COME L’ESTABLISHMENT STA DOMANDO I POPULISMI

DiOld Hunter

9 Maggio 2025

di Thomas Fazi per compactmag.com    –    Traduzione a cura di Old Hunter

La vittoria del candidato di destra George Simion al primo turno delle elezioni presidenziali rumene è stata celebrata da alcuni esponenti della destra come una vittoria populista. Secondo questa analisi, le forze allineate all’UE e alla NATO che hanno ribaltato le precedenti elezioni del paese a novembre non sono riuscite a contrastare la crescente reazione contro l’establishment. Ma un’analisi più approfondita suggerisce un quadro più complesso e preoccupante. 

L’ascesa di Simion arriva sulla scia di una serie di eventi  che hanno minato la credibilità democratica della Romania. Lo scorso novembre, il candidato indipendente euroscettico Călin Georgescu ha vinto il primo turno delle elezioni presidenziali con un risultato a sorpresa. Prima che si potesse tenere il ballottaggio, tuttavia, la Corte costituzionale rumena ha annullato il risultato, citando una presunta ma non dimostrata interferenza russa. A marzo, con una mossa ancora più straordinaria, la commissione elettorale ha squalificato Georgescu dalla candidatura. Sebbene una corte d’appello di grado inferiore abbia temporaneamente annullato la decisione, l’Alta Corte di Cassazione e Giustizia l’ha infine confermata. A quel punto, il destino politico di Georgescu era segnato. 

Questi sviluppi suggeriscono che le élite non si limitano più a influenzare i risultati elettorali attraverso la manipolazione dei media, la censura e la pressione economica. Ora sono disposte ad abbandonare persino la parvenza di una procedura democratica, escludendo potenziali candidati o addirittura scartando apertamente i risultati elettorali quando non producono il risultato “corretto”. La potenziale squalifica legale di Marine Le Pen dalle future elezioni in Francia e la designazione dell’AfD tedesca come “organizzazione estremista” da parte dei servizi segreti del paese possono essere viste come ulteriori esempi di questa nuova controffensiva. 

Ma gli eventi in Romania indicano anche un’altra tattica messa in atto nella guerra contro la minaccia populista. Simion è il leader del partito nazionalista Alleanza per l’Unità dei Romeni (AUR), che in precedenza aveva sostenuto Georgescu e si era impegnato a non candidarsi contro di lui. Ha lanciato la sua campagna dopo che Georgescu è stato escluso, presentandosi come un difensore della democrazia e della sovranità nazionale e persino suggerendo che avrebbe nominato Georgescu primo ministro se gli venisse data l’opportunità di farlo. Ma concludere che la probabile vittoria di Simion al turno finale sarà una sconfitta per l’establishment potrebbe essere prematuro. 

A differenza di Georgescu, a Simion è stato permesso di candidarsi. Perché? La risposta potrebbe risiedere nel tipo di populismo che rappresenta. Da un lato, Simion ha posizioni molto più radicali di Georgescu su questioni culturali e identitarie. È noto per la sua retorica incendiaria anti-ungherese e per aver sostenuto politiche che potrebbero mettere a repentaglio i diritti della minoranza etnica ungherese in Romania, tra cui l’abolizione delle scuole di lingua ungherese e l’uso dell’ungherese nelle istituzioni pubbliche. Ha anche rilasciato  dichiarazioni irredentiste sul ripristino dei confini rumeni del 1940, che includerebbero territori ora in Moldavia e Ucraina. In altre parole, Simion è un autentico etnonazionalista le cui posizioni probabilmente giustificano l’etichetta di “estrema destra”, a differenza di Georgescu, la cui campagna si è concentrata principalmente sulla politica economica e sull’orientamento geopolitico della Romania. 

D’altro canto, Simion è significativamente più allineato con gli interessi dell’establishment su questioni cruciali come la NATO, l’integrazione europea e la guerra in Ucraina. Pur essendo critico nei confronti dell’Unione Europea, la sua retorica rimane entro i confini del tradizionale euroscetticismo conservatore, concentrandosi sulle riforme piuttosto che sul ritiro. Ha espresso disapprovazione per alcuni aspetti della gestione della guerra in Ucraina, ma rimane apertamente a favore della NATO e degli Stati Uniti, e ha ripetutamente condannato la Russia. Il suo partito, AUR, fa parte del gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR) al Parlamento europeo, noto per la sua posizione atlantista e il suo pieno sostegno all’Ucraina.  

In quest’ottica, Simion rappresenta un nuovo e sempre più diffuso tipo di attore politico: il finto populista che combina un nazionalismo culturale stridente con la lealtà allo status quo economico e geopolitico. Questa doppia identità lo rende accettabile per l’establishment, nonostante l’etichetta di “estrema destra” spesso a lui attribuita. La vera linea rossa, a quanto pare, non è la retorica culturale, ma l’opposizione alle politiche economiche globaliste e alle alleanze militari come la NATO. 

Gli eventi in Romania, quindi, illustrano la strategia in evoluzione dell’establishment per neutralizzare la minaccia populista: un duplice approccio di repressione e cooptazione. Candidati come Georgescu, che combinano nazionalismo economico con posizioni di politica estera in contrasto con Washington e Bruxelles, vengono accolti con la repressione istituzionale. Nel frattempo, figure come Simion, che imitano lo stile populista ma sostengono pilastri sistemici chiave, vengono promosse o quantomeno tollerate. 

Questa tattica non è esclusiva della Romania. In tutta Europa abbiamo assistito a sviluppi simili. Queste mosse sono inquadrate come difese della democrazia, ma mirano chiaramente a eliminare – o addomesticare – gli oppositori che si discostano dal consenso. Il paradosso è che i falsi populisti spesso sposano visioni culturali più radicali rispetto alle loro controparti più genuinamente anti-establishment, come nel caso di Simion e Georgescu. Questa inversione non è casuale. L’establishment è disposto ad accogliere il radicalismo culturale purché non metta in discussione lo status quo economico e geopolitico.

Questo schema riecheggia un precedente storico. All’inizio del XX secolo, le élite liberali di tutta Europa strinsero alleanze tattiche con movimenti autoritari e persino fascisti per contenere la minaccia del socialismo. I leader aziendali e i politici centristi spesso consideravano i fascisti strumenti utili per reprimere le agitazioni operaie e il sentimento rivoluzionario. Le élite britanniche degli anni ’30 non placarono Hitler in un maldestro tentativo di evitare un altro conflitto globale con la Germania, ma perché per molti aspetti consideravano i nazisti alleati occidentali contro un nemico comune: l’Unione Sovietica.

In questo senso, il fascismo non era l’antitesi del liberalismo, ma una sua derivazione distorta: una misura estrema per difendere l’ordine oligarchico dalle minacce sistemiche. Oggi, la minaccia non è più il socialismo rivoluzionario, ma il populismo anti-globalista e antimperialista. Il campo di battaglia non è più la lotta di classe, ma la sovranità, la politica estera e la legittimità delle istituzioni sovranazionali. 

A differenza del fascismo storico, gli odierni nazionalisti culturali sostenuti dall’establishment non propugnano la mobilitazione di massa o un’economia corporativa. Piuttosto, promuovono guerre culturali lasciando intatte le strutture economiche neoliberiste che definiscono l’Unione Europea. Questo va benissimo per Bruxelles. Spostare il conflitto politico sul terreno dell’identità e della moralità offre un modo per preservare lo status quo. 

Questo cambiamento è già visibile nell’evoluzione dei partiti di destra europei. Gruppi come la Lega in Italia e il Rassemblement National in Francia hanno gradualmente abbandonato le loro critiche, un tempo radicali, all’integrazione europea e all’euro (sebbene l’esclusione della Le Pen suggerisca che la vecchia guardia del partito potrebbe ancora essere considerata un rischio eccessivo). La loro retorica ora si concentra meno sulla sovranità monetaria o sulle riforme economiche e più su questioni come l’immigrazione, la cultura nazionale e

la difesa dei valori tradizionali. L’Unione Europea ha svolto un ruolo chiave nell’orchestrare questa transizione. Escludendo tutte le alternative economiche alla governance neoliberista, Bruxelles garantisce che il dissenso rimanga confinato alla sfera culturale. La destra populista si è adattata di conseguenza, barattando le richieste di cambiamento strutturale con le lamentele sulla “wokeness” e sul declino culturale.

Uno sviluppo parallelo sta avvenendo negli Stati Uniti. Lì, le élite aziendali e oligarchiche hanno prima cooptato l’attivismo di sinistra attraverso il wokeismo e le politiche di diversità. Ora stanno facendo lo stesso con la destra, abbracciando narrazioni anti-woke e un’immagine nazionalista. A partire dall’acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk nel 2022, l’oligarchia si è ri-etichettata come vittima del wokeismo dei dirigenti di medio livello, assorbendo l’opposizione per mantenere il controllo. 

Il successo di questa strategia rivela i limiti concettuali della destra. Molti conservatori concepiscono la lotta contro l’establishment principalmente in termini culturali, piuttosto che come una battaglia per il potere di classe o la disuguaglianza strutturale. Questo li rende particolarmente vulnerabili alla cooptazione da parte di forze d’élite che offrono vittorie simboliche lasciando intatto il sistema sottostante. 

Resta da vedere come Simion, se eletto, risponderà al malcontento popolare che lo ha portato alla ribalta. Sebbene eventi imprevisti potrebbero spingerlo ad adottare politiche più genuinamente populiste, è molto più probabile che si tratti di un esempio da manuale di gestione del dissenso. In definitiva, la recente storia elettorale della Romania illustra l’approccio a due livelli dell’establishment: reprimere coloro che rappresentano una vera sfida ed elevare coloro che lo fanno solo per finta. In questo modo, l’establishment conserva il suo potere e si adatta a un elettorato sempre più risentito. La domanda è se gli elettori continueranno a cadere nell’illusione o inizieranno a vederci chiaro.

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