GUERRE COMMERCIALI, BATTAGLIE TECNOLOGICHE E STALLI STRATEGICI: I LIMITI DELLA POTENZA DEGLI STATI UNITI

DiOld Hunter

15 Aprile 2025

di Elijah Magnier sul suo ejmagnier.com    –    Traduzione a cura di old Hunter

La guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti sotto l’amministrazione del presidente Donald Trump ha fatto più che interrompere le catene di approvvigionamento o scuotere i mercati finanziari: ha messo in luce un cambiamento globale più profondo. Quella che era iniziata come una battaglia tariffaria ad alto rischio contro i prodotti cinesi ha creato incertezza sui mercati globali e si è rapidamente evoluta in uno scontro per il predominio tecnologico, l’accesso ai minerali di terre rare e il futuro della leadership economica globale. Ma le onde d’urto non si sono fermate alla costa del Pacifico.

Presa nel fuoco incrociato, l’Europa ha rivelato la sua precaria dipendenza dalla leadership statunitense. Nonostante si atteggiasse a fronte unito, l’Unione Europea ha faticato ad affermare una posizione indipendente. La sua frammentata politica interna e la mancanza di coesione strategica hanno messo in luce una vulnerabilità: la sottomissione all’influenza americana, soprattutto in materia economica, di sicurezza e di politica estera. Eppure, la tiepida resistenza dell’Europa è stata appena sufficiente a sventare il piano più ampio di Donald Trump di riportare l’Ucraina all’ordine attraverso una risoluzione negoziata del conflitto – un piano che avrebbe permesso agli Stati Uniti di allontanarsi strategicamente ed economicamente dalla dipendenza cinese dalle risorse naturali. Invece, Trump non è riuscito a fare pressione sul presidente ucraino Vladimir Zelensky per un cessate il fuoco, poiché l’Ucraina faceva affidamento interamente sul sostegno degli Stati Uniti per resistere alla Russia.

Questo fallimento ha segnalato più di una semplice opportunità diplomatica mancata. Ha dimostrato che Stati clienti come l’Ucraina, anche quando totalmente dipendenti, non sono sempre pienamente controllabili. Nel frattempo, le ricadute della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina hanno incoraggiato coalizioni come i BRICS e l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai ad approfondire gli sforzi verso l’autonomia e la diversificazione. La logica era chiara: ridurre l’esposizione a Washington e alle sue sanzioni selettive, costruire partnership resilienti e creare un ordine globale non vincolato dalle regole di una singola potenza. In un mondo in cui il dominio degli Stati Uniti non è più garantito, la diversità delle alleanze sta diventando una strategia di sopravvivenza essenziale. Gli Stati Uniti possono anche essere ancora forti, ma non sono più soli al vertice.

Il presidente Joe Biden ha ereditato un mondo frammentato e una mappa geopolitica in rapida evoluzione. L’approccio della sua amministrazione alla Russia, in particolare attraverso la guerra per procura in Ucraina, era mirato a isolare e indebolire Mosca, potenzialmente costringendola alla sottomissione e sgretolando la spina dorsale dell’influenza russa attraverso sanzioni, diplomazia e un sostegno militare senza precedenti all’Ucraina. Ci si aspettava che le sanzioni occidentali coordinate e la resilienza ucraina avrebbero inferto un colpo fatale all’economia e all’influenza militare della Russia. Ma due anni dopo, la Russia rimane ribelle. Il campo di battaglia si è trasformato in una prolungata guerra di logoramento e, nonostante le pesanti perdite, il Cremlino non è crollato. Il tentativo di marginalizzare la Russia politicamente e militarmente si è rivelato molto più complesso di quanto Washington avesse previsto.

La Russia si è adattata, la sua economia ha assorbito lo shock, si è riorientata verso l’Oriente e il Sud del mondo e ha continuato a finanziare il suo sforzo bellico. Nonostante perdite significative e la condanna internazionale, il regime di Putin non solo è sopravvissuto, ma si è ricalibrato. L’obiettivo di Washington di “paralizzare” la Russia è diventato più simbolico che strategico.

La guerra in Ucraina, giunta al terzo anno, ha messo in luce i limiti dell’influenza statunitense. Gli alleati americani in Europa stanno mettendo in discussione la sostenibilità di un impegno a lungo termine. Le nazioni del Sud del mondo, lungi dall’allinearsi a Washington, sono rimaste neutrali o addirittura propense a sostenere la Russia, considerando il conflitto come una lotta di potere regionale, non una crociata morale.

Se Biden ha cercato di contenere la Russia e isolarla dalla Cina, Donald Trump ha cercato di fermare l’ascesa di Pechino. Attraverso politiche commerciali aggressive, dazi e una guerra tecnologica a tutto campo, l’amministrazione Trump ha cercato di sventare quella che considera una crescente minaccia al predominio economico degli Stati Uniti. Aziende tecnologiche cinesi come Huawei sono state prese di mira. Le catene di approvvigionamento sono state interrotte. Le sanzioni sono state usate come arma economica.

Il risultato? La Cina non ha fatto marcia indietro, anzi ha raddoppiato gli sforzi. Il presidente Xi Jinping ha risposto spingendo per l’autosufficienza tecnologica e la diversificazione strategica. La Belt and Road Initiative ha ampliato la presenza economica cinese a livello globale. Pechino ha rafforzato le partnership in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente, spesso intervenendo laddove le nazioni occidentali si stavano ritirando.

Anche il messaggio di Xi è diventato più chiaro: il dominio dell’America non è una legge naturale. Può essere messo in discussione. E Pechino sta ora guidando questa sfida, non solo attraverso l’economia, ma rimodellando le narrazioni globali su sviluppo, governance e potere.

L’impatto economico globale della guerra commerciale di Trump

La guerra commerciale in corso, lanciata dall’amministrazione Trump, ha provocato un’onda d’urto nell’economia globale. Con l’imposizione di dazi su beni per centinaia di miliardi di dollari, l’incertezza si è diffusa sui mercati. Gli investitori sono diventati diffidenti, i produttori hanno esitato e le catene di approvvigionamento, in particolare nei settori della tecnologia, dell’automotive e dei beni di consumo, sono state interrotte.

Gli effetti immediati sono stati visibili: una crescita globale più lenta, dazi di ritorsione severi da parte della Cina e costi più elevati per consumatori e aziende statunitensi. Gli agricoltori statunitensi hanno subito perdite ingenti a causa del blocco delle importazioni agricole da parte della Cina. Le aziende hanno iniziato a rivalutare le proprie reti di approvvigionamento globali, dando avvio a una lenta ma costante tendenza al “disaccoppiamento” dalla Cina. Alcune aziende hanno trasferito le proprie attività nel Sud-est asiatico o in Messico, ma la transizione ha avuto dei costi.

Un esempio lampante dell’impatto è l’industria dei semiconduttori. Quando l’amministrazione Trump ha imposto controlli sulle esportazioni che limitavano l’accesso della Cina a chip e strumenti di produzione statunitensi, aziende come Huawei, ZTE e SMIC sono state duramente colpite. Ma la mossa si è anche ritorta contro: produttori di chip americani come Intel, Qualcomm e Broadcom hanno perso significative quote di mercato e flussi di fatturato da uno dei loro principali clienti. Allo stesso tempo, la Cina ha accelerato lo sviluppo dei propri chip, investendo decine di miliardi nella capacità produttiva nazionale. Il risultato? Un mercato globale dei chip frammentato e altamente politicizzato, con costi crescenti e controlli sulle esportazioni più severi su tutti i fronti.

I mercati emergenti sono stati particolarmente colpiti, soprattutto quelli dipendenti dalle esportazioni o dai flussi di investimento legati al canale commerciale tra Stati Uniti e Cina. I mercati azionari hanno registrato forti oscillazioni nel 2018-2019 e istituzioni globali come il FMI hanno ripetutamente rivisto al ribasso le loro previsioni di crescita.

Oggi, le conseguenze di questa guerra commerciale si fanno ancora sentire. Sebbene l’amministrazione Trump abbia attenuato i toni (ma non le tasse severe), molti dazi rimangono in vigore. Le relazioni economiche tra Stati Uniti e Cina sono al loro apice. La guerra tecnologica si è intensificata, con divieti all’esportazione di semiconduttori e sanzioni alle aziende cinesi che permangono. Allo stesso tempo, aziende e governi globali si stanno adattando diversificando le loro partnership commerciali.

La Cina, da parte sua, ha intensificato gli scambi commerciali con i BRICS e il Sud del mondo e accelerato gli sforzi per internazionalizzare lo yuan. L’Unione Europea ha iniziato a riconsiderare le dipendenze strategiche, soprattutto in ambito energetico e tecnologico. Nel frattempo, molti paesi in via di sviluppo stanno attivamente perseguendo strategie non allineate, preferendo partnership diversificate e flessibili alla dipendenza esclusiva dall’Occidente.

In breve, la guerra commerciale ha infranto la fiducia nella stabilità economica globale, sostituendola con un cauto realismo. Il mercato globale odierno è più frammentato, meno prevedibile, ma potenzialmente più equilibrato. Questa realtà in evoluzione segna la fine della globalizzazione guidata dagli Stati Uniti, così come la conoscevamo.

La svolta multipolare e la diversificazione strategica

Il primato americano del dopoguerra fredda si basava su due presupposti: che nessun altro Paese avrebbe potuto eguagliare la sua potenza militare e che le istituzioni globali avrebbero continuato a rifletterne i valori e gli interessi. Entrambi i presupposti si stanno erodendo.

La parità militare potrebbe non essere ancora raggiunta, ma la deterrenza sì. Russia, Cina e altri hanno investito massicciamente in capacità informatiche, tecnologia missilistica e influenza regionale. Sebbene gli Stati Uniti continuino a spendere più di tutti, l’efficacia del predominio militare non è più garantita, soprattutto ora che i conflitti si spostano dai campi di battaglia aperti alle guerre per procura, alla coercizione economica e alla guerra dell’informazione.

Dal punto di vista diplomatico, istituzioni come l’ONU, l’OMC e il FMI – un tempo utilizzate come leve dell’influenza statunitense – vengono aggirate o rimodellate. La Cina sta costruendo alternative attraverso i BRICS+, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai e i propri istituti di credito. I Paesi ora hanno delle opzioni. Non devono più giocare secondo le regole di Washington.

La guerra commerciale e l’imprevedibilità dell’economia statunitense hanno accresciuto l’urgenza della diversificazione. Le nazioni stanno creando nuovi corridoi commerciali, investendo in sistemi di pagamento alternativi e accumulando riserve strategiche di minerali essenziali.

La lezione è stata imparata: non permettete che la vostra economia sia ostaggio della politica di una superpotenza e del suo autoproclamato impero eterno.

Un sistema in declino, un mondo in transizione

La storia è chiara: gli imperi raramente cadono solo per conquista. Più spesso crollano dall’interno, erosi da divisioni, eccessi e perdita di direzione. L’Impero Romano crollò sotto il suo stesso peso. Gli Ottomani crollarono dopo secoli di lento declino. L’Impero Britannico crollò quando le sue colonie rifiutarono di sottomettersi e la sua influenza diminuì. Nessun impero è eterno. Che sia per pressione esterna, collasso interno o per la lenta erosione della legittimità, ogni potenza dominante alla fine cede. Gli Stati Uniti, pur essendo ancora formidabili, non ispirano più la stessa paura o lealtà di un tempo. Questa potrebbe non essere la fine dell’America, ma è la fine del suo dominio incontrastato.

Il potere sta cambiando, lentamente ma in modo deciso. Il mondo unipolare, un tempo governato da Washington, sta cedendo il passo a un sistema multipolare: un sistema in cui l’influenza è diffusa, le alleanze fluide e nessun singolo attore detta le regole globali. Questo cambiamento non riguarda solo il potere militare o economico; riguarda sistemi, narrazioni e modelli di governance in competizione.

L’unilateralismo è in ascesa. Il mondo è meno propenso a seguire una potenza che si atteggia a deferente. L’assunto post-Guerra Fredda, secondo cui la leadership statunitense fosse inevitabile e permanente, è crollato. Quello che un tempo veniva chiamato “ordine internazionale basato sulle regole” sembra sempre più una dottrina applicata selettivamente, spesso a vantaggio del suo artefice. Sempre più nazioni ora guardano altrove.

Le divisioni interne agli Stati Uniti sono profonde. La paralisi politica, la frammentazione sociale e l’estrema disuguaglianza stanno erodendo le fondamenta della coesione interna. La fiducia nelle istituzioni è scarsa. Le infrastrutture stanno invecchiando. La fiducia nella democrazia stessa è messa a dura prova. Un Paese insicuro in patria non può guidare in modo convincente l’estero.

Anche la credibilità morale dell’America ha subito un duro colpo. Guerre senza fine, il sostegno ad alleati autoritari, la sorveglianza globale e l’applicazione selettiva dei propri principi ne hanno minato l’immagine. Come ha affermato un diplomatico del Sud del mondo: “Quando l’America parla di un ordine basato su regole, intende regole che ha creato e che gli altri devono seguire”.

Questo non è un crollo. È un’evoluzione. L’era del dominio unilaterale sta volgendo al termine. Joe Biden non è riuscito a piegare la Russia. Donald Trump non è riuscito a fermare la Cina. L’Europa, sebbene dipendente, è riuscita a scompaginare i piani strategici degli Stati Uniti. Persino gli alleati fortemente dipendenti hanno iniziato ad affermare la propria autonomia.

Il mito di una supremazia inattaccabile degli Stati Uniti sta crollando. Al suo posto si sta affermando un mondo più conteso e multipolare, caotico, dinamico e non più dominato da una visione univoca. In questa nuova realtà, l’influenza appartiene a coloro che sanno costruire partnership resilienti, rispettare la sovranità e adattarsi al cambiamento.

In questo mondo la sopravvivenza non verrà dal predominio, ma dall’equilibrio.

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