Il declino dell’impero americano ha, incredibilmente, colto di sorpresa l’Europa, che pure di imperi e di relativi declini qualcosa dovrebbe ben saperne. Nonostante numerose avvisaglie, infatti, né i vari governi nazionali, né tantomeno le leadership europee, hanno mai considerato questa eventualità, cosicché quando si è manifestata pienamente li ha colti assolutamente impreparati. Un po’ come tanti Chance Giardiniere, che alla morte del suo benefattore si ritrova catapultato in un mondo ignoto e spaesante, i leader europei si trovano a fronteggiare una situazione che, evidentemente, non avevano mai considerato: l’essere privi della tutela del vecchio Zio Sam. E questa, purtroppo, non è una commedia brillante, ma la dura realtà.

La situazione in cui si viene a trovare oggi l’Europa è, d’altro canto, del tutto aliena agli orizzonti politici e culturali in cui le classi dirigenti europee – soprattutto quelle degli ultimi decenni – si sono formate, e che hanno rappresentato l’imprescindibile insieme di parametri che definivano il loro mondo. Per moltissimi anni, a partire dalla fine dell’ultima guerra mondiale, gli europei si sono pensati come parte di un mondo (l’occidente), in cui sì l’egemonia era saldamente in mano statunitense, ma in cui ritenevano di ricoprire un ruolo comunque significativo; e in ogni caso la percezione dominante era quella di uno scambio proficuo, sostanziale rinuncia alla sovranità per la garanzia di una protezione tale da consentire uno sviluppo pacifico e ricco. Il risveglio è stato shockante.

Soprattutto negli ultimi decenni del secolo scorso, e gli albori di questo, l’orizzonte subalterno ha consentito la nascita della fallace convinzione dell’Europa come un giardino felice (parafrasando l’invece assai infelice uscita di Borrell), che si basava sostanzialmente su tre pilastri: da un lato, appunto, la garanzia offerta dalla protezione della spada americana, da un altro l’approvvigionamente energetico continuo ed a basso costo, garantito dalla Russia, ed infine le possibilità derivanti dall’inserimento in un mercato globale in cui – pur essendo fondamentalmente un continente povero di risorse energetiche e materie prime – il livello qualitativo dell’industria manifatturiera consentiva l’accumulo di ricchi surplus.
La mossa difensiva del lord protettore statunitense ha fatto saltare l’intero schema.

Se, per quanto riguarda il collocamento internazionale, l’Europa unitaria si è basata sui tre summenzionati pilastri, per quanto riguarda la sua politica interna i fattori di equilibrio sono stati – ovviamente – di altra natura. Innanzi tutto, va ricordato che sui paesi europei il controllo egemonico statunitense è esercitato in forme diverse, che corrispondono ad una diversa valutazione strategica. Naturalmente, il primo livello è appunto quello dell’egemonia politica: i diversi stati europei sono legati agli USA da una serie di rapporti – de jure e de facto – che garantiscono il riconoscimento, da parte dei primi, del ruolo subalterno. Ad un secondo livello (tale però non certo per importanza) c’è il ruolo della NATO, la cui funzione primaria è quella di assicurare un livello di integrazione strategica, logistica, dottrinaria, industriale e di comando, tra i vari eserciti nazionali europei e quello statunitense, che assicuri a questo il controllo pieno della forza militare del continente. Il terzo livello (tale solo perché prevalentemente occulto) è quello delle reti di controllo clandestino, da stay-behind alla CIA, il cui scopo è manovrare nell’ombra quando le pressioni ufficiali non sono sufficienti, ed eventualmente agire per stabilizzare destabilizzare un paese.

A parte questa stratificazione orizzontale, esiste anche diversificazione verticale. Ad esempio, il fatto che i paesi con la più alta concentrazione di basi statunitensi, tra quelli europei, siano la Germania e l’Italia, viene generalmente attribuito al fatto che sono i due paesi sconfitti nell’ultimo conflitto mondiale. Quasi che ciò li rendesse potenzialmente infidi. Naturalmente la ragione vera non ha nulla a che vedere con ciò, ma risponde a precise esigenze strategiche. La Germania è la maggiore potenza industriale del continente, e questa sua capacità (con la conseguente ricchezza che ne deriva) ne fa il paese chiave del continente, l’unico in grado di assumere una eventuale leadership politica continentale. L’Italia, a sua volta, rappresenta una grande portaerei proiettata nel Mediterraneo, fondamentale per il controllo del Medio Oriente e del Nord Africa.

In questo quadro, il bilanciamento degli equilibri europei si è storicamente basato sul patto franco-tedesco. La Germania, grande potenza industriale ed economica, ma in ciò dipendente dai flussi energetici dall’estero, e la Francia, media potenza industriale ma con una grande componente energetica nucleare, e con un retaggio coloniale in Africa da cui ancora attinge. E che, inoltre, non ha basi militari USA sul proprio territorio, ha un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e possiede la force de frappe. Pur nell’ambito di un rapporto competitivo, il patto tra questi due paesi ha di fatto guidato l’Unione Europea, durante gli ultimi decenni.
Ma, ancora una volta, la mossa statunitense ha fatto saltare anche questi equilibri.

Il conflitto in Ucraina ha immediatamente reso evidente il livello di subalternità della Germania. Che certamente sconta da un lato la debolezza della leadership di Scholtz (sia politica che personale), e dall’altro le profonde diversità della coalizione semaforo su questi temi. La velocità ed il silenzio con cui ha ingoiato la distruzione del North Stream è stata paradigmatica. Ed infatti, nonostante le apparenti resistenze, ha sempre ceduto su tutta la linea. Quando a Washington hanno deciso che Kiev aveva bisogno dei Leopard, dapprima Berlino ha detto no, poi ha detto sì ma se non siamo i primi ad inviare carri MBT, ed infine ha ceduto inviandoli. Gli Abrams americani, che Biden ha dovuto promettere per sbloccare il nein tedesco, sono infatti arrivati dopo, e per di più sono rimasti per mesi ben nascosti nelle retrovie, per ordine del Pentagono.
Non a caso, la Germania è di gran lunga il maggior contribuente economico dell’Ucraina, tra gli europei (che, ricordiamolo, nel loro complesso hanno già dato più degli Stati Uniti).

Se, dunque, Berlino si è immediatamente appiattita sulle posizioni americane, seguendone le orme e le direttive, per converso Parigi aveva inizialmente assunto una posizione più autonoma, quasi rivendicando un eventuale (quanto illusorio) ruolo di possibile mediatore. Al quale peraltro Macron (altro leader politicamente debole ed inadeguato), pur nelle sue un po’ caotiche oscillazioni, non sembra rinunciare.
Il punto di rottura, in ogni caso, si è manifestato quando è stato evidente che l’Ucraina non aveva alcuna possibilità di vittoria, e che anzi era costantemente a rischio di collassare. A fronte di questo scenario, infatti, l’amministrazione americana (anche per considerazioni elettorali, ma non solo) ha adottato una linea strategica di sganciamento, che sostanzialmente si può riassumere nell’idea di lasciare ai paesi europei l’onere di sostenere e continuare la guerra. Oggi facendosi carico del supporto a Kiev, domani – se necessario – intervenendo direttamente.

Il repentino mutamento dell’orizzonte politico, ha generato il panico in ambito europeo. I paesi dell’UE, infatti, non solo hanno lautamente finanziato l’Ucraina negli ultimi due anni, ma hanno anche svuotato i loro risicati arsenali, e si ritrovano oggi – in piena crisi di deindustrializzazione, avendo perduto il prezioso ed economico gas russo – di fronte all’alternativa tra la padella e la brace. Se, infatti, da un lato l’attuale blocco di potere alla Casa Bianca (dem + neocon) punta ad una delega soft del conflitto ucraino agli europei della NATO, dall’altro Trump (probabile vincitore delle prossime presidenziali americane) ha in animo un disegno sostanzialmente simile, ma in termini assai più hard (1). In buona sostanza, l’amico americano ritira la protezione della sua spada, e lo fa in un momento di grave difficoltà per gli europei.
Inevitabilmente, questo fa da detonatore ad una crisi che cresceva sottotraccia già da tempo.

In questo contesto, le classi dirigenti europee tendono a rispondere in un modo che riflette il loro stato d’animo, ovvero ostentando sicurezza ma lasciando trasparire il panico. Tutto infatti sta accelerando, assumendo prospettive terribili ma a cui non sanno come opporsi.
Come è ovvio che sia, i vari paesi europei membri della NATO hanno cominciato da tempo a discutere riservatamente di tali prospettive. E se fino a non molto tempo fa le discussioni vertevano principalmente sul come / quando / con quali finanziamenti, riallineare i paesi alle esigenze implicite derivanti da un sostegno prolungato all’Ucraina, e più ampiamente a quelle di una ipotetica difesa da un altrettanto ipotetico espansionismo russo, i nuovi scenari richiedono ben altro. Gli eventi precipitano, ed occorre allargare la finestra di Overton.

Quando il presidente slovacco Fico dichiarò che alcuni paesi europei stavano discutendo di inviare truppe in Ucraina, quindi, mise semplicemente le carte in tavola. Ed è importante tenere presente che, se di questo si discuteva a livello politico, ciò significa che a livello militare, di comandi integrati NATO, non solo se ne era già discusso, ma si erano assunte decisioni operative e predisposti i relativi piani. Il quadro, quindi, è sicuramente quello in cui le strutture della NATO hanno già determinato la necessità di questo intervento, e lo hanno pianificato, mentre sul piano politico – cui spetterebbe formalmente la decisione finale – la discussione è ancora aperta, e le posizioni sono diversificate.
Il caso degli alti ufficiali tedeschi che discutevano di attaccare il Ponte di Kersh con i missili Taurus – e soprattutto il modo in cui è stato affrontato in Germania – dice però chiaramente che le autorità politiche nazionali hanno un’autorità limitata.

Possiamo quindi dire che il quadro complessivo è già determinato, non solo dalle decisioni dell’egemone americano, ma anche dai comportamenti e dalle posizioni assunte sinora dagli europei, che hanno appunto finito col determinare un percorso dal quale è ora estremamente difficile deflettere. Ed in questo contesto, che si viene ad inserire l’improvvida accelerazione di Macron, la quale – nonostante la già menzionata inadeguatezza del soggetto – ha pur tuttavia una sua logica.
La premessa è che l’Europa è oggi più disunita che mai, anche se cerca di mostrarsi saldissima. E quello che era il pilastro dell’Unione, ovvero la potenza economica e politica tedesca, è oggi a sua volta debole e disunita. Mentre da Washington spingono per accrescere il peso politico della Polonia, puntando sulla sua russofobia.

La mossa di Macron, quindi, ha spiazzato un po’ tutti non tanto per il contenuto – di cui appunto erano al corrente, e ne discutevano da tempo – quanto appunto per l’accelerazione che ha imposto al dibattito pubblico. Il punto fondamentale, al di là di eventuali calcoli elettoralistici, è che il famoso patto franco-tedesco risulta azzoppato dalla debolezza di Berlino, e quindi non risulta più conveniente. Romperlo, assumendo una posizione interventista più avanzata di ogni altro, significa in qualche modo porsi in una posizione di possibile leadership, nella prospettiva che il quadro sia predeterminato, e quindi inevitabile.
Per la Francia, oltretutto, si pone un problema strategico non irrilevante. Se infatti, come già accennato, la sua potenza energetica è in larga misura assicurata dalle centrali nucleari, l’azione combinata di più avanzati processi di decolonizzazione e di penetrazione politico-militare russa in Africa, non solo la sta privando di una parte dei suoi profitti e del suo controllo sulla fascia sub-sahariana, ma ha seriamente intaccato il suo approvvigionamento privilegiato di uranio (Niger). Cose che, oltretutto, ha aumentato la dipendenza occidentale dalle forniture… russe!

Nella scelta bonapartista di Macron, quindi, non c’è solo l’ambizione di cavalcare la tigre per recuperare una (impossibile) grandeur, ma anche l’emergere di concreti fattori di attrito tra la Francia e la Federazione Russa.
Sfortunatamente, per lui e per tutti noi, né la Francia, né l’Europa nel suo complesso, è assolutamente in condizione di affrontare una prospettiva di tal fatta. A parte una serie di problemi strutturali, su cui l’UE solo di recente ha deciso di intervenire, e persino a prescindere dal reperimento delle risorse necessarie, in una fase in cui l’economia europea è malmessa, sussistono comunque una serie di problemi strettamente legati agli aspetti militari-industriali.
Come sottolinea Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa, “l’Unione europea non ha più nulla da dare all’Ucraina in grado di cambiare l’esito del conflitto, perché abbiamo enormi problemi di produzione” (2). E una analisi della CNN spiega che “la Russia è in grado di produrre 3 milioni di munizioni all’anno” mentre Usa e Europa, messe insieme, potrebbero arrivare “al massimo a 1,2 milioni” (3).

Ma non è questione semplicemente di capacità industriale, che comunque in una guerra d’attrito quale quella che la NATO sta già combattendo in Ucraina è fondamentale, ma letteralmente di capacità di combattimento. Anche l’invio di truppe, quindi, non solo non servirebbe a mutare l’andamento del conflitto, ma avrebbe l’unico risultato di innescare una ben maggiore escalation, ed esporre i paesi europei agli attacchi russi.
Sempre Gaiani rammenta: “Cito tre esempi. Nel 2022 un rapporto della commissione Difesa del Parlamento francese ha stimato che le scorte di munizioni avrebbero consentito all’esercito di Parigi di sostenere tre o quattro giorni di conflitto in Ucraina. L’altro giorno la Germania ha inaugurato una nuova fabbrica di munizioni e ha fatto sapere che per ripristinare le scorte ci vorrebbero 40 miliardi di euro. Infine, l’ultimo rapporto della Camera dei Comuni del Regno Unito sostiene che il Paese potrebbe combattere un conflitto convenzionale per un massimo di due mesi” (4).

Una scarsa capacità di combattimento che, peraltro, non è esclusivo appannaggio dei membri europei della NATO. Uno degli asset su cui l’Alleanza basa la sua idea di superiorità bellica è ad esempio l’aviazione. Ma da un rapporto del Government Accountability Office (5), risulta che l’effettiva combat capability degli F-35 statunitensi, aereo di punta dell’US Air Force, è del 15-30% dell’intera flotta (6).
La situazione in cui quindi si trovano oggi i paesi europei è drammaticamente quella del vaso di coccio tra vasi di ferro. Da un lato, gli Stati Uniti che, utilizzando gli storici strumenti di controllo sulla politica europea, hanno intrappolato gli alleati del vecchio continente in una guerra totalmente contraria ai propri interessi; e dall’altro la Russia, col suo potenziale bellico, industriale ed energetico, che ormai diffida totalmente delle leadership europee e – sentendosi minacciata esistenzialmente dall’occidente – è pronta a raccogliere la sfida ed affrontare una guerra direttamente con la NATO.

Ed è proprio nello scarto tra questa situazione oggettiva, e la linea politica perseguita delle leadership europee, che emerge drammaticamente tutta l’inadeguatezza di queste ultime, assolutamente incapaci non solo di liberarsi dall’abbraccio mortale del declinante impero americano, ma anche solo di porre in essere una condotta capace di difendere quanto meno gli interessi vitali dei propri paesi.
Purtroppo, lo stato catatonico di gran parte delle popolazioni europee non induce a sperare in una qualche forma di resipienza. Le prossime elezioni europee, ad esempio, seppure il parlamento dell’Unione sia un’assemblea praticamente insignificante, potrebbero essere l’occasione per lanciare un segnale, inducendo magari questi leader ad una maggiore prudenza.
Purtroppo però non si vedono all’orizzonte leader capaci di catalizzare questa eventuale resilienza, e comunque non oltre una misura limitata ed entro orizzonti strettamente nazionali. Di una vera leadership europea non si avverte neanche il sentore. Mentre ciò che ci occorrerebbe disperatamente è un leader capace di portare il vecchio continente fuori dalle ganasce della guerra. Un Putin europeo, per dirla tutta.


1 – Sul tema, cfr. “Siamo noi i nuovi proxy”Giubbe Rosse News
2 – “Gli analisti: le armi non ribaltano la guerra”Il Fatto Quotidiano
3 – “Exclusive: Russia producing three times more artillery shells than US and Europe for Ukraine”CNN
4 – “Gli analisti: le armi non ribaltano la guerra”Il Fatto Quotidiano
5 – Il rapporto è disponibile qui per il download
6 – Cfr. “70 Percent or More of F-35s May Not Be Combat Capable”The Epoch Times

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