascinazione ed ispirazione. Già Goethe aveva dato un contributo decisivo alla diffusione in tutta Europa del suo mito con l’opera drammatica “Tasso”, pubblicata nel 1790. Nel suo diario aveva annotato al 16 ottobre 1786 la visita ferrarese al monumento dell’Ariosto e alla prigione di Tasso, aggiungendo che “in tutto l’edificio non c’è un cane che vi sappia dar qualche informazione a proposito. Ci vuole la mancia, perché finalmente comincino a raccapezzarsi”.
La prigione di S. Anna diviene un topos letterario, uno spazio simbolico, un luogo senza frontiere dove si incrociano, al di là del tempo, i percorsi geografici e poetici di scrittori convenuti da ogni parte d’Europa quali Montaigne, Lamartine, Stendhal, Samuel Rogers, Luise Colet, Delacroix, Baudelaire.
A Ravenna Byron entra nella carboneria grazie al conte Gamba, fratello di Teresa, ma il fallimento dei moti lo costringe a fuggire insieme all’amata a Pisa dove scrive le tragedie “Werner o l’eredità”, “Deformed Transformed” e altri quattro canti del “Don Juan”. Dopo che un suo domestico viene coinvolto in una rissa con un sottufficiale dei dragoni, scappa anche da Pisa e vive a Livorno per sei settimane soggiornando a Villa Dupouy.
Nel 1822 si sposta a Porto Venere, nel Golfo di La Spezia, dove frequenta i coniugi Shelley, suoi grandi amici, che vivono nel vicino borgo di San Terenzo. Si narra che, un giorno, per andarli a trovare, abbia nuotato per otto chilometri attraversando il golfo. Ancora oggi la “Grotta di Byron” ricorda il luogo dove il poeta restava a lungo a meditare in riva al mar Ligure.
Dopo la morte della figlia Allegra, lo scrittore torna a Ravenna con Teresa e nel 1823 si imbarca a Genova con il conte Gamba per la Grecia, dove morirà l’anno successivo a Missolungi. La sua tragica morte ha reso Byron un martire della libertà consacrandolo come l’eroe romantico per eccellenza.
MARY E PERCY SHELLEY, IL GOLFO DEI POETI
Anche Mary Wollstonecraft Shelley (1797–1851) si innamora del Bel Paese durante il suo Grand Tour. Ci vive a lungo e prende a cuore la causa del paese oppresso. Ma per l’autrice di “Frankenstein o il moderno Prometeo” l’Italia è soprattutto il luogo del suo amore assoluto e tragico per Percy Bysshe Shelley, il genio del Romanticismo che ha scritto alcune delle sue opere più visionarie proprio qui.
Per lei lui lascia moglie e figli. Per lui lei lascia una vita agiata in un ambiente intellettualmente stimolante (era figlia della scrittrice Mary Wollstonecraft e del filosofo William Godwin). In fuga da Londra, i due si sposano dopo il suicidio della moglie di Percy e arrivano a Milano nel marzo del 1818, passando prima da Ginevra, ospiti dell’amico Byron (che nel frattempo era diventato l’amante della sorellastra di Mary), dove la scrittrice inglese concepisce il suo capolavoro noir.
Il loro Grand Tour fa tappa a Como, Venezia, Este sui Colli Euganei (di nuovo ospiti di Byron) per poi fermarsi a Napoli da dicembre del 1818 a febbraio dell’anno successivo. Affittano una casa affacciata sul golfo a Chiaia, salgono sul Vesuvio, visitano Paestum, Pompei, Ercolano e la costiera amalfitana.
Nel 1820 si spostano a Roma dove frequentano il poeta inglese John Keats per il quale l’Italia rappresentava l’ultima speranza di guarigione dalla tubercolosi, malattia piuttosto diffusa all’epoca la cui unica cura consisteva nel trasferimento in zone dal clima mite. Speranza che, tuttavia, svaniva giorno dopo giorno: “Ho la sensazione continua che la mia vita reale sia già passata, e di star quindi conducendo un’esistenza postuma”, scrive infatti in una lettera.
Le sue impressioni sono corrette e appena tre mesi dopo il suo arrivo nella Capitale, Keats muore il 23 febbraio 1821, a soli venticinque anni, nel suo alloggio in piazza di Spagna. Viene sepolto nel cimitero di Testaccio a Roma. Sulla tomba non vuole né il nome né la data di morte, ma semplicemente un breve epitaffio (6).
Addolorato per la perdita dell’amico, Percy che considera i poeti “i non riconosciuti legislatori del mondo”, gli dedicherà versi sublimi: “Egli ha sorpassata l’ombra della nostra notte; né invidia né calunnia, né odio né pena, né l’inquietudine che gli uomini a torto chiamano voluttà, possono più toccarlo e torturarlo ancora. Dal contagio lento della macchia del mondo egli è salvo…”.
Subito dopo, gli Shelley si trasferiscono a Firenze, dove nasce il loro unico figlio Florence (ne avevano già persi tre dopo pochi giorni di vita), poi a Pisa e, infine, nell’estate del 1822 a San Terenzo, un borgo di pescatori vicino a Lerici in Liguria. Li raggiunge anche Byron ed è Mary a trovargli la nuova casa, la nota Villa Saluzzo.
Ed è proprio qui, nel golfo di La Spezia, che l’8 luglio del 1822 Percy perde la vita ad appena trent’anni durante il naufragio della sua goletta. Il corpo viene restituito dal mare a Viareggio dieci giorni dopo. E quell’amore così potente, iniziato con un colpo di fulmine e finito in mezzo ad una tempesta, sembra davvero aver seguito le orme dell’ispirazione poetica romantica. Da allora le acque spezzine hanno preso il nome di “Golfo dei Poeti”, in onore dei tre grandi autori inglesi e di tutti gli altri immensi artisti che vi hanno trovato ispirazione come Arnold Böcklin in opere che hanno segnato la svolta simbolista della pittura europea.
E possiamo dire oggi, in tempi dominati dai novelli Prometei in perenne sfida all’ordine costituito della natura che ci assediano con i loro Frankenstein fatti di intelligenza artificiale, manipolazione genetica e transumanesimo che, fra i tre, la più profetica è stata Mary: “Ho visto il pallido studioso delle arti proibite inginocchiarsi accanto alla cosa che aveva creato. Ho visto l’orrendo fantasma di un uomo disteso lì, e poi, per qualche potente meccanismo, ha mostrato segni di vita e si è mosso con un movimento irrequieto e innaturale. Per quanto terribile fosse; poiché estremamente spaventoso sarebbe qualsiasi tentativo umano di deridere lo stupendo meccanismo del creatore del mondo”.
Dopo la perdita del marito, la Shelley rientra a Londra e si mantiene con gli introiti guadagnati come scrittrice di romanzi storici, racconti, saggi e traduzioni di autori come Lord Byron. Si dedica anche alla promozione delle opere del marito, con più successo di quanto lui stesso avesse avuto in vita. Tornerà in Italia solo nel 1840 per accompagnare il figlio nel proprio Grand Tour, durante il quale scrive un diario pubblicato nel 1844 con il titolo di “Ramblees in Germany and Italy”. Mary muore il 1° febbraio del 1851 e quando Florence apre lo scrigno che la madre teneva sulla scrivania trova una delle ultime poesie del padre (“Adonais, Elegia sulla morte di John Keats”) e un involucro di seta in cui erano custoditi i resti del cuore di Percy ormai calcificato: Mary li aveva conservati per oltre trent’anni, a testimonianza del suo amore devoto e immortale.
Percy Shelley è stato sepolto a Roma accanto a John Keats e nel 1909 l’ultima dimora di Keats, a fianco della Scalinata di piazza di Spagna, in cui aveva abitato anche Lord Byron, è stata trasformata nel museo dedicato ai tre massimi esponenti della seconda generazione romantica, oltre che ad alcuni altri grandi geni della letteratura (come John Milton, Oscar Wilde, Jorge Luis Borges e Walt Whitman), che in Italia hanno trovato così tanta ispirazione.
Il viaggio continua…segui la trilogia del viandante:
- Grand Tour: il grande viaggio in Italia dell’élite europea
- Viaggio in Italia sulle orme dei grandi scrittori
- Turismo di massa o delle false partenze.
NOTE
- Cesare De Seta, “L’Italia nello specchio del Grand Tour”, 2014
- “Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni?” è una lirica che Goethe inserisce nel romanzo “Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister” (1796) e fa pronunciare a Mignon, una ragazzina di origini italiane: “Conosci il paese dove fioriscono i limoni? Nel verde fogliame splendono arance d’oro. Un vento lieve spira dal cielo azzurro. Tranquillo è il mirto, sereno l’alloro. Lo conosci tu? Laggiù, laggiù. Vorrei con te, o mio amato, andare!”
- Goethe, “Viaggio in Italia”, pubblicato in due volumi nel 1816 e nel 1817.
- John Hobhouse, “Italy: Remarks Made in Several Visits, from the Year 1816 to 1854”.
- George Gordon Byron, “Il pellegrinaggio del giovane Aroldo”, 1818.
- “Questa tomba contiene i resti mortali di un giovane poeta inglese che, sul letto di morte, nell’amarezza del suo cuore, di fronte al potere maligno dei suoi nemici, volle che fossero incise queste parole sulla sua lapide: Qui giace un uomo il cui nome fu scritto nell’acqua”.
- Mary Shelley, “A zonzo per la Germania e per l’Italia”, Editrice Clinamen, 2004