Siamo felici di inaugurare, con questo articolo, una nuova collaborazione con Domenico Fiormonte, professore associato presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Roma Tre. Di formazione linguista, sociologo per vocazione, per vent’anni si è occupato di problemi di digitalizzazione delle risorse culturali e degli aspetti geopolitici della produzione e del controllo della conoscenza. Dopo molti viaggi e soggiorni di studio nel cosiddetto “sud globale”, è approdato in Tanzania. Questo pellegrinaggio trentennale ha cambiato radicalmente la sua visione della ricerca. Oggi è un convinto sostenitore della decolonizzazione della scienza, dell’istruzione e dei media. Dal 2022 collabora con l’Università di Dar es Salaam, dove è attualmente research associate.

Con questo testo inizio il mio “Diario di un mzungu” una rubrica trisettimanale in cui, in modo asistematico e rapsodico, cercherò di offrire ai lettori di Giubbe Rosse lacerti della mia esperienza quotidiana di “uomo bianco” (in lingua swahili mzungu) in Africa orientale. Si tratterà dunque di riflessioni, recensioni e commenti su fatti, libri, eventi e persone che via via, ho incontrato o vissuto nel corso dei miei soggiorni. Senza nessuna pretesa di passare come esperto africanista, voglio sperare che il mio contributo possa aiutare a controbilanciare, soprattutto in questi tempi di cinica “riscoperta” del continente, la mistificazione e la superficialità delle rappresentazioni occidentali dell’Africa. Dando voce a chi in Africa ci vive: o perché ci è nato o perché l’ha scelta come casa.
D. F.
Il denaro, fondamentalmente, serve a comprare tempo. Ogni altra cosa che ne discende, status, benessere fisico, potere (materiale e simbolico) ecc. sono in tutti derivati o surrogati del tempo. Il tempo è l’unica cosa intangibile che si può comprare. Si può comprare la bellezza? Non proprio. E la simpatia? Nemmeno. La forza, la dolcezza, il carisma? Non direi. A meno di non comprare altro che ci illudiamo ci possa dare tutto ciò: da una crema viso a uno schiavo. Il tempo dunque, soprattutto in occidente, è la merce che precede ogni merce. Di fatto, il rapporto del capitale con il tempo non è solo un rapporto di rapina e sfruttamento, di regolazione e gestione, ma un rapporto di disperazione. Sebbene non sia oggetto di questa riflessione, non appare casuale che i grandi capitalisti contemporanei siano ossessionati dal tempo: da un lato per prolungarlo artificialmente (Elon Musk), dall’altro per controllarlo biopoliticamente (Bill Gates). Tuttavia, ovunque vi sia una concezione del tempo diversa dalla nostra, lì il rapporto fra noi e la merce, si incrina.

Danilo Dolci nel 1964 si reca in visita in Senegal e Ghana, da pochi anni indipendenti, tenendo uno scarno, quasi impersonale giornale di viaggio per il quotidiano L’ora di Palermo. I testi verranno poi raccolti in quel libro straordinario che è Verso un mondo nuovo (Einaudi, 1964) Nelle primissime pagine, al suo arrivo a Dakar, chiede al suo amico che lo accompagna in auto di lasciarlo nel “quartiere indigeno” per poter osservare senza filtri come vivono le persone comuni. Camminando tra file di baracche di lamiera (“ogni immagine mi arriva frammentata, intensa; ogni impressione quasi mi ferisce”), a un certo punto osserva: “Quattro operai seduti sul marciapiede spaccano pietre col martello ma non capisco se stanno riposando o lavorando.” Questa osservazione, apparentemente banale, è in realtà una sorta di manifesto del nostro rapporto con l’Africa (e non solo). Persino a Dolci, al quale certo non difettavano empatia e sensibilità interculturale, sembra sfuggire il rapporto dei due africani con il tempo. Non si tratta solo di ritmi diversi (dettati da fattori come clima, fatica, fame o altro) o di distinguere il lavoro dal riposo come attività visibilmente (socialmente) separate. Si tratta di comprendere una relazione col tempo che è singolare, locale, delimitata e non universale e “storica”. Chiunque ha viaggiato nel Sud del mondo, e soprattutto nell’Africa subsahariana, ha fatto esperienza, anche a livello superficiale, di questo tempo parallelo in cui vivono altri esseri umani. Tendiamo a riassumerlo con luoghi comuni, senza entrare in profondità, spazientendoci o rilassandoci, a seconda dei casi. Un esempio forse può aiutare a comprendere ciò che intendo dire.

Secondo alcuni studiosi decoloniali in America Latina i due simboli principali della colonizzazione furono la croce e l’orologio. Entrambi hanno a che fare con il tempo, ma indubbiamente l’orologio è lo strumento che sconvolge, sostituisce o cancella le cosmovisioni indigene. A partire da metà del Seicento i gesuiti, nelle loro missioni in Argentina, iniziarono a costruire orologi solari che avevano lo scopo di scandire i ritmi di lavoro degli indigeni. Il dominio sull’indigeno era il dominio del suo tempo. Fondato inizialmente con la violenza della spada, croce e orologio divengono alleati nel consolidare e perpetuare l’ordine coloniale.
Il più grave ostacolo per un compiuto sviluppo del capitalismo occidentale nei paesi che definiamo “in via di sviluppo” a mio parere non è la mancanza di istruzione, le malattie, la povertà, la geografia o la storia o tutto ciò che noi non esitiamo a definire “arretrato” (tradendo così, ancora una volta, la nostra concezione suprematista del tempo). Questo non vuol dire negare gli infiniti fattori endogeni alla base dei problemi di questi paesi. Il problema (il nostro problema) è che il tempo, soprattutto in Africa, non si è ancora completamente trasformato in merce. In qualcosa che sia sempre e comunque agevole comprare e scambiare. Certo si intravedono i segnali di avanzata (e forse definitiva vittoria) del capitalismo cronofago. Ma l’orologio scorre ancora in un senso diverso – e, per noi occidentali, spesso ignoto.
Gli africani non sono ancora tutti “consumatori” di tempo. Solo con grande fatica il tempo può essere collegato allo scorrere di un “qualcosa” esterno al soggetto. La storia, le storie, sono ancora legate assieme alla vita. WhatsApp e Instagram sono diffusi, ma la realtà resiste ostinata al di qua del tempo della Grande Narrazione. Tutto, compreso il telefono (che a causa dell’inaffidabilità della rete non sempre è uno smartphone), è al servizio delle necessità immediate. La povertà costringe l’essere umano a un rapporto contingente con la tecnologia (altro fattore essenziale di “resistenza”). Quando non si ha tutto, non si fanno piani a lungo termine. Il corpo non è funzione di un’estetica fuori dal tempo, ma è perennemente in lotta per l’esistenza (il che non vuol dire necessariamente “sopravvivenza”). La povertà, per quanto sia orribile, è la vittima, ma ancor di più il nemico del tempo del capitale (la Chiesa cattolica lo sapeva benissimo, ma poi ha abbandonato il progetto…). Il capitale ha bisogno di schiavi, ma creando schiavi finisce per svincolarli dal rapporto di sottomissione al bisogno della merce-tempo. Alla fame si deve invece sostituire la fame di tempo: ma mentre la prima può essere (materialmente) soddisfatta, nessuna sostanza materiale può saziare il cronofago. Per questa ragione l’esperimento di colonizzazione più riuscito da parte del capitale è l’occidente. Ma, dove non è (ancora) possibile espandere il desiderio astratto e infinito, lì è la miseria. È una miseria necessaria per il capitale. Ma è anche la sua condanna. Perché o il potere attuale, rischiando però di estinguersi, riesce a estendere a tutto il globo il “benessere” occidentale e il suo bisogno infinito di tempo, oppure il tempo della povertà finirà comunque per inglobarlo e distruggerlo. La partita attuale è fra queste due fazioni. Vari tentativi in realtà sono stati fatti per infondere lo “spirito del capitalismo” nella povertà. Si è prodotta una schizofrenia violenta, rivolte e guerre, ma non una vittoria. Questo perché il prezzo da pagare per esportare le proprie illusioni e “sradicare” la miseria avrebbe dei costi inaccettabili per il capitale. Qual è allora la risposta dei padroni? La sappiamo: saccheggio della natura e depopolazione. Ovvero comprare ancora tempo. Distruggere la vita, per far guadagnare al capitalismo un’altra manciata di secoli.