Una cosa di cui talvolta ci dimentichiamo, è che le persone – i popoli – guardano agli avvenimenti alla luce della propria storia, della propria cultura, che a volte possono essere anche significativamente diverse. Questo vale ovviamente per qualsiasi cosa, e quindi anche la guerra non vi fa eccezione. Se poi consideriamo che la guerra è davvero un insieme di avvenimenti decisamente esplosivo, oltre che fattualmente anche in senso figurato, e pertanto estremamente mutevole, soggetto ad una dinamica costante e, in certo qual modo, dotato di vita propria, è facile comprendere come un diverso sguardo culturale si rifletta, inevitabilmente, non solo sulla percezione della guerra, ma anche sulla sua condotta.
L’arte occidentale della guerra, ad esempio, è profondamente segnata dall’idea dell’attacco – anche perché praticamente tutte le guerre occidentali sono state, storicamente, guerre di espansione.
Dal punto di vista occidentale, dunque, la guerra è prevalentemente un fatto offensivo. L’Europa, nel corso della sua storia, ha visto sostanzialmente tre grandi invasioni, nessuna delle quali l’ha mai conquistata interamente: quella mongola, quella islamica e quella ottomana. Viceversa, ha portato la guerra in ogni angolo del mondo, anche il più remoto.
Questa visione dell’azione bellica è così radicata nella nostra cultura, che ci risulta difficile concepire diversamente l’atto guerresco. E, indipendentemente dall’andamento del conflitto, esso è concepito intorno all’idea dell’azione risolutiva. Dalla falange macedone al first strike nucleare, è questo il fil rouge del pensiero militare occidentale.
Da quando poi è emersa la potenza egemonica degli Stati Uniti – che dell’attacco ha fatto il fondamento di ogni propria dottrina militare – la concezione offensiva della guerra di è rafforzata, informando di sé l’intero complesso militare-industriale, e riflettendosi a sua volta sulla cultura occidentale, sul suo senso comune.
Senza voler qui ricapitolare cose dette già più volte, si potrebbe in un certo senso dire che l’impostazione culturale offensiva ha finito per prevalere a tal punto che, talvolta – ed in modo sempre più evidente – la guerra non solo ha assunto il ruolo di strumento principe (non uno strumento, ma lo strumento), ma ha finito per sovrapporsi ai fini: la guerra non più come strumento per raggiungere degli obiettivi, ma come obiettivo in sé.
Si realizza qui il paradosso di una pulsione millenaria volta a conseguire la capacità massima dell’azione risolutiva, che poi si reifica nell’azione per l’azione; il principio clausewitziano (mai abbastanza reiterato) della guerra come strumento per conseguire altrimenti un risultato politico, si trasmuta in uno stato di guerra permanente, che non cerca più né l’atto risolutivo, né il conseguimento di un obiettivo politico che si pone oltre la guerra.
Ciò in buona misura è dipeso dal fatto che – appunto – la guerra è diventata anche (se non prevalentemente) rivolta a raggiungere obiettivi economici, oltre e più che politici. Essa è, in effetti, l’apoteosi dell’idea capitalistica, proprio in virtù del fatto che non esiste altra catena produzione-consumo altrettanto estesa e veloce. La voracità della guerra, in termini di consumo, è ineguagliabile.
Ciò risulta tanto più evidente se si osservano le guerre occidentali dell’era contemporanea, in cui non solo prevale chiaramente il calcolo utilitaristico, la valutazione costi/benefici, ma si spinge ai limiti delle guerre senza scopo (quantomeno chiaro), dalle quali si recede come da un tavolo da poker, quando semplicemente non si ha più voglia di giocare. Guerre durate decenni (e costate centinaia di migliaia di vittime), e giustificate con il conseguimento di un’obiettivo, alle quali improvvisamente viene posta fine, senza aver raggiunto lo scopo dichiarato, e senza aver subito una sconfitta sul campo. Si pensi al Vietnam o all’Afghanistan.
Il paradosso rimane comunque in essere, non viene risolto. L’impostazione culturale occidentale è ancora volta all’idea della guerra come azione offensiva, ed a questo ancora si ispirano le dottrine militari e, conseguentemente, l’articolazione delle forze armate. Ma, al tempo stesso, il focus si è spostato dal fattore risolutivo al consumo. La durata della guerra non è più (semplicemente) il tempo necessario a conseguire gli obiettivi politici, ma quello adeguato alle esigenze del ciclo produzione-consumo-produzione.
Il conflitto russo-ucraino, che va avanti ormai da trenta mesi, è un osservatorio privilegiato sotto infiniti punti di vista, perché qui si confrontano non soltanto sistemi d’arma diversi, e diverse dottrine militari, ma anche concezioni storiche e culturali della guerra ancor più differenti. Il che, ovviamente, si riflette significativamente non soltanto sulla percezione della guerra, ma anche sulla sua conduzione. E non si tratta qui soltanto del fatto che per la Russia questa guerra è esistenziale (è minacciata l’esistenza e l’integrità della nazione russa), mentre per l’occidente collettivo è solo parte di una strategia globale per la difesa della propria egemonia.
La radicale differenza di prospettiva è tale da rendere difficile comprendere – indipendentemente da come ci si posizioni – il punto di vista russo.
Innanzitutto, va ribadito che l’avvio dell’Operazione Militare Speciale, nel febbraio 2022, anche se in termini tattici era offensiva, per i russi, in termini strategici, è stata una mossa difensiva. Mosca percepiva chiaramente il montare aggressivo della NATO, che a parti rovesciate avrebbe probabilmente attaccato già nel 2014.
Un altro fattore che si tende a dimenticare, è anche la consapevolezza di sé.
La Russia sa di essere una nazione ricchissima di risorse, e perciò altamente appetibile per un occidente che, al contrario, ne ha relativamente poche, ed ha sempre fatto ricorso al saccheggio di quelle altrui. Ma è anche consapevole dei propri punti deboli – di cui spesso anche i fan occidentali più sfegatati tendono a dimenticarsi. È un paese immenso (il più esteso del mondo), con una superficie di circa 18 milioni di chilometri quadrati (l’intera Europa ne conta circa 10 milioni), ma con una popolazione di 146 milioni (l’Europa ben 745 milioni).
Già solo questo aiuta a comprendere due cose molto semplici, ma non sempre evidenti come dovrebbe: c’è un territorio enorme da presidiare (20.000 chilometri di confini terrestri!), avendo a disposizione un potenziale umano a cui attingere assai limitato, il che rende doppiamente complicato proteggerlo, e c’è la necessità di preservare al massimo possibile la risorsa umana, ancora più preziosa che per altre nazioni proprio in quanto (relativamente) scarsa [1].
Inoltre, per quanto effettivamente la Russia sia considerevolmente più potente dell’Ucraina, questa è in effetti soltanto una sorta di enorme Private Military Company della NATO, e quindi il confronto non va fatto tra Mosca e Kiev, ma tra la Federazione Russa ed i 36 paesi dell’Alleanza Atlantica (più un’altra decina di alleati degli USA).
Siamo pertanto in presenza di un conflitto assolutamente simmetrico. E già solo questo è sufficiente a spiegare sia la durata del conflitto, sia il fatto che questo non sia un susseguirsi unilaterale di successi di una parte; al contrario, è del tutto normale che entrambe le parti mettano a segno dei colpi. Anzi, considerando appunto la simmetricità del conflitto, è considerevole che i successi russi siano così di gran lunga maggiori di quelli ucraini, sia in quantità che in qualità.
Sotto questo profilo, la recente incursione NATO-ucraina nella regione di Kursk non è in effetti nulla di straordinario – anche se naturalmente, e per ragioni simili ma opposte, entrambe le parti abbiano interesse ad enfatizzarla molto.
Diciamo pure che era facilmente prevedibile. Già poco dopo l’inizio dell’Operazione Militare Speciale, all’indomani del ritiro delle truppe russe dalla regione di Kiev e da quella di Sumy, io stesso scrivevo che “nel nord-est del paese, c’è una linea di confine lunga alcune centinaia di kilometri, che dopo il ritiro delle truppe russe è nuovamente in mano ucraina. E che, di conseguenza, offre la possibilità di attacchi sul territorio russo” [2]. Ovvio che anche lo Stato Maggiore russo abbia considerato questa eventualità, e che evidentemente abbia ritenuto più economico mantenere una difesa lasca su quel tratto di confine, ritenendo comunque di poter intervenire in un secondo momento, piuttosto che fortificarla e/o impegnarvi truppe più preparate ed in quantità maggiore.
Oltretutto, come ben sanno a Mosca, invitare il nemico ad attaccare significa metterlo in una condizione in cui affronterà perdite più significative – che è poi uno degli obiettivi russi principali.
Anche se, com’è ovvio, Kiev parla di 1.000 chilometri quadrati di territorio russo conquistato, la realtà è ben diversa. Intento, perché la penetrazione è dovuta principalmente ad unità DRG [3] composte ciascuna di poche decine di uomini, le quali si sono spinte in profondità per circa una ventina di chilometri, lungo un fronte di una cinquantina; e poi perché all’interno di quest’area non c’è una presenza salda e capillare di forze ucraine. Quello che in effetti si è determinato è semmai la creazione di una grossa sacca in territorio russo, profonda appunto circa venti chilometri, che dopo la stabilizzazione del fronte rischia di diventare una trappola per le forze ucraine. In ogni caso, bisogna ribadire che di straordinario non c’è l’azione ucraina, quanto il fatto che non sia avvenuta prima. E, non secondariamente, che la Russia ha comunque una profondità strategica infinitamente superiore, teoricamente anche di 10.000 chilometri.
Storicamente, in epoca moderna e contemporanea, eserciti occidentali sono arrivati per due volte sino a Mosca, per poi uscirne sconfitti.
Stessa questione per quanto riguarda le cosiddette linee rosse. Basta rifletterci un attimo, sottraendosi al condizionamento mediatico, per rendersi conto che si tratta di una vera sciocchezza: in guerra, semplicemente non esistono, linee rosse. Tanto più in una guerra di questo livello. Si tratta in larga misura di un minuetto propagandistico tra le parti, né più né meno come il susseguirsi delle forniture di nuovi sistemi d’arma a Kiev.
In entrambe i casi – una nuova linea rossa superata, un nuovo sistema d’arma fornito – non mutano né il quadro strategico né quello tattico, è pura e semplice nebbia di guerra, funzionale alla dissimulazione dei diversi punti di vista sul conflitto: per la NATO, si tratta di conseguire alcuni obiettivi (distacco netto dell’Europa dalla Russia, subornazione economica di questa agli interessi statunitensi, avvio di un ciclo produttivo bellico su larga scala, logoramento e destabilizzazione della Federazione Russa…), mentre per la Russia si tratta di difendere il suo spazio vitale. Nessuno dei due vuole arrivare adesso allo scontro diretto.
Se lo avesse voluto la NATO, avrebbe avuto infinite finestre di opportunità per passare all’attacco, anche ammesso che avvertisse una stringente necessità di motivarlo agli occhi della propria opinione pubblica. Se lo avesso voluto la Russia altrettanto.
Il punto è che entrambe sono consapevoli che, in termini strategici di lungo periodo, il conflitto è inevitabile, ma nessuno è pronto per sostenerlo in questo momento, in queste condizioni.
Quello che nessuno sa bene è se questa guerra durerà abbastanza a lungo da trasformarsi poi nella vera guerra Russia vs USA-NATO, o se invece andrà ad esaurirsi prima che maturino i tempi per il conflitto vero.
Al momento, sembra che gli Stati Uniti si stiano preparando, ancora una volta, a lasciare il tavolo. Dopo Saigon e Kabul, si avvicina il tempo del bye bye, Kiev.
1 – Sotto questo profilo, il conflitto ucraino è effettivamente profittevole per Mosca. Anche se le perdite sono abbastanza significative (probabilmente intorno ai 100.000 uomini, anche se a fronte di almeno 600.000 ucraini), bisogna tenere presente che, tra popolazione delle aree annesse e rifugiati dall’intera Ucraina, ha acquisito circa una decina di milioni di nuovi abitanti. E, ovviamente, oltre a ciò c’è l’acquisizione di territori particolarmente ricchi (sotto il profilo minerario e non solo), l’ampliamento del controllo sul mar Nero, a l’aumento della propria profondità strategica, allontanata ulteriormente dalle principali città.
2 – Cfr. “La Guerra Civile Globale”, Enrico Tomaselli (self-publishing, disponibile su Amazon).
3 – (Diversionno-razvedyvatel’naâ gruppa, DRG), gruppi mobili di ricognizione e sabotaggio.