IL PIANO EGIZIANO PER GAZA OSTACOLATO DALLA MESCHINITÀ ARABA

DiOld Hunter

14 Marzo 2025
Il tentativo del Cairo di ottenere un sostegno regionale per la ricostruzione di Gaza – e di affossare il piano di Trump per la Riviera – ha incontrato ostacoli: i leader sauditi ed emiratini hanno esitato, l’Algeria ha preso le distanze e Washington si è confrontata direttamente con Hamas.

del Corrispondente in Palestina di The Cradle    –    Traduzione a cura di Old Hunter

La risposta del Cairo al piano sfrontato del presidente degli Stati Uniti Donald Trump per la Riviera di Gaza, che esige che Egitto e Giordania assorbano centinaia di migliaia di rifugiati della Striscia, si è sviluppata in un approccio calcolato e articolato in più fasi. La richiesta di Trump, brusca e destabilizzante, ha preso di mira due stati arabi che da tempo mantengono accordi di pace con lo stato di occupazione israeliano. La Giordania, che dovrebbe sostenere l’onere maggiore, si è da allora appoggiata pesantemente all’Egitto per sottrarsi al piano statunitense, cercando anche il sostegno dei suoi alleati di lunga data nel Golfo Persico. Per seppellire il progetto Riviera, il Cairo ha lavorato per creare un piano alternativo, una strategia graduale che possa ottenere il consenso e attrarre il maggior numero possibile di parti interessate. La prima mossa è stata un mini-summit di alto livello a Riyadh il 21 febbraio, dove il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi ha incontrato il re di Giordania Abdullah II, l’emiro del Qatar Tamim bin Hamad, il presidente degli Emirati Arabi Uniti Mohammed bin Zayed (MbZ), l’emiro del Kuwait Meshal Al-Ahmad e il principe ereditario del Bahrein, Salman bin Hamad. Questo incontro mirava a coordinare una risposta alla crisi innescata da Trump e a valutare la volontà collettiva della regione di resistere alle pressioni degli Stati Uniti. Giorni dopo, il 26 febbraio, l’Egitto ha inviato a Washington una delegazione non ufficiale di esperti statisti anziani dell’era Mubarak, dove hanno interagito con funzionari statunitensi sia attuali che ex, per sfruttare la loro profonda conoscenza del processo decisionale americano e per dare forma, o almeno modificare, la visione dell’amministrazione Trump per Gaza. Gli incontri erano stati progettati per testare le acque a Washington ed esplorare possibili aggiustamenti alla strategia egiziana. Mentre la tensione saliva, il Cairo ha convocato un vertice arabo di emergenza il 4 marzo, nel tentativo di ottenere un sostegno regionale. Ma le crepe – e gli ego – all’interno del campo arabo sono state evidenti fin da subito. Mentre l’emiro del Qatar, Tamim, ha partecipato personalmente, sia MbZ degli Emirati Arabi Uniti che il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MbS) non sono intervenuti, inviando solo i loro ministri degli esteri.  La loro assenza era un segnale chiaro: non si sarebbero pubblicamente allineati alla posizione dell’Egitto senza ottenere significative concessioni. 

Emergono profonde divisioni

L’assenza di MbZ e MbS dal summit del Cairo ha reso evidente una crescente frattura iniziata durante il precedente incontro a Riyadh. La loro partecipazione avrebbe indicato un sostegno diretto alla gestione della crisi da parte dell’Egitto, qualcosa che nessuno dei due leader era disposto incondizionatamente a concedere. Fonti informate hanno riferito a The Cradle che MbS è rimasto aperto all’assorbimento di parte dei rifugiati di Gaza da parte di Egitto e Giordania, ma solo in proporzione alle rispettive popolazioni ed economie. Tuttavia, il principale punto di scontro è stato il futuro politico di Gaza. I due leader hanno insistito per eliminare completamente l’influenza di Hamas, mentre l’Egitto rimane dell’idea di mantenere la presenza del movimento, anche se in una veste ridotta e non politica. Gli stessi Emirati Arabi Uniti hanno avanzato la proposta di una supervisione internazionale di Gaza, abbinata a un’amministrazione gestita da arabi e sostenuta da 15 miliardi di dollari di aiuti economici in tre anni. L’Egitto ha subito respinto questa idea, temendo che avrebbe spianato la strada a uno sfollamento permanente dei palestinesi. La Giordania si è ugualmente opposta, non essendo disposta ad assorbire 300.000 rifugiati in più entro il 2026. Come spiega una fonte egiziana a The Cradle:

“Poiché il Cairo punta sui finanziamenti sauditi ed emiratini per il suo piano, Riyadh e Abu Dhabi hanno chiesto un ruolo più visibile a Gaza, che superi l’influenza del Qatar. Vogliono inoltre che questa presenza rifletta il loro potere regionale, che garantisca che a livello arabo il dossier di Gaza non sia gestito esclusivamente dall’Egitto e garantisca che i loro contributi finanziari non finiscano per aiutare Hamas”.

Dietro le quinte, anche i funzionari statunitensi hanno lavorato per plasmare gli eventi. Tra il 23 e il 25 febbraio sono giunte notizie di inviati americani che hanno effettuato visite pre-vertice nella regione, offrendo all’Arabia Saudita incentivi agli investimenti – in particolare nel suo progetto di una megalopoli NEOM – in cambio di pressioni sul Cairo e su Amman affinché accettino il piano di Trump. Washington ha persino trasmesso i risultati dell’incontro di Riyadh direttamente al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che continua a sperare in una normalizzazione con il regno. L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) con sede in Cisgiordania è stata completamente assente al vertice di Riyadh e non è stato emesso alcun comunicato finale. Il Qatar ha tentato di sostenere l’inclusione di Hamas in qualsiasi quadro politico futuro, ma i suoi sforzi sono stati rapidamente bloccati da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Giordania. Nel frattempo, l’Oman ha rifiutato del tutto di partecipare, rimanendo fedele alla sua tradizionale posizione di neutralità.   

Vertice del Cairo: un incontro riluttante 

I vertici arabi raramente avvengono senza drammi, ma questo ha assunto un’atmosfera particolarmente pesante. Sebbene i partecipanti si siano riuniti per affrontare una crisi orribile delle proporzioni della Nakba del 1948, non ci sono state soluzioni chiare in vista. Le discussioni si sono concentrate sulla minaccia incombente di un trasferimento forzato di massa della popolazione da Gaza, sullo sfondo di una amministrazione statunitense che spinge per un programma regionale aggressivo. L’assenza di MbZ e MbS non è stato l’unico smacco diplomatico degno di nota. La decisione del presidente algerino Abdelmadjid Tebboune di inviare il suo ministro degli esteri anziché presenziare personalmente riflette la frustrazione dell’Algeria per essere stata esclusa dai colloqui preparatori. Fonti egiziane hanno riferito  a The Cradle che “Tebboune è contrariato per l’omissione dell’Algeria dagli incontri preparatori e dal mancato inoltro di un invito a partecipare alla riunione consultiva di Riyadh, oltre al fatto che il Cairo non ha inviato un funzionario di alto livello per invitare l’Algeria, come hanno fatto altri Paesi” – con l’algerino che allude non tanto velatamente al “monopolio di alcuni Paesi nella decisione araba”. Sotto queste tensioni diplomatiche si nasconde una storia più profonda di attriti tra il Cairo e Algeri sulle questioni palestinesi. L’Algeria si è sempre più posizionata come mediatore tra Fatah e Hamas, ospitando colloqui di riconciliazione che tradizionalmente erano di competenza dell’Egitto. Sebbene le relazioni siano rimaste tese, si è cercato di organizzare un incontro tra Sisi e Tebboune in occasione di un prossimo evento internazionale per appianare le tensioni, soprattutto in considerazione del fatto che l’Egitto ha bisogno del sostegno algerino su varie questioni regionali e africane.

Il programma parallelo dell’ANP

Mentre l’Egitto sosteneva con forza la propria visione per il futuro di Gaza, il presidente dell’Autorità Palestinese (ANP), Mahmoud Abbas, spingeva silenziosamente al Cairo una proposta rivale, incentrata sul ripristino del pieno controllo dell’ANP sulla Striscia di Gaza. Il suo piano prevede l’amministrazione da parte dell’ANP dei valichi di frontiera di Gaza – compresi Rafah e Kerem Shalom – in un quadro che assomiglia alla sua attuale “autorità” nella Cisgiordania occupata. Abbas ha fatto pressioni sull’Arabia Saudita per ottenere supporto al vertice del Cairo, ma Egitto ed Emirati Arabi Uniti hanno entrambi respinto la sua visione come obsoleta e inattuabile. Abu Dhabi era particolarmente scettico, temendo che l’altamente impopolare ANP avrebbe gestito male i fondi per la ricostruzione e non abbia la capacità di governare Gaza dopo un’assenza di 17 anni. Tuttavia, Abbas ha sorpreso molti annunciando un perdono di massa per gli ex membri di Fatah, una mossa ampiamente interpretata come un tentativo di spianare la strada al ritorno politico di Mohammed Dahlan. Dati gli stretti legami di Dahlan con gli Emirati Arabi Uniti, alcuni lo hanno interpretato come un’apertura ad Abu Dhabi, ma lo scetticismo è rimasto alto. Nonostante il comunicato finale abbia approvato la proposta di ricostruzione dell’Egitto – elaborata con il contributo della Banca Mondiale e del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) – il piano deve affrontare importanti ostacoli. Sia Washington che Tel Aviv hanno respinto qualsiasi quadro che coinvolga Hamas o l’UNRWA. “L’attuale proposta non affronta la realtà che Gaza è attualmente inabitabile e i residenti non possono vivere in modo umano in un territorio coperto di detriti e ordigni inesplosi”, ha dichiarato in un comunicato il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale statunitense Brian Hughes. “Il presidente Trump rimane fedele alla sua visione di ricostruire Gaza libera da Hamas. Attendiamo con ansia ulteriori colloqui per portare pace e prosperità nella regione”. Nel frattempo, assicurarsi il sostegno finanziario rimane una sfida, poiché Riyadh e Abu Dhabi esitano ancora a impegnarsi.

Visita ad alto rischio a Washington

Per uscire dall’impasse, l’Egitto ha fatto di tutto inviando a Washington, a fine febbraio, una delegazione di pesi massimi della politica dell’ex presidente Hosni Mubarak. Il team, che comprendeva l’ex ministro degli Esteri Amr Moussa e figure politiche veterane come Mounir Fakhry Abdel Nour, Mohamed Kamal e Hossam Badrawi, si è confrontato con figure chiave dell’amministrazione Trump, del Congresso e di influenti think tank statunitensi. Gli incontri con Jared Kushner, Mike Pompeo e il senatore Lindsey Graham hanno sottolineato quanto l’Egitto stesse facendo pressioni per ottenere il sostegno americano. Sebbene alcuni funzionari abbiano espresso interesse per il piano, non ci sono stati impegni chiari. Le preoccupazioni degli Stati Uniti si sono concentrate su Hamas, sulla supervisione finanziaria e sulla garanzia dell’adesione saudita e israeliana. Alcune fonti hanno riferito a The Cradle:

“La divergenza tra la posizione egiziana e quella americana mette il Cairo in una posizione scomoda, in quanto quest’ultimo era solito puntare sul sostegno di Washington o almeno assicurarsi una copertura internazionale che permettesse di mobilitare finanziamenti da altre fonti, ma ora si trova costretto a cercare alternative che includano il coinvolgimento dell’Unione Europea e della Cina”.

Mantenere vivo il piano di ricostruzione

Un’opzione alternativa è quella di presentare proposte parzialmente compatibili con la visione americana senza compromettere il ruolo egiziano nel dossier palestinese e di vivere i restanti anni del mandato presidenziale di Trump, per garantire un danno minimo a Gaza. Per rassicurare l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto ha proposto alla Banca Mondiale di supervisionare il fondo di ricostruzione per garantire la trasparenza dei finanziamenti e attirare i contributi internazionali, nonostante l’Egitto sia convinto che la ricostruzione del settore in tre anni non possa essere realizzata senza una generosa donazione da parte dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, oltre che del Qatar. Ma anche mentre il Cairo si affannava a creare un consenso regionale, Washington si era già orientata altrove. Con una mossa che ha colto di sorpresa Israele, il team di Trump ha tenuto incontri diretti con Hamas a Doha. Le discussioni hanno spaziato dallo scambio di prigionieri agli accordi per il cessate il fuoco e persino a quadri politici più ampi: uno sviluppo straordinario che ha sottolineato la fluidità delle dinamiche di potere nella regione. L’Egitto rimane impegnato nel suo piano, ma gli ostacoli sono formidabili. Il rifiuto degli Stati Uniti, la riluttanza araba e l’opposizione israeliana rendono incerto il percorso da seguire. Con il proseguimento del secondo mandato di Trump, il Cairo potrebbe dover guardare oltre gli alleati tradizionali, cercando il sostegno finanziario di Europa e Cina e gestendo con molto tatto le tensioni regionali. La conferenza sulla ricostruzione rimane una potenziale ancora di salvezza, ma se riuscirà a mobilitare il sostegno internazionale rimane una questione aperta.

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