MICKEY 17: UNA SATIRA MANCATA AL POTERE E AL CAPITALISMO

DiMassimo Selis

19 Marzo 2025
Il capitalismo estremo, lo sfruttamento dei lavoratori e più in generale della vita umana, ormai ridotta solo ad oggetto al servizio dei ricchi e dei potenti. La megalomania tecno-scientifica condita da fanatismo pseudoreligioso. Con Mickey 17 Bong Joon-ho torna alla fantascienza distopica dopo il grande successo internazionale di Parasite. Ma qual è veramente il risultato di questa nuova opera che nasce con un intento di satira sociale?

Un futuro non troppo lontano sul pianeta Terra. Mickey Barnes e il suo amico e socio Timo sono due disperati, inseguiti da un usuraio che minaccia di ucciderli se a breve non restituiranno un’ingente somma. I due sanno di non avere alcuna possibilità di racimolare quel denaro e così fanno domanda per partecipare all’avventurosa spedizione spaziale per la conquista del pianeta ghiacciato Niflheim. A ideare e guidare questa spedizione c’è il magnate e politico fallito, Kenneth Marshall, sostenuto da dubbi finanziatori e da un’associazione pseudoreligiosa che sembra il peggior concentrato di tutte le correnti evangeliche proliferate oltreoceano.

La selezione per partecipare al viaggio spaziale è molto dura. Sono migliaia le persone che fanno domanda, con la speranza o l’illusione di ritagliarsi un futuro migliore su un altro pianeta. Timo viene incredibilmente preso come pilota di shuttle. Mickey, che non possiede nessuna qualifica e capacità particolari, decide allora di proporsi come un “sacrificabile”. Una nuova tecnologia, permette infatti di riportare in vita una persona morta, mediante una speciale stampante 3D, in grado non solamente di rigenerare il corpo, ma anche di conservare intatti i ricordi e – più o meno – la struttura di personalità. La compagnia spaziale ha necessità di un “sacrificabile” per compiere tutte quelle missioni pericolose, prime fra tutte l’esplorazione del nuovo pianeta. E così anche Mickey Barnes viene scelto. Meglio essere un “sacrificabile” che muore e rinasce chissà quante volte che finire una volta per tutte questa esistenza fatto a pezzi dagli scagnozzi dell’usuraio, deve aver pensato Mickey.

Dopo un lungo viaggio la spedizione giunge finalmente sul pianeta Niflheim.  Qui Mickey compie numerose incursioni che servono a testare un vaccino per rendere gli uomini adatti alla vita su quel pianeta. Muore e rinasce molte volte, sino ad arrivare al diciassettesimo clone di se stesso.

Iniziano le spedizioni di gruppo e in una di queste Mickey cade in un crepaccio. Timo non lo salva, credendo che sarebbe morto di lì a poco, o per freddo o mangiato dagli striscianti, dei grossi insetti che popolano quel luogo. Ma saranno proprio loro invece a metterlo in salvo e a permettergli di risalire sull’astronave. Qui però Mickey scopre che è già stato stampato un nuovo clone: Mickey 18. E la regola vuole che non vi possono essere dei duplicati di un “sacrificabile”, per cui se venissero scoperti verrebbero uccisi entrambi. E qui la storia prende una svolta.

Con Mickey 17 Bong Joon-ho torna alla fantascienza distopica dopo il grande successo internazionale di Parasite e lo fa ancora con un film prodotto negli Stati Uniti. Quest’ultimo suo lavoro, da poco nelle sale, è l’adattamento del romanzo Mickey7 pubblicato da Edward Ashton nel 2022.

Non vuole essere una semplice distopia, ma una satira, in chiave distopica, del capitalismo estremo, dello sfruttamento dei lavoratori e più in generale della vita umana, ormai ridotta solo ad oggetto al servizio dei ricchi e dei potenti. Una satira sulla megalomania tecno-scientifica, sulla sete di potere e dominio, sulla pericolosa fascinazione pseudoreligiosa di carattere messianico. E su altro ancora.

Ma dobbiamo ammetterlo con franchezza, come abbiamo fatto intuire già dal titolo: il tutto naufraga in un gran minestrone che finisce solo per apparire grottesco. Sbiadita la forza satirica, muore anche l’efficacia dell’impianto distopico.

Tutto è spinto oltre i limiti, i registri. La scrittura, la caratterizzazione dei personaggi, la recitazione. E nell’essere “troppo”, stordisce lo spettatore con la sua dozzinalità. Se si è abbastanza educati ad osservare gli aspetti più sottili in un’opera cinematografica, come nella vita del resto, ci si accorge, fin dai primi minuti come tutto è “scontato”, “telefonato”, come la storia d’amore fra Mickey e Nasha, tra l’altro un’agente della spedizione, immancabilmente di colore. Come eccessivo e scontato è il loro rapporto iper-passionale, che nasce, guarda caso, un attimo dopo che Marshall, in un discorso a tutto l’equipaggio, invita, o meglio obbliga, a non avere rapporti sessuali per non sprecare energie che necessiterebbero poi di un surplus di cibo. E così appaiono scontate altre scelte narrative che troviamo più avanti.

Il tema della morte, che potrebbe essere uno dei risvolti più interessanti da indagare, dato che il protagonista è soggetto a continue morti e rinascite, finisce per essere sollevato in alcuni dialoghi che però non conducono molto in là. Quasi, alla fine, come una curiosità che non si può non esplicitare, ma che si ha paura ad approfondire sul serio.

A tutto questo si sommano le immancabili, ormai, ideologie più in voga. I rapporti obbligatoriamente interraziali, anche quando non se ne avverte nessuna giustificazione narrativa; l’ecologismo e un sottile animalismo come verniciatura per abbellire la superficie un po’ ruvida; la critica ad un certo suprematismo bianco, al colonialismo – che se quest’ultimo fosse approfondito e sviscerato adeguatamente avrebbe anche la sua ragion d’essere; la derisione di un certo fanatismo religioso – ma che finisce troppo facilmente per essere letta come critica alla religione in generale; lo sberleffo alla megalomania politica e tecno-scientifica incarnata d Marshall, in cui in molti ci hanno visto un’esemplare caricatura del duo Trump-Musk.

Il film, con scelte coraggiose, magari anche discostandosi dal romanzo – che però ammettiamo di non aver letto – avrebbe potuto raggiungere altri esiti.

Lo sfruttamento dell’essere umano da parte del potere, l’assenza di dignità della vita umana, ridotta a merce che si può comprare e gettare via quando non serve più, la ferocia che regola i rapporti umani, sono temi più attuali che mai che meritavano però di essere messi sotto una vera lente di ingrandimento e osservati anche da angolazioni nuove.

Tra l’altro, proprio lo spirito di sopravvivenza che sfocia in cinismo, è un elemento che vediamo rappresentato nel film, ma ancora una volta senza nemmeno provare a rintracciarne le cause umane profonde. Cause sì sociali, ma anche interiori e quindi spirituali. Questo cinismo, mascherato da “naturale” bisogno di pensare ai propri interessi, è divenuto purtroppo evidenza di moltissimi rapporti fra pari nel nostro mondo. Dove il materialismo è l’unico orizzonte – e nei fatti lo è anche per la stragrande maggioranza dei presunti credenti – dove la società è l’arena in cui non si può far altro che sopravvivere, se si ha il coltello puntato alla gola, se il potere ti soffoca fino a quasi farti assaporare la morte, talvolta non si guarda in faccia nemmeno ai vicini, nemmeno ai fratelli. Se ci guardiamo dentro e ci guardiamo attorno non è poi così difficile riconoscerlo. Sarebbe stato allora importante dargli un altro risalto nel film, mettendo gli occhi e le mani in questo pozzo di dolore da cui nasce tale cinismo. Perché l’arte ha come precipuo compito quello di mettere il pubblico davanti ad uno specchio in cui deve guardare se stesso e in special modo quelle cose di se stesso che non vuole abitualmente vedere.

Molti, troppi, oggi credono che il problema principale del cinema, e dell’arte più ingenerale, sia una certa dittatura ideologica. Ma è un’analisi tristemente povera. Queste ideologie non sono altro che il sintomo terminale di una malattia che viene da molto lontano ed è molto più profonda. Anche senza tutti gli scivoloni ideologici, Mickey 17 sarebbe comunque rimasta un’opera fiacca, superficiale, buona per un pubblico che non accetta più di fare nessuno sforzo. Sforzo interiore, intendiamo. Un pubblico che ama la musica ridondante, emozionale, onnipresente. Che si esalta per le battute ad effetto. Che ha bisogno di un ritmo incalzante, altrimenti sprofonda subito nella noia. Che di un film guarda come prima cosa i “concetti” che esso vorrebbe esprimere ma è sempre meno capace di gustarne le sfumature. E la grande arte è fatta di sfumature. Al resto, bastano anche i mestieranti. Un pubblico che dall’altra sponda dell’oceano ha appreso ormai tutto il peggio, tutta la grossolanità. Vuole, al massimo, la grossolanità buona, non inquinata dalla salsa woke.

C’è bisogno di ben altro. Da parte del pubblico e ovviamente da parte degli autori, dei produttori e di chi il cinema lo finanzia. Ci auguriamo intanto che Bong Joon-ho torni a fare cinema in Corea. Un cinema più libero, con meno soldi, ma più coraggio. Lo ricordiamo con quelli che secondo noi sono i suoi veri capolavori: Memorie di un assassino e Madre. Se cercate un’autorialità che sa dialogare con le forme del cinema di genere, vi consigliamo vivamente di recuperarli.

NOTA: Le immagini riportate nell’articolo sono di proprietà di Warner Bros. Pictures / Plan B Entertainment

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