Di Alastair Crooke per Strategic Culture Foundation – traduzione a cura di Old Hunter
Netanyahu non ha apprezzato la moderazione dell’Iran. Ha raddoppiato la posta in gioco sulla guerra, rendendola inevitabile prima o poi.
Walter Kirn, romanziere e critico culturale americano, nel suo libro di memorie del 2009, Lost in the Meritocracy, ha descritto come, dopo un soggiorno a Oxford, sia entrato a far parte di quella “classe che gestisce le cose”, quella che “scrive i titoli dei giornali e le storie subito appresso”. Era il racconto di un ragazzo della classe media del Minnesota che cercava disperatamente di inserirsi nel mondo dell’élite, per poi rendersi conto, con sua grande sorpresa, che non voleva affatto entrarci. Oggi, a 61 anni, Kirn ha una newsletter su Substack e conduce con altri un vivace podcast dedicato in gran parte alla critica del “liberalismo dell’establishment”. La sua deriva contraria lo ha reso più esplicito nella sua sfiducia verso le istituzioni d’élite – come ha scritto nel 2022:
“Da anni ormai la risposta, in ogni situazione – Russiagate, COVID, Ucraina – è ancora più censura, più silenzio, più divisioni, più capri espiatori. È quasi come se questi fossero obiettivi in sé – e la cascata di emergenze delle semplici scuse per loro. L’odio è sempre la via“.
La politica di Kirn, ha suggerito un suo amico, è quella “liberale di vecchia scuola”, sottolineando che sono gli altri “cosiddetti liberali” ad essere cambiati: “Mi è stato detto ripetutamente nell’ultimo anno che la libertà di parola è una questione di destra; non definirei [Kirn] un conservatore. Direi solo che è un libero pensatore, anticonformista, iconoclasta”, ha detto l’amico. Per capire la svolta opposta di Kirn – e per dare un senso alla forma odierna della politica americana – è necessario comprendere un termine chiave. Non si trova nei libri di testo standard, ma è centrale nel nuovo libro del potere: “l’intera società”.
“Quel termine è stato reso popolare circa un decennio fa dall’amministrazione Obama, che ha pensato che il suo aspetto blando e tecnocratico potesse essere usato come copertura per creare un meccanismo per un approccio di governance “all’intera società”, che afferma che gli attori – media, ONG, aziende e istituzioni filantropiche – interagiscono con i dirigenti pubblici per svolgere un ruolo critico non solo nel definire l’agenda pubblica, ma anche nell’imporre le decisioni pubbliche. Jacob Siegel ha illustrato lo sviluppo storico dell’approccio “dell’intera società” durante il tentativo dell’amministrazione Obama di orientare la “guerra al terrore” verso ciò che è stato definito “CVE” (countering violent extremism – contrastare l’estremismo violento). L’idea era quella di sorvegliare il comportamento online degli americani per identificare coloro che avrebbero potuto “commettere un crimine” in un imprecisabile momento del futuro. Il concetto di potenziale ” violento estremista “, che non ha ancora commesso alcun crimine, è caratterizzato da una vaghezza che viene utilizzata come arma: “Una nuvola di sospetto che incombe su chiunque metta in discussione le narrazioni ideologiche prevalenti“. “Ciò che accomuna le varie iterazioni di questo approccio all’intera società è il disprezzo per il processo democratico e per il diritto alla libera associazione, il benestare alla sorveglianza dei social media e il ripetuto fallimento nel produrre risultati…”.
Aaron Kheriaty scrive:
“Più di recente, l’intero apparato politico della società ha facilitato il passaggio da Joe Biden a Kamala Harris, con i media e i sostenitori del partito che si sono trasformati in un attimo quando hanno ricevuto istruzioni in tal senso, e al diavolo gli elettori delle primarie democratiche. Ciò è avvenuto non per le personalità dei candidati coinvolti, ma per ordine della leadership del partito. I candidati effettivi sono funzionari fungibili e completamente sostituibili, al servizio degli interessi del partito al potere… Il partito le è stato consegnato perché è stata scelta dai suoi leader per agire come loro figura di riferimento. Questo vero risultato non appartiene alla Harris, ma al partito-stato”.
Che cosa ha a che fare con la geopolitica e con l’eventualità di una guerra tra Iran e Israele?
Beh, molto. Non è solo la politica interna occidentale a essere stata plasmata dalla meccanica totalizzante della CVE di Obama. Anche il meccanismo del “partito-stato” (termine di Kheriaty) è stato cooptato per la geopolitica:
“Per evitare che questo modo di fare sembri un eccesso di totalitarismo”, sostiene Kheriaty, “il partito ha bisogno di un’infinità di cause… che i funzionari del partito usano come pretesto per pretendere un allineamento ideologico tra le istituzioni del settore pubblico e privato. Queste cause si presentano più o meno in due forme: l’urgente crisi esistenziale (di cui esempi sono il COVID e la tanto sbandierata minaccia della disinformazione russa) – e i gruppi di vittime che si suppone abbiano prevedibilmente bisogno della protezione del partito”.
“È quasi come se questi fossero obiettivi in sé, e la cascata di emergenze semplici scuse per loro. L’odio è sempre la via”, sottolinea Kirn.
Per essere chiari, l’implicazione è che tutti i critici geostrategici dell’allineamento ideologico del partito-stato devono essere trattati congiuntamente e collettivamente come estremisti potenzialmente pericolosi. La Russia, la Cina, l’Iran e la Corea del Nord sono quindi legati da un unico odioso estremismo che si oppone alla “nostra democrazia”, alla “nostra libertà di parola” e al “nostro consenso di esperti”. Quindi, se l’azione di guerra contro un estremista (cioè contro l’Iran) è stata “acclamata” da 58 standing ovation nella sessione congiunta del Congresso il mese scorso, allora un ulteriore dibattito non è necessario – così come non è necessario che la nomina di Kamala Harris a candidato presidenziale sia approvata attraverso il voto delle primarie:
Mercoledì il candidato Harris ha detto ai disturbatori, che intonavano cori sul genocidio a Gaza, “di stare zitti”, a meno che non “vogliate far vincere Trump”. Le norme tribali non devono essere messe in discussione (neppure per un genocidio).
Sandra Parker, presidente del gruppo di difesa politica dei tremila membri del Christians United for Israel (CUFI), ha dato consigli sui punti di discussione corretti, come riporta il Times of Israel:
“L’ascesa dei repubblicani di estrema destra che disprezzano decenni di ortodossia (bi-partisan) pro-Israele, favorendo l’isolazionismo e riesumando temi antiebraici, sta allarmando gli evangelici pro-Israele e i loro alleati ebrei… La rottura con decenni di politica estera assertiva è stata evidente l’anno scorso, quando il senatore Josh Hawley ha deriso l'”impero liberale”, che egli ha definito in modo sprezzante come bipartisan: “Neoconservatori a destra e globalisti liberali a sinistra: Insieme formano quello che si potrebbe definire il partito-unico, l’establishment di Washington che trascende tutti i cambiamenti di amministrazione”.
Alla conferenza sui punti di discussione del CUFI, il tema era la paura di un crescente isolamento a destra:
“Gli avversari vedranno gli Stati Uniti in ritirata”, qualora gli isolazionisti avranno il sopravvento, agli attivisti è stato consigliato di reagire: ‘Se i parlamentari dovessero affermare che l’espansione della NATO ha scatenato l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia; se qualcuno dovesse iniziare a sostenere che la ragione per cui i russi sono arrivati in Ucraina è l’allargamento della NATO’, posso solo dire che questo è il vecchio tema della ‘colpa dell’America’”, ha detto il presidente ai delegati riuniti.
“Hanno una tendenza all’isolazionismo del tipo: ‘Occupiamoci solo della Cina e dimentichiamo l’Iran, dimentichiamo la Russia, facciamo una cosa sola’, ma non funziona così”, ha detto Boris Zilberman, direttore della politica e della strategia del CUFI Action Fund. Ha invece descritto “un’ intricata trama di cattivi attori che agiscono mano nella mano”.
Quindi, per venire a capo di questa gestione mentale occidentale in cui l’apparenza e la realtà sono tagliate dalla stessa stoffa dell’estremismo ostile: anche l’Iran, la Russia e la Cina sono state “tagliate” da quella stoffa . In parole povere, l’importanza di questa “impresa di ingegneria comportamentale (che non ha più molto a che fare con la verità, non ha più molto a che fare con il vostro diritto di desiderare ciò che volete – o di non desiderare ciò che non volete)” – è, come dice Kirn: “tutti fanno parte del gioco“. “Gli interessi corporativi e statali non credono che voi vogliate le cose giuste – potreste perfino volere Donald Trump – o che non vogliate le cose che dovreste volere più di tutte” (come la rimozione di Putin).
Se questo meccanismo che coinvolge “l’intera società” viene inteso correttamente in tutto il resto del mondo, allora entità come l’Iran o Hizbullah sarebbero costrette a prendere atto che una guerra in Medio Oriente potrebbe sfociare inevitabilmente in una guerra più ampia contro la Russia – e avere ramificazioni negative anche per la Cina. Non perché abbia senso. Non ce l’ha. Ma perché le esigenze ideologiche della politica estera “dell’intera società” si basano su narrazioni “morali” semplicistiche: quelle che esprimono atteggiamenti emotivi, piuttosto che proposizioni argomentate. Netanyahu si è recato a Washington per esporre le ragioni di una guerra totale all’Iran – una guerra morale di civiltà contro i barbari, ha detto. È stato applaudito per la sua posizione. Tornato in Israele, ha immediatamente provocato Hizbullah, l’Iran e Hamas in un modo che ha disonorato e umiliato entrambi, ben sapendo che avrebbe attirato una risposta che molto probabilmente avrebbe portato a una guerra più ampia. È chiaro che Netanyahu, sostenuto dalla pluralità degli israeliani, vuole un Armageddon (con il pieno sostegno degli Stati Uniti, ovviamente). Pensa di avere gli Stati Uniti esattamente dove vuole che siano. Netanyahu non deve fare altro che inasprire la situazione in un modo o nell’altro e Washington, secondo i suoi calcoli (giustamente o meno), sarà costretta a seguirlo. È per questo motivo che l’Iran sta prendendo tempo? Il calcolo di una risposta iniziale a Israele è “una cosa”, ma poi come potrebbe reagire Netanyahu in Iran e in Libano? Questa può essere una cosa “del tutto diversa”. Ci sono stati accenni al dispiegamento di armi nucleari (in entrambi i casi). Anche se non c’è nulla di concreto su quest’ultima voce. Inoltre, come potrebbe Israele rispondere alla Russia in Siria o come gli Stati Uniti potrebbero reagire a un’escalation in Ucraina? Dopo tutto, Mosca ha aiutato l’Iran con le sue difese aeree (proprio come l’Occidente sta aiutando l’Ucraina contro la Russia). Molte cose imponderabili. Eppure, una cosa è chiara (come ha notato di recente l’ex presidente russo Medvedev): in Medio Oriente “il nodo si sta stringendo“. L’escalation è su tutti i fronti. La guerra, ha suggerito Medvedev, potrebbe essere “l’unico modo per tagliare questo nodo“. L’Iran deve pensare che l’aver accontentato le richieste di moderazione occidentali a seguito dell’assassinio israeliano di funzionari iraniani nel loro consolato di Damasco sia stato un errore. Netanyahu non ha apprezzato la moderazione dell’Iran. Ha raddoppiato la posta in gioco sulla guerra, rendendola prima o poi inevitabile.