di Stefano Dumontet e Domenico Fiormonte
Presentiamo, in esclusiva, la prima parte dello studio del prof. Stefano Dumontet, microbiologo (già docente presso l’Università Parthenope) e del prof. Domenico Fiormonte (docente di Sociologia della comunicazione all’Università Roma Tre) sugli intrecci fra interessi economici e ricerca scientifica.

1. La geopolitica della conoscenza: Big Tech, Big Science e Big Pharma
La geopolitica della conoscenza si occupa di descrivere e analizzare il modo in cui stati e nazioni, ma anche aree geografiche o linguistico-culturali (per esempio l’anglofonia) producono, gestiscono e diffondono la conoscenza e la cultura, spesso allo scopo di mantenere o incrementare il proprio status geopolitico e dunque loro capacità di rappresentare, controllare e orientare stili di vita e visioni del mondo. Naturalmente non è semplice definire che cosa siano “cultura” e “conoscenza”. Tuttavia sappiamo che gli sforzi del potere, soprattutto in epoca moderna, si sono concentrati sul dominio di quattro settori essenziali: l’educazione, i media (informazione), le arti (cinema, arte, letteratura, ecc.) e ovviamente la scienza.
Come aveva intuito Antonio Gramsci, il controllo della produzione scientifico-culturale è uno degli ingredienti essenziali dell’egemonia. Gramsci parlava di un “rapporto pedagogico” che si instaura anche fra nazioni: in sostanza una competizione fra visioni, identità e narrazioni del mondo che si svolge in parallelo (e che in molti casi precede o si intreccia) a quella politica, economica, militare, ecc. Forse il modo più diretto per illustrare gli strumenti di questa “pedagogia” è dare uno sguardo ad alcuni dati che riguardano i quattro pilastri della geopolitica della conoscenza oggi. Iniziamo con le cosiddette “media company”, termine un po’ ambiguo con il quale si definiscono aziende i cui interessi spaziano dalla produzione di contenuti alla gestione delle infrastrutture (per esempio Disney e Alphabet). Fra le prime dieci per dimensioni di fatturato sette sono statunitensi, due cinesi e una giapponese (spoiler: è Sony). Su tutte svetta il gigante Alphabet, con 284 miliardi di euro di fatturato nel 2023, seguita a distanza da Meta Platforms di Mark Zuckerberg, con 124 miliardi di euro e al terzo posto con 112 miliardi abbiamo Comcast, la più multimediale del terzetto (proprietaria fra l’altro di NBC Universal, una delle major di Hollywood, nonché di una serie di colossi televisivi, fra cui Sky, la ex multinazionale del magnate australiano Rupert Murdoch). Al quarto posto, con 101 miliardi di fatturato, si posiziona la prima azienda cinese, Bytedance, proprietaria, fra l’altro, di TikTok. Il dominio occidentale e soprattutto americano è ancora più evidente se lo sguardo si estende alle prime ventinove aziende: ben diciotto sono statunitensi, quattro cinesi, due giapponesi, una francese, una anglo-olandese (di cui diremo fra poco), una olandese, una tedesca, una svedese. Già questo spaccato è una fotografia della geopolitica della conoscenza: le leve dell’informazione, dell’intrattenimento, della pubblicazione scientifica e di internet sono saldamente nelle mani degli Stati Uniti, con alcuni tentacoli in paesi allineati (sostanzialmente NATO) e un’unica isola minacciosamente sovrana: la Cina.
E qui occorre fare una breve precisazione. L’analisi dell’influenza e del peso geopolitico delle media company è resa oggi più complessa dal processo di piattaformizzazione, ovvero dalla trasformazione della produzione e dell’accesso alla conoscenza. I Big Five o GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft), almeno in occidente, sono i protagonisti globali di questa trasformazione e si pongono sempre più, a qualsiasi livello, dall’informazione all’istruzione, dall’intrattenimento agli acquisti online, come i mediatori della nostra realtà. Qualche anno fa Mediobanca aveva usato l’etichetta “Websoft” per descrivere un complesso scenario che, almeno dal punto di vista economico, vede (almeno secondo l’ultimo studio una competizione testa a testa fra Stati Uniti e Cina: gli unici due paesi al mondo che possono rivendicare una sovranità epistemica, ovvero un controllo diretto sui mezzi di produzione e diffusione della conoscenza.
Altro snodo fondamentale del controllo occidentale sulla realtà è quello delle agenzie di stampa. Il flusso dell’informazione giornalistica mainstream è infatti gestito da tre agenzie di stampa: Associated Press (Stati Uniti), France Press (Francia) e Reuters (Regno Unito). Un recente report del gruppo indipendente Swiss Policy Research, intitolato “The propaganda multiplier”, ha mostrato come “la dipendenza dalle agenzie globali crea una sorprendente somiglianza nell’informazione internazionale: da Vienna a Washington, i nostri media riportano spesso gli stessi argomenti, utilizzando molte delle stesse frasi – un fenomeno che altrimenti sarebbe associato ai ‘media controllati’ degli Stati autoritari.” D’altra parte, già nel 1983 il chimico americano Eugene Garfield, l’inventore dell’impact factor, sosteneva che le riviste occidentali controllavano il flusso della comunicazione scientifica quasi quanto le agenzie di stampa occidentali monopolizzavano l’agenda delle notizie internazionali. Il collegamento (per nulla casuale, come vedremo) ci porta finalmente al quarto pilastro: i monopoli della pubblicazione scientifica.
Publishers Weekly ogni anno stila una classifica degli editori più importanti del mondo. Ormai da circa dieci anni la classifica è dominata dagli editori accademico-scientifici o più generalmente detti educational (come, per esempio, Pearson). Fra le prime dieci aziende, ben sei sono editori scientifici: RELX Group (UK), Thomson Reuters (Canada), Pearson (UK), Wolters Kluwer (Olanda), Springer (Germania) e Wiley (Stati Uniti). Il fatturato di RELX nel 2023 è stato di 6,2 miliardi di dollari, segue Thomson Reuters con 6 e al terzo posto un editore commerciale (generalista), Bertelsmann (Germania) con 5,9 milioni di dollari. I 10 primi editori generano insieme un fatturato di 38,7 miliardi di dollari, pari al 55,5% di tutte le vendite delle aziende presenti nella classifica 2023. Tra il 2019 e il 2023 i ricavi editoriali totali delle aziende in classifica sono aumentati di circa il 16%. Anche in questo settore strategico vediamo un’avanzata della Cina, che piazza all’undicesimo posto un suo gigante editoriale, Phoenix Publishing, con 1,8 miliardi di dollari di fatturato. La ragione di questi fatturati astronomici è presto detta: gli editori scientifici non pagano né la manodopera né la materia prima. Chi produce la “merce” venduta dagli editori sono ricercatori e accademici che a loro volta vengono pagati dalle loro istituzioni (università, centri di ricerca, ecc.) per lo più pubblici. Il paradosso, dunque, è che le istituzioni pagano due volte: gli stipendi dei loro ricercatori e gli abbonamenti alle riviste dove gli stessi ricercatori pubblicano.
Nel 2013 un gruppo di ricercatori canadesi pubblica un lavoro che diventerà un punto di riferimento per gli studi sugli oligopoli dell’editoria scientifica. L’analisi si è basa su 45 milioni di documenti indicizzati da Web of Science nel periodo 1973-2013. La loro ricerca ha confermato che sia nelle Scienze Naturali e Mediche sia nelle Scienze Sociali e Umanistiche, “cinque editori rappresentano più della metà della produzione odierna di riviste”. La situazione delle scienze sociali è particolarmente sorprendente: “insieme i primi tre editori commerciali da soli – Reed-Elsevier, Taylor & Francis e Wiley-Blackwell – rappresentano quasi il 50% di tutti gli articoli nel 2013”. Se si aggiungono gli altri due editori di punta, Sage e Springer, si raggiunge il 53% (da qui, di nuovo, l’espressione “big five”).
Questa concentrazione di potere epistemico ha un effetto distorsivo a livello globale su vari fronti. Il primo effetto è quello di minare la diversità linguistica, culturale ed epistemica. Il secondo è quello di distorcere la valutazione accademica. RELX (Elsevier) e Thomson Reuters (oggi Clarivate Analytics) sono proprietari rispettivamente di Scopus e Web of Science, le piattaforme che generano gli indici di impatto della produzione scientifica, ovvero l’altare sul quale tutte le istituzioni scientifiche del globo si immolano. Non è un caso che la narrazione mediatica tenda a considerare società private come Scopus come la “bibbia della scienza”: è successo (naturalmente) durante la pandemia, quando un noto giornalista italiano pubblicò un articolo che intendeva fare le pulci alle “virostar”, misurando la loro rilevanza in base alla visibilità dei loro lavori in Scopus. Qui siamo oltre la confusione del contenuto con il contenitore: il contenitore, assemblato da una società che opera secondo logiche e interessi commerciali e non scientifici, diventa sinonimo di “qualità della scienza”.
E tuttavia è su manipolazioni di questo tipo che si basano le carriere dei ricercatori e l’accesso alle fonti di finanziamento. Il combinato disposto riviste-indice-di impatto, infatti, ha una ricaduta diretta sui ranking delle università. I ranking hanno uno scopo (e un effetto) simile ai rating delle banche internazionali, fornendo una valutazione basata su criteri fortemente discutibili. E nondimeno rettori e amministratori di grandi e piccole università di tutto il globo attendono queste “classifiche” come i governi del mondo attendono ogni anno il verdetto di Moody’s o Standard & Poor’s sui titoli di debito sovrani.
Per questa e altre ragioni le istituzioni spingono i propri ricercatori a pubblicare nelle riviste perlopiù controllate e indicizzate dagli oligopolisti, i quali diventano gestori e di fatto “proprietari” di un contenuto che non hanno prodotto. Si tratta dunque di un meccanismo di appalto in cui il bene pubblico (la ricerca) viene ceduto a un’impresa privata (gli editori-piattaforme) che al termine del processo ne valuta indirettamente la qualità.
Il processo di costruzione (e manipolazione) del prestigio di una rivista e quello della valutazione del ricercatore/università che produce l’articolo/ricerca riflettono una struttura circolare perversa, un algoritmo che possiamo semplificare così:
· Gli editori pubblicano le riviste.
· Le università le comprano.
· Le riviste sono indicizzate in grandi database (perlopiù dagli stessi editori che le producono: Elsevier, Thomson Reuters).
· Le università adottano gli indici (Scopus= Elsevier, Web of Science= già Thomson Reuters, ora Clarivate Analytics) per valutare i propri ricercatori, cioè sé stesse.
E il ciclo continua…
Da questo serpente che si morde la coda sono escluse vaste aree del mondo, soprattutto del Sud Gobale: intere geografie e culture di cui il sistema rating-ranking del duopolio Scopus-WoS certifica l’invisibilità e dunque l’irrilevanza.
Come scrivevamo sopra, il business principale degli editori oggi non è più quello, seppur lucroso, degli abbonamenti, ma la raccolta di ogni traccia lasciata dal nostro passaggio sulle varie piattaforme, una rete di applicazioni e servizi che è stata quasi interamente acquisita da Elsevier-RELX. Stiamo parlando di ex progetti e risorse indipendenti, come Mendeley, SSRN, bepress, Plum, ecc., che offrono dalla consultazione e lettura di una fonte (articolo, libro, ecc.) allo sviluppo di un esperimento, dalla ricerca di risorse finanziarie a quella di un posto di lavoro, ecc. Questo sistema di controllo (e quindi di direzione) della ricerca, noto come “surveillance publishing”, viene potenziato dall’IA, in quanto le grandi multinazionali dell’editoria, che oggi traggono i maggiori profitti dall’intermediazione dei dati, puntano all’implementazione di propri strumenti di IA che, alla fine, alimenteranno il mercato dell’Ed-Tech, sia attraverso l’offerta di strumenti didattici (alternativi o sostitutivi dell’insegnamento tradizionale), sia di strumenti di ricerca e scrittura, come denunciato persino da Nature. Fu Eugene Garfield, citato poco sopra, a fondare nel 1956 una società privata, l’Institute for Scientific Information (ISI), che successivamente produrrà lo Science Citation Index. Garfield nel 1992 venderà l’ISI a Thomson Reuters che lo trasformerà nel Web of Science. Pochi ricordano, tuttavia, che i progetti di Garfield ottennero cospicui finanziamenti dalle agenzie federali statunitensi. Il che conferma ancora una volta il valore geopolitico strategico del controllo e della gestione degli strumenti di valutazione della conoscenza scientifica.
Questo excursus sulla geopolitica della conoscenza era necessario per inquadrare la questione più specifica della geopolitica dei vaccini di cui ci occuperemo nei prossimi paragrafi. Per quanto a prima vista Big Pharma possa sembrare distante da Big Tech e Big Publishing-Big Science, il sistema dei quattro pilastri sommariamente delineato (in realtà tre, se escludiamo arte e intrattenimento, di cui non abbiamo parlato) rappresenta il terreno necessario sia per implementare sia per diffondere qualsiasi strategia economica, politica, militare, culturale o scientifica. La stagione pandemica può essere compresa e spiegata solo all’interno della più ampia cornice della geopolitica della conoscenza, o se vogliamo di modelli epistemici in grado di produrre rappresentazioni della realtà che vengono imposte come uniche verità accettabili. Il “combinato disposto” tra piattaformizzazione dell’intrattenimento e dei contenuti da questo veicolati, dell’oligopolio dell’informazione mainstream e dell’oligopolio della gestione e diffusione dei risultati scientifici determina lo scenario che ha reso possibile, per esempio, cancellare ogni traccia e ogni memoria di quarant’anni di corruzione dell’industria farmaceutica e crisi etica della medicina. Nel 1980 un famoso editoriale del New England Journal of Medicine, una delle tre riviste mediche più importanti al mondo, denunciava come l’interesse economico stesse stravolgendo la professione medica: “ Senza una classe medica responsabile e un pubblico informato, le aziende private potrebbero deviare il sistema dalla sua funzione di servizio pubblico ai propri fini commerciali.” Da quel momento in poi si sono susseguiti libri, studi, inchieste e denunce nei confronti delle case farmaceutiche. Tra il 2013 e il 2015 escono due libri pubblicati da case editrici primarie (e recensiti da tutte le riviste più importanti): Peter Gøtzsche, Deadly Medicines and Organised Crime: How Big Pharma Has Corrupted Health Care, CRC Press, 2013; Ben Goldacre, Bad Pharma: How Drug Companies Mislead Doctors and Harm Patients, Faber & Faber, 2013; (nessuno di questi tradotto in italiano). Nel recensirli, Sharon Batt nota come “l’evidenza sostiene in modo schiacciante l’affermazione che la politica farmaceutica non è più al servizio dell’interesse pubblico; le domande cruciali ora sono come ciò sia accaduto e cosa fare al riguardo.”
Il rapporto incestuoso fra Big Pharma e editoria scientifica ovviamente non finisce qui. Nel marzo 2016 un gruppo di medici, scienziati e organizzazioni indipendenti, fra cui il Center for Science in the Public Interest, invia una lettera alla National Library of Medicine (NLM) per chiedere che PubMed, uno dei maggiori database di riviste biomediche al mondo (più di cinquemila riviste indicizzate per circa trenta milioni di riferimenti bibliografici), includa negli abstract indicazione sui potenziali conflitti di interesse degli autori. A sostegno di tale richiesta i firmatari riportano in calce una serie di studi che mostrano come gli studi “sponsorizzati” o direttamente finanziati da industrie, riportino quasi sempre risultati favorevoli ai propri sponsor. E ciò accade dall’industria alimentare ai telefoni cellulari, dai farmaci alle bevande gassate, ecc. Arrivando all’epoca COVID, non è possibile dimenticare lo scandalo dei contratti “capestro” imposti da Pfizer e Moderna a paesi emergenti come Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Sud Africa, Perù, ecc. Il caso più documentato è probabilmente quello del Sud Africa, dove l’azione legale di un’importante organizzazione no-profit, la Health Justice Initiative (HJI), è riuscita a ottenere nel 2023 i contratti originali firmati dal governo sudafricano con Pfizer e Moderna. Si legge fra l’altro nel rapporto di HJI: “I resoconti delle negoziazioni e gli accordi di riservatezza sono ciò che le aziende farmaceutiche non volevano che il pubblico vedesse… e ora è chiaro il perché. Una visione senza precedenti dei loro obiettivi e delle loro tattiche rivela una strategia di massimizzazione dei profitti nei confronti di un Paese che lotta per mantenere la popolazione in salute, che si nasconde dalla responsabilità di eventuali problemi associati alle forniture e che fa ricadere l’onere dell’importazione dei vaccini sullo stesso governo sudafricano”.
Per comprendere le dimensioni del problema Big Pharma, diamo uno sguardo ai numeri, come abbiamo fatto per Big Tech e Big Publishing. Anche qui l’egemonia occidentale e in particolare statunitense è fuori discussione. Fra le prime dieci aziende al mondo per fatturato cinque sono americane, due svizzere, due britanniche e una francese. La proporzione si mantiene inalterata anche considerando le prime venti: metà sono comunque statunitensi. Le prime quattro sono tutte statunitensi: Pzifer, Merck & co., AbbVie e Janssen (Johnson & Johnson’s). La classifica dunque vede saldamente al comando Pfizer, con un fatturato che nel 2022, in piena epoca COVID, ha superato i cento miliardi di dollari, per poi scendere nel 2023 ad “appena” 59,5 miliardi e risalire infine nel 2024 a 63,6 miliardi. Per avere un’idea delle dimensioni di questo gigante, la seconda classificata, Marck & co., fattura 59,2 miliardi di dollari. Un singolo colosso farmaceutico perciò fattura quasi il doppio di tutto il settore dell’editoria scientifica (ricordiamolo, erano 38,7 miliardi), rivaleggiando con i grandi conglomerati di Big Tech (Comcast, 112 miliardi di euro, Meta-Zuckerberg, 124 miliardi di euro).
Ma dove Big Pharma risulta imbattibile è nell’attività di lobbying: negli Stati Uniti nel suo complesso l’industria farmaceutica nel 2024 ha speso 293,7 milioni di dollari (e, forse per il long COVID, nel 2023 avevano toccato la cifra record di 378 milioni di dollari). La sproporzione rispetto agli altri settori è evidente: al secondo posto abbiamo l’industria elettronica che spende “solo” 189,2 miliardi e al terzo il settore assicurativo che nello stesso anno ne ha spesi 117,3.
In conclusione, i gangli vitali del sistema di controllo e manipolazione dei media, delle piattaforme digitali e della ricerca scientifica erano già operativi ed indissolubilmente intrecciati da decenni. Big Pharma ha trovato la strada spianata perché tutte le posizioni, tutte le aree epistemiche strategiche – come abbiamo visto – erano state occupate e “militarizzate” (traduciamo così l’espressione inglese weaponized).
2. I vaccini anti-COVID come caso geopolitico
Il 30 giugno 2021 si riunisce per la prima volta a Washington la “Task Force on COVID-19 Vaccines, Therapeutics and Diagnostics for Developing Countries” formata dai rappresentanti della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale e dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio (il famigerato WTO). Le tre più potenti istituzioni economico-finanziarie transnazionali del mondo scendono in campo unite per definire quella che sarà l’agenda economico-politica della pandemia. A guidare la Trimurti (il cui sito Web https://www.covid19taskforce.com è stato purtroppo smantellato) è Gita Gopinath, brillante economista indiana all’epoca Chief Ecomist del FMI. Gita è una delle menti autrici dei cosiddetti pandemic papers, dove si parla di “guerra fra virus e vaccini”, il mantra che verrà diffuso in ogni angolo del pianeta e che ancora oggi ha valore di verità indiscutibile e assoluta: “vaccino = arma per la salvezza.”
Come mai le tre più potenti organizzazioni economico-finanziarie al mondo scendono in campo in modo così diretto? Rispondere a questa domanda non è semplice, perché in questa vicenda ragioni economiche e finanziarie si intrecciano a interessi geopolitici e militari, in un gioco di specchi tenuto in bilico in modo volutamente fuorviante. Possiamo tuttavia partire da una considerazione: i vaccini sono prodotti industriali molto particolari. Da un lato condividono la sorte di tutti gli altri prodotti industriali in termini di marketing, diffusione, strategie politiche di penetrazione nei mercati dei vari paesi, imposizione del loro consumo anche quando non necessario, asservimento a logiche di profitto. Dall’altro, sono uno strumento del potere dei vari attori geopolitici globali. Riguardo il primo punto, una buona pubblicità li promuove, una cattiva pubblicità ne disincentiva l’acquisto e il consumo, come avvenne negli Stati Uniti in occasione della influenza suina del 1976 o dei tentativi falliti di mettere a punto un vaccino antinfluenzale universale.
I vaccini partono avvantaggiati rispetto a qualsiasi altro tipo di prodotto, perché i guardiani dell’egemonia epistemica (media, istruzione e ricerca) li rappresentano come unica possibilità di protezione da micidiali malattie che possono mietere decine di milioni di vittime in tutto il mondo. Anche per questo le superpotenze sono entrate immediatamente in competizione, sia per accaparrarsi fette di un mercato assai redditizio, sia per estendere o consolidare la loro influenza a livello globale. Un rapporto dell’Economist Intelligence Unit definiva questa “diplomazia dei vaccini” così: “L’assistenza sotto forma di vaccini è spesso accompagnata da vincoli economici o politici”. Amit Gupta, professore presso lo USAF Air War College, nel 2021 affermava esplicitamente: “Se la Cina fornirà soluzioni migliori per affrontare la pandemia, sarà in grado di indebolire l’ordine internazionale liberale creato dagli Stati Uniti”.
Nell’ottobre del 2002, Melissa Fleming, giornalista americana e sottosegretaria delle Nazioni Unite per le comunicazioni globali, in occasione di un incontro del World Economic Forum dedicato al clima, dichiarava: “Noi possediamo la scienza e bisogna che il mondo lo sappia”. Quel “noi” evidentemente faceva riferimento all’occidente e in particolare alla cosiddetta anglosfera. È difficile comprendere la complessa dinamica della geopolitica dei vaccini senza tener conto di questa dichiarazione. Il titolo di un editoriale di Nature del 28 ottobre 2024 recitava: “The world needs a US president who respects evidence”. Il riferimento è ovviamente all’atteggiamento “antiscientifico” tenuto da Donal Trump all’inizio della pandemia. La scienza, dunque, appartiene a una parte precisa dell’élite statunitense e ai suoi satelliti e con essa tutto ciò che dalla scienza decorre. È bene che il mondo se ne faccia una ragione.
Dal punto di vista geopolitico questo snodo è essenziale. L’imposizione dei vaccini occidentali anti-COVID al mondo intero è dovuta a una sapiente miscela di politica del “grosso bastone” (big stick) preconizzata da Theodore Roosevelt, della presunta superiorità anglo-americana nella scienza, dal supporto di apparati burocratici statali corrotti e dall’incondizionato appoggio dei mass media. La geo-politica dei vaccini si definisce esattamente in questi termini.