(Riceviamo e pubblichiamo: di Pasquale Liguori)

Da diciotto mesi è in corso un genocidio appoggiato dai governi – criminali e imperialisti – dei nostri Paesi con fornitura di armi, copertura diplomatica e complicità mediatica a Israele. Complicità sostenuta ad arte dai grandi giornali occidentali e dal coro di cicisbei televisivi pronti a promuovere, normalizzandolo, il massacro di un popolo.
Sebbene la cronaca dei fatti sia più o meno conosciuta, ciò che veramente fa da collante alle narrazioni più tossiche è la pretesa di un presunto realismo che si alimenta di vecchi stereotipi. È sufficiente, infatti, volgere anche solo una fugace attenzione ai titoli della nostrana carta stampata, riecheggiante la rotta indicata oltreoceano dal New York Times, circa tensioni interne a Gaza, riducendole – con paternalismo – all’inganno strumentale de “la popolazione palestinese contro Hamas”. Schema comodo perché proietta l’intero dibattito su un piano di condiscendenza: come se i palestinesi, ritratti quali vittime di sé stessi e non di una feroce potenza militare, dovessero solo avere l’illuminazione di ribellarsi internamente, per poi definitivamente soccombere.
Questa cornice mediatica non fa altro che ricalcare l’annosa matrice orientalista: gli arabi, irrazionali, dominati da passioni settarie o da milizie interne, e la soluzione di ogni loro problema si troverebbe nel tentativo di assomigliare di più all’Occidente magari attraverso un potere prono a trattative infinite, a copertura di una colonizzazione sistematica. Ma se guardiamo agli eventi in corso, a diciotto mesi di sangue, alle famiglie sterminate e alle infrastrutture rase al suolo, è drammaticamente palese la distorsione strumentale avanzata da tale impostazione: il cuore della tragedia nient’altro è che il progetto sionista e l’indifferenza di chi, da fuori, lo ha continuamente avallato e foraggiato.
Il popolo palestinese resiste sul campo contro la più moderna ed efferata macchina di morte in Asia occidentale e proteste e manifestazioni – nel pieno di un assedio disumano – rappresentano un’istanza di dignità. Irriducibile ai calcoli di comodo, agli schemi di potere e soprattutto agli stereotipi sul caos mediorientale.
Dunque, emerge in Occidente il discorso secondo cui i palestinesi dovrebbero insorgere in modo ordinato (gradito, cioè, agli sponsor internazionali), magari a fianco della corrotta Autorità che, da anni, collabora con l’occupazione israeliana sul piano di intelligence e controllo del territorio.
Il paradosso è lampante: chi ha ignorato e/o tollerato il genocidio in atto, comodamente estraneo all’orrore di un assedio soffocante, adesso si ergerebbe a maestro di morale, pontificando su come e contro chi i palestinesi dovrebbero ribellarsi. Sorvolando sui rapporti di forza reali, sulla collaborazione attiva di vari governi occidentali con l’occupazione israeliana e sul fatto che la situazione di Gaza non è una faida familiare, ma la risultante di un piano preciso di annientamento.
Se è vero che alcuni, per comodità, delegano ai loro propagandisti di professione (giornali mainstream, opinionisti televisivi) il racconto della questione palestinese, ciò che appare più devastante è la diffusa apatia con cui si guarda al genocidio. La conseguenza è che il valore più profondo della resistenza palestinese – concreta, quotidiana, di una comunità che sopravvive all’orrore e apre ogni strada di ribellione – è passato in secondo piano.

La lezione più intensa da imparare, di frequente elusa, è proprio quella che la resistenza palestinese – pur in condizioni estreme di lotta per l’acqua, la luce e la sopravvivenza fisica – continua a trasmettere al mondo intero: esiste un orizzonte di dignità umana che non si lascia addomesticare dai discorsi ufficiali e che non accetta la logica del colonizzato compiacente. Finché le analisi occidentali continueranno a instillare l’idea che ci sia bisogno di un intervento esterno per educare i palestinesi alla ribellione giusta o accettabile, perpetueremo quella stessa violenza simbolica che si rovescia, ormai da decenni, su un popolo privato della libertà e della sua terra.
Difendere la dignità di Gaza significa anzitutto riconoscere gli intrecci fra imperialismo occidentale e colonialismo israeliano. È un riconoscimento necessario che demolisce lo stereotipo orientalista di cui i media mainstream in corteo si servono e che pone a ognuno la riflessione morale più stringente: vogliamo continuare a essere complici di un crimine storico da spettatori, oppure siamo disposti a smascherare i meccanismi di potere che lo generano e lo giustificano?
È questa la vera linea di demarcazione. Se non ci schieriamo contro la complicità dei nostri governi e dei nostri apparati mediatici, ogni parola sulle tensioni interne a Gaza sarà solo fumo negli occhi, capace di distrarci da un crimine al quale partecipiamo. E così, mentre in molti rincorrono un orientamento moralistico e superficiale sulla correttezza o meno di certe forme di resistenza, la quotidianità palestinese resta un atto di sopravvivenza e lotta ostinata: una macchina da guerra deleuziana che potrebbe insegnarci la forza di un popolo in rivolta.
[…] Fuente original: Giubbe Rosse News […]
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