UN “ACCORDO ALLA TRUMP”? DESTREGGIARSI TRA GUERRA, “GUERRA FACILE” E NEGOZIATI

DiOld Hunter

17 Aprile 2025

di Alastair Crooke per Conflicts Forum Substack     –     Traduzione a cura di Old Hunter

Trump è chiaramente nel mezzo di un conflitto esistenziale. Ha un incarico schiacciante. Ma è circondato da un fronte nemico interno risoluto, rappresentato da una “società industriale” permeata dall’ideologia dello Stato profondo, incentrata principalmente sul preservare il potere globale degli Stati Uniti (piuttosto che sul risanamento dell’economia).

La questione chiave del MAGA, tuttavia, non è la politica estera, ma come riequilibrare strutturalmente un paradigma economico a rischio di estinzione. Trump ha sempre chiarito che questo costituisce il suo obiettivo primario. La sua coalizione di sostenitori è fermamente convinta della necessità di rilanciare la base industriale americana, in modo da fornire posti di lavoro ragionevolmente ben retribuiti al corpo MAGA.

Per ora Trump può avere un mandato, ma in agguato ci sono pericoli estremi – non solo il Deep State e la lobby israeliana. La bomba del debito della “Yellen” rappresenta la minaccia più esistenziale. Minaccia il sostegno di Trump al Congresso, perché la bomba è destinata a esplodere poco prima delle elezioni di metà mandato del 2026. Le nuove entrate tariffarie, i risparmi del DOGE [Department of Government Efficiency] e persino l’imminente crisi del Golfo sono tutti incentrati sulla necessità di mettere in atto una sorta di ordine fiscale, in modo che gli oltre 9.000 miliardi di dollari di debito a breve termine – in scadenza imminente – possano essere rinegoziati a lungo termine senza ricorrere a tassi di interesse da capogiro. È la fune d’inciampo della Yellen-Democratica per l’agenda di Trump.

Fin qui, il contesto generale sembra abbastanza chiaro. Eppure, sui dettagli di come riequilibrare esattamente l’economia; come gestire la “bomba del debito”; fino a che punto il DOGE debba spingersi con i suoi tagli; le divisioni all’interno del team di Trump, sono tutti presenti. Di fatto, la guerra dei dazi e la disputa con la Cina mettono in campo una nuova falange di oppositori: ovvero coloro (alcuni a Wall Street, gli oligarchi, ecc.) che hanno tratto enormi vantaggi dall’epoca d’oro della libera e apparentemente illimitata creazione di denaro; coloro che si sono arricchiti proprio grazie alle politiche che hanno reso l’America schiava dell’incombente “campanello del debito” americano.

A complicare ulteriormente le cose, due degli elementi chiave del “riequilibrio” e della “soluzione” del debito di Trump non possono essere sussurrati, né tantomeno pronunciati ad alta voce: il primo che comporta una svalutazione deliberata “del dollaro in tasca”. Mentre il secondo è che molti altri americani perderanno il lavoro.

Non è esattamente un “programma” popolare. Probabilmente è per questo che il “riequilibrio” non è stato compiutamente spiegato al pubblico.

Trump ha lanciato lo “shock tariffario” della Liberazione, apparentemente con l’intento di dare il via a una ristrutturazione delle relazioni commerciali internazionali, come primo passo verso un riallineamento generale dei valori delle principali valute.

La Cina, tuttavia, non ha accettato la questione dei dazi e delle restrizioni commerciali, e la situazione è rapidamente degenerata. Per un attimo è sembrato che la “coalizione” di Trump potesse frammentarsi sotto la pressione della concomitante crisi del mercato obbligazionario statunitense e della rissa sui dazi che ha scosso la fiducia.

La coalizione, infatti, ha retto; i mercati hanno registrato un calo, ma poi la coalizione si è divisa su una questione di politica estera: la speranza di Trump di normalizzare le relazioni con la Russia, verso un grande ripristino globale.

Uno dei principali filoni della coalizione di Trump (a parte i populisti del MAGA) sono i neoconservatori e i sostenitori di Israele. Una sorta di patto faustiano sarebbe stato stipulato da Trump all’inizio, con un accordo che prevedeva che la sua squadra fosse fortemente popolata da zelanti “israelofili“.

In poche parole, l’ampiezza della coalizione di cui Trump pensava di aver bisogno per vincere le elezioni e ottenere un riequilibrio economico comprendeva anche due pilastri della politica estera: In primo luogo, il reset con Mosca, il pilastro con cui porre fine alle “guerre per sempre”, che la sua base populista disprezzava. Il secondo è la neutralizzazione dell’Iran come potenza militare e fonte di resistenza, su cui insistono sia gli israelofili – che la stessa Israele – (e coi quali Trump sembra essere del tutto a suo agio). Da qui il patto faustiano.

Le aspirazioni da “pacificatore” di Trump hanno senza dubbio accresciuto il suo appeal elettorale, ma non sono state il vero motore della sua schiacciante vittoria. Ciò che è diventato evidente è che questi diversi programmi – estero e interno – sono interconnessi: una battuta d’arresto dell’uno o dell’altro agisce come un domino,  stimolando o rallentando gli altri programmi. In parole povere: Trump dipende dalle “vittorie” – da quelle “vittorie” iniziali – anche se questo significa precipitarsi verso una potenziale “vittoria facile” senza riflettere se possieda una solida strategia (e capacità) per ottenerla.

Tutti e tre gli obiettivi del programma di Trump, a quanto pare, risultano essere più complessi e divisivi di quanto forse si aspettasse. Lui e il suo team sembrano affascinati da presupposti radicati nell’Occidente, come, in primo luogo, che la guerra generalmente avvenga “laggiù”; che la guerra nel periodo successivo alla Guerra Fredda non sia in realtà una “guerra” nel senso tradizionale di guerra totale senza esclusione di colpi, ma piuttosto l’impiego limitato di una forza occidentale schiacciante contro un nemico incapace di “minacciarci” in modo analogo; e, in terzo luogo, che la portata e la durata di una guerra siano decise a Washington e dal suo “gemello” dello Stato Profondo a Londra.

Quindi coloro che parlano di porre fine alla guerra in Ucraina con un cessate il fuoco unilaterale imposto (vale a dire la fazione di Walz, Rubio e Hegseth, guidata da Kellogg) sembrano dare per scontato che i termini e i tempi per porre fine alla guerra possano essere decisi anche a Washington e imposti a Mosca per mezzo di una applicazione limitata di pressioni e minacce asimmetriche.

Proprio come la Cina non crede alla storia dei dazi e delle restrizioni commerciali, nemmeno Putin crede a quella dell’ultimatum (‘Mosca ha settimane, non mesi, per concordare un cessate il fuoco’ ). Putin ha cercato pazientemente di spiegare a Witkoff, l’inviato di Trump, che la presunzione americana che la portata e la durata di qualsiasi guerra spettino in gran parte all’Occidente semplicemente non si concilia con la realtà odierna.

E, in modalità complice, coloro che parlano di bombardare l’Iran (incluso Trump) sembrano anche dare per scontato di poter dettare sia il corso che il contenuto essenziali della guerra; gli Stati Uniti (e forse Israele) possono semplicemente decidere di bombardare l’Iran con enormi bombe anti-bunker. Tutto qui! Fine della storia. Si presume che questa sia una guerra facile e autogiustificativa, e che l’Iran debba imparare ad accettare di averla cercata da solo sostenendo i palestinesi e tutti gli altri che rifiutano la normalizzazione israeliana.

Aurelien osserva:

“Quindi abbiamo a che fare con orizzonti limitati; immaginazione limitata ed esperienza limitata. Ma c’è un altro fattore determinante: il sistema statunitense è riconosciuto come tentacolare, conflittuale e, di conseguenza, in gran parte impermeabile alle influenze esterne e persino alla realtà. L’energia burocratica è dedicata quasi interamente alle lotte interne, che vengono portate avanti da coalizioni mutevoli nell’amministrazione; al Congresso; nella terra dell’Esperto e nei media. Ma queste lotte riguardano, in generale, il potere e l’influenza [interni] – e non i meriti intrinseci di una questione, e [quindi] non richiedono alcuna competenza o conoscenza effettiva”.

Il sistema è così vasto e complesso che si può fare carriera come “esperto dell’Iran”, diciamo, dentro e fuori dal governo, senza aver mai visitato il Paese o parlarne la lingua, semplicemente riciclando il buon senso comune in un modo che attiri il favore del clientelismo. Ci si troverà a combattere battaglie con altri presunti “esperti”, all’interno di un perimetro intellettuale molto ristretto, dove solo certe conclusioni sono accettabili.

Ciò che risulte con evidenza è che questo approccio culturale (il Complesso Industriale dei Think-Tank ) induce pigrizia e prevalenza di arroganza nel pensiero occidentale. Si presume che Trump abbia dato per scontato che Xi Jinping si sarebbe precipitato a incontrarlo, dopo l’imposizione dei dazi, per implorare un accordo commerciale, a causa delle difficoltà economiche della Cina.

Anche il contingente Kellogg dà per scontato che la pressione sia la condizione necessaria e sufficiente per costringere Putin ad accettare un cessate il fuoco unilaterale – un cessate il fuoco che Putin ha ripetutamente dichiarato di non accettare fino a quando non fosse stato concordato un quadro politico. Quando Witkoff riporta il punto di vista di Putin nella discussione del team di Trump, si pone come un oppositore al di fuori del “discorso autorizzato” che insiste sul fatto che la Russia prenda sul serio la distensione con un avversario solo dopo essere stata costretta a farlo da una sconfitta o da una grave battuta d’arresto.

Anche l’Iran ha ripetutamente affermato che non si lascerà spogliare delle sue difese convenzionali, dei suoi alleati e del suo programma nucleare. L’Iran ha probabilmente la capacità di infliggere danni enormi sia alle forze statunitensi nella regione che a Israele.

Anche in questo caso il team di Trump è diviso sulla strategia: per dirla in parole povere: negoziare o bombardare.

Sembra che il pendolo abbia oscillato sotto la forte pressione di Netanyahu e della leadership istituzionale ebraica negli Stati Uniti.

Poche parole possono cambiare tutto. Con un’inversione di rotta, Witkoff è passato dall’affermare il giorno prima che Washington si sarebbe accontentata di un limite all’arricchimento nucleare iraniano e non avrebbe richiesto lo smantellamento dei suoi impianti nucleari, e dopo a pubblicare sul suo account ufficiale X che qualsiasi accordo avrebbe richiesto all’Iran di ” fermare ed eliminare il suo programma di arricchimento nucleare e di armamento… Un accordo con l’Iran sarà concluso solo se sarà un accordo con Trump“. Senza una chiara inversione di rotta da parte di Trump, siamo sulla strada della guerra.

È chiaro che il Team Trump non ha considerato i rischi insiti nei loro programmi. Il loro primo “incontro per il cessate il fuoco” con la Russia a Riad, ad esempio, è stato teatro di facili argomentazioni. L’incontro si è svolto sulla base del semplice presupposto che, poiché Washington aveva deciso di raggiungere un cessate il fuoco tempestivo, “doveva essere così”.

“È noto”, osserva stancamente Aurelien , “che la politica dell’amministrazione Clinton nei confronti della Bosnia fu il prodotto di furiose lotte di potere tra ONG americane rivali ed ex membri dei diritti umani, nessuno dei quali sapeva alcunché di quella regione o vi era mai stato”.

Non è solo che la squadra sia indifferente alle possibili conseguenze di una guerra in Medio Oriente. È solo prigioniera di presupposti fasulli, secondo cui sarà una guerra facile.

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