
di Elijah J. Magnier sul suo ejmagnier.com – Traduzione di Old hunter
Nessun presidente degli Stati Uniti dai tempi di Dwight D. Eisenhower nel 1956 ha anteposto così chiaramente gli interessi americani alle richieste israeliane. Oggi, Israele si ritrova inaspettatamente solo. Pur disponendo delle forze armate più formidabili del Medio Oriente, del coordinamento diretto con il CENTCOM e dell’implicito sostegno della NATO, rimane paralizzato dalla prospettiva delle capacità missilistiche di Ansar Allah. Un singolo attacco di precisione in grado di bloccare l’aeroporto Ben Gurion per ore è sufficiente a costringere milioni di israeliani a rifugiarsi nei bunker. La realtà è cruda: Israele non può sostenere una guerra senza il pieno impegno degli Stati Uniti. La sua dipendenza non è più una silenziosa realtà strategica: è una vulnerabilità esposta.
Dopo mesi di incessante pressione militare, gli Stati Uniti hanno compiuto una svolta drammatica e insolita nel Mar Rosso. In un raro momento di moderazione strategica, Washington ha ordinato la sospensione di tutte le operazioni militari contro Ansar Allah, in Yemen. La decisione fa seguito a una campagna straordinariamente costosa: migliaia di bombe sganciate, due aerei da combattimento persi e nove dei suoi droni MQ-9 Reaper più avanzati abbattuti, il tutto per un costo finanziario stimato di circa 2 miliardi di dollari.
Nonostante la loro enorme superiorità militare, gli Stati Uniti non sono riusciti a ottenere la deterrenza che cercavano. Sono stati invece costretti ad affrontare un’amara realtà: lo Yemen non può essere sottomesso con la forza bruta. Ancora più importante, Washington ha finalmente capito ciò che avrebbe dovuto essere chiaro fin dall’inizio: di essere stata coinvolta in uno scontro strategicamente inutile, guidato in gran parte dalla escalation e dagli interessi di Israele, non da quelli americani.
Invece di seguire la strada del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, che prevedeva un ulteriore coinvolgimento militare, il Presidente Donald Trump ha scelto una strada diversa. Ha aggirato Tel Aviv, ha stretto un accordo unilaterale con Sana’a e ha posto fine alla campagna statunitense nel Mar Rosso. È stata un’uscita calcolata, studiata per evitare l’umiliazione totale e salvare Washington da una guerra sempre più intensa e impossibile da vincere. Ma ha anche lanciato un messaggio più ampio: persino l’esercito più potente del mondo sa quando è il momento di ritirarsi.
Per Ansar Allah, questa non è altro che una vittoria politica e simbolica. Lo Yemen può ora vantare un risultato straordinario nella guerra moderna: resistere da solo a un’azione militare guidata dagli Stati Uniti e imporre un ritiro negoziato. In una regione in cui la resistenza si scontra solitamente con una travolgente devastazione, lo Yemen ha ridefinito la narrazione. Non è più visto come una forza ribelle isolata, ma come un attore con cui fare i conti.
La portata di questo risultato è stata rivelata quando il leader di Ansar Allah, Abdel Malek al-Houthi, ha annunciato che lo Yemen aveva effettuato 131 attacchi contro Israele, lanciando 235 missili e droni. Queste operazioni, ha affermato, sono state condotte esclusivamente per fare pressione su Israele affinché revocasse l’assedio umanitario di Gaza. È una dimostrazione sbalorditiva di guerra asimmetrica condotta con un chiaro obiettivo politico e un livello di disciplina strategica che ha costretto le potenze globali a riconsiderare i propri calcoli.
Ma mentre gli Stati Uniti si ricalibrano, Israele prosegue con una strategia diversa, radicata nella vendetta, nell’espansionismo e nell’impunità. Tel Aviv ha intensificato la sua campagna contro lo Yemen prendendo di mira infrastrutture civili critiche. Uno degli atti più eclatanti è stato il bombardamento dell’aeroporto internazionale di Sana’a, il principale snodo umanitario del Paese. Operativo solo per due voli umanitari settimanali verso Amman, l’aeroporto non aveva alcuna utilità militare. Ma la sua distruzione, la prima nei suoi 50 anni di storia, è stata un colpo calcolato alla già fragile rete umanitaria dello Yemen.
Israele ha ammesso di aver preso di mira un aereo civile, riecheggiando tattiche a lungo utilizzate nella sua campagna contro Gaza: paralizzare le infrastrutture civili per infliggere punizioni collettive. Centrali elettriche, porti e rotte di rifornimento sono stati tutti sistematicamente presi di mira, riecheggiando i sette anni di bombardamenti sostenuti dagli Stati Uniti che hanno devastato lo Yemen. Ma questa volta la brutalità è esclusivamente israeliana, e in aperta violazione del diritto internazionale.
Il modello dell’impunità è familiare. Dai ripetuti attacchi in Libano e Siria alla sua guerra incessante a Gaza, Israele continua ad agire al di fuori dei limiti della responsabilità legale e morale. Il mandato di arresto della CPI per crimini di guerra contro Netanyahu non ha fatto altro che accrescere il senso di isolamento politico di Israele, non la sua moderazione.
Nel frattempo, a Washington si intravedono segnali di un cambiamento radicale. Dal suo ritorno alla Casa Bianca, Donald Trump ha adottato misure che hanno scosso l’establishment politico israeliano. In particolare, ha rivelato pubblicamente che si ritiene che solo 21 ostaggi israeliani siano ancora vivi, in aperta contraddizione con la versione di Netanyahu, che ne affermava un numero maggiore. La rivelazione non solo ha messo in imbarazzo Israele, ma ha anche messo a nudo la manipolazione da parte di Netanyahu del numero degli ostaggi, rivolta al suo stesso popolo solo per prolungare la guerra ed evitare ricadute politiche.
Trump si è spinto oltre. Nonostante le forti obiezioni israeliane, ha riaperto i negoziati con l’Iran sul suo programma nucleare, riaprendo un canale diplomatico che Tel Aviv aveva a lungo cercato di chiudere. Ha anche ordinato l’invio di aiuti umanitari a Gaza, una mossa vista come una sfida diretta al governo di coalizione israeliano, dove diversi ministri propugnano come politiche la fame e la pulizia etnica dei palestinesi.
Forse l’aspetto più significativo è che Trump ha raggiunto un accordo unilaterale con Ansar Allah dello Yemen, escludendo Israele sia dai negoziati che dall’esito. L’accordo ha posto fine alle operazioni militari statunitensi nel Mar Rosso e ha messo da parte Israele. Per un Paese da tempo abituato a essere consultato su ogni mossa statunitense nella regione, questa esclusione è un duro colpo diplomatico.
Tutto ciò evidenzia una fondamentale ricalibrazione della politica estera statunitense. Israele, a lungo considerato un’eccezione strategica, si ritrova ora ad essere un alleato tra tanti, e non necessariamente il più importante. Washington sta iniziando a dare priorità ai propri interessi strategici rispetto alle ambizioni regionali di Tel Aviv. Questo riequilibrio è particolarmente evidente nella prossima visita di Trump in Medio Oriente. È significativo che Israele non sia incluso nell’itinerario. Invece, Trump dovrebbe recarsi in Arabia Saudita per negoziare un programma nucleare pacifico, che include la costruzione di un reattore civile. Per Israele, che possiede un vasto arsenale nucleare non dichiarato e mai sottoposto a ispezioni internazionali, si tratta di uno sviluppo profondamente indesiderato.
Appena due giorni prima che Iran e Stati Uniti riprendessero i colloqui sul nucleare a Roma, il ministro della Difesa saudita, il principe Khalid bin Salman, ha visitato Teheran: la prima visita saudita di alto livello dal 1997. Accolta dai massimi vertici militari e politici iraniani, tra cui la Guida Suprema, l’Ayatollah Khamenei, e il Presidente Pezeshkian, la visita ha rappresentato più di una semplice formalità diplomatica.
Sebbene entrambe le parti abbiano affermato che l’attenzione fosse rivolta alla stabilità regionale e alla cooperazione in materia di difesa, gli analisti affermano che il vero scopo era rassicurare l’Iran sul fatto che Riad non avrebbe sostenuto né consentito alcuna azione militare statunitense o israeliana contro di esso. Fonti saudite hanno confermato che il Regno appoggia gli sforzi diplomatici di Trump e si oppone alla guerra, soprattutto dopo l’attacco del 2019 – attribuito all’Iran – che ha messo a nudo la vulnerabilità delle infrastrutture petrolifere saudite.
L’Iran, sottoposto alle sanzioni statunitensi in corso, desidera anche stabilire legami stabili con gli Stati del Golfo. Funzionari iraniani hanno rivelato che i sauditi hanno chiarito in privato che il loro futuro programma nucleare è finalizzato alla ricerca, non alla deterrenza contro Teheran o al raggiungimento di un equilibrio nucleare in Medio Oriente, bensì alla ricerca scientifica, energetica e medica.
Il presidente Trump non collega più il programma nucleare pacifico dell’Arabia Saudita alla normalizzazione con Israele o a un più ampio patto di sicurezza, l’Accordo di Abramo, un cambiamento inaspettato che ha colto di sorpresa Tel Aviv. Per il primo ministro Netanyahu, si tratta di un colpo strategico. Forse conta sulla breve durata della rabbia di Trump e sulla sua capacità di ristabilire alla fine relazioni cordiali, ma il messaggio è inequivocabile: l’influenza di Israele sta diminuendo e la sua tradizionale capacità di dettare i termini della politica regionale statunitense non è più garantita.
Le dichiarazioni rilasciate dal Primo Ministro e Ministro della Difesa israeliano Israel Katz nei giorni scorsi suggeriscono che si stiano preparando a uno scenario in cui Israele si troverà davvero solo. Alla domanda del suo portavoce: “Israele può combattere da solo la minaccia Houthi?”, Netanyahu ha risposto: “La regola che ho stabilito è che Israele si difenderà con le proprie forze”. Ma tali affermazioni suonano vuote. Israele non ha mai combattuto da solo. Dall’ottobre 2023, ha ricevuto oltre 2.000 veterani della Delta Force e della guerriglia urbana. Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna e Francia hanno allestito un ponte aereo a supporto di Israele, fornendo ricognizione aerea, munizioni e supporto logistico per una guerra contro un’area non più grande di 363 chilometri quadrati: Gaza. A settembre e ottobre, Hezbollah in Libano è stato sottoposto a centinaia di attacchi aerei giornalieri, tutti coordinati direttamente dal CENTCOM. Quando Trump è salito al potere, Israele ha ricevuto bombe bunker uniche, prodotte solo dagli Stati Uniti e conservate nei propri magazzini.
Oltre ai 3,5 miliardi di dollari di aiuti militari annuali degli Stati Uniti, decine di miliardi di dollari sono confluiti in Israele per sostenere il suo continuo sforzo bellico. Aerei strategici come l’F-15 e altri jet avanzati, così come il rifornimento in volo e l’accesso alle basi aeree tra Israele e potenziali obiettivi come l’Iran e lo Yemen, hanno chiarito che Israele non è solo, ma è integrato in una rete di supporto occidentale.
Il contrasto non potrebbe essere più netto. Mentre Israele intensifica una campagna militare sconsiderata e giuridicamente discutibile, gli Stati Uniti si stanno tirando indietro, cercando accordi e mostrando segni di un pragmatismo strategico atteso da tempo. Lo Yemen, un tempo liquidato come un campo di battaglia periferico, è diventato un caso di studio sui limiti della potenza militare e sulla forza duratura della resistenza. Costringendo gli Stati Uniti al tavolo delle trattative, Ansar Allah ha ottenuto ciò che molti attori ben più potenti non sono riusciti a fare.
La campagna contro lo Yemen non è mai stata una guerra per necessità. È stato un errore di calcolo politico, motivato dal desiderio di Netanyahu di provocare un conflitto regionale più ampio. Il fatto che Washington se ne sia finalmente resa conto – e abbia agito di conseguenza – potrebbe segnare una svolta nella più ampia situazione mediorientale. Ciò suggerisce che l’influenza di Israele sul processo decisionale statunitense, un tempo sacrosanta, non è più assoluta.
Per il popolo yemenita, il prezzo è stato enorme. Ma la loro resistenza ha fruttato loro qualcosa di straordinario: riconoscimento, influenza e la possibilità di ridisegnare la propria posizione internazionale. La distruzione dell’aeroporto di Sana’a poteva anche essere intesa come un’umiliazione, ma non ha fatto altro che sottolineare la disperazione di Israele. Alla fine, i missili sono caduti, i droni si sono schiantati, ed è stata Washington, non Sana’a, a battere ciglio per prima.
Questo risultato avrà ripercussioni ben oltre lo Yemen. In tutta la regione, attori dal Libano all’Iraq e oltre trarranno insegnamento dalla resilienza di Ansar Allah. Il messaggio è chiaro: una resistenza determinata, anche di fronte a una forza schiacciante, può portare a risultati. E per Israele, l’avvertimento è altrettanto chiaro: l’escalation senza strategia e l’impunità senza limiti hanno un costo: diplomatico, strategico e forse, in ultima analisi, esistenziale.