La rovina dell’Ucraina è stata affidarsi alla NATO, credendo fosse davvero l’invincibile potenza che millantava di essere. Certo, questo ha consentito l’arricchirsi della sua leadership, e la corruzione diffusa ad ogni livello ha favorito non solo l’accumulo di grandi fortune ma anche una più capillare redistribuzione del reddito, ma in termini collettivi, nazionali, questa scelta di campo è stata esiziale. La devastazione economica, sociale, demografica, è talmente evidente che non vale neanche la pena discuterne. Meno evidente, invece, è l’effetto deleterio che ha avuto la subalternità militare, ovvero l’imposizione alle forze armate di Kiev di un modello strategico, operativo e tattico ritagliato su quello NATO, al quale non solo erano impreparate (e inadeguate), ma che è risultato pericolosamente sbagliato.

Lo si è detto già numerose volte, la dottrina militare statunitense – quindi quella occidentale in generale – è ancora fondata su alcuni pilastri concettuali che però non trovano più riscontro nella realtà. Il primo di questi pilastri, è l’idea della propria assoluta supremazia tecnologica, che dovrebbe assicurare di per sé un dominio indiscusso. Il secondo è, conseguentemente, la capacità di infliggere perdite decisive già nella prima fase di un conflitto. Il terzo, anch’esso conseguente, è la convinzione di poter conseguire la vittoria in tempi rapidi.
Questi tre assunti convergono a delineare un modello di conflitto caratterizzato dall’assoluta asimmetria; non a caso, del resto, la dottrina strategica statunitense è a sua volta fondata sul principio di impedire il sorgere di una potenza con capacità equivalenti.

Peraltro, persino nei suoi presupposti questa dottrina si è rivelata quasi sempre strategicamente fallace. Probabilmente l’unico caso in cui si può infatti parlare di pieno successo è l’attacco alla Serbia; l’obiettivo era strappargli un pezzo di territorio – il Kossovo – per farne uno staterello subalterno e, soprattutto, impiantarvi la più grande base USA in Europa (Camp Steel), nel cuore dell’area-cardine dei Balcani. Entrambe gli obiettivi possono dirsi pienamente conseguiti.
Ma nel caso di molti altri conflitti, le cose sono andate diversamente. In Afghanistan non è stato possibile mettere in atto questa dottrina militare, e dopo vent’anni c’è stata una frettolosa ritirata. In Iraq c’è stata la rapida sconfitta dell’ex-amico Saddam, ma il paese è stato praticamente regalato all’irriducibile nemico, l’Iran. Idem dicasi della Libia: deposto (e assassinato) Gheddafi, il paese si è spaccato in due, e la parte filo-occidentale è nel caos, mentre l’altra si è legata alla Russia.

Ovviamente, quindi, il primo problema che si è posto, nel conflitto in Ucraina, è che tutto l’apparato della NATO – sul piano dottrinario, strategico, operativo, tattico, organizzativo, logistico, persino industriale… – era costruito su un modello di conflitto asimmetrico, mentre quello che si è aperto il 24 febbraio 2022 è a tutti gli effetti un conflitto simmetrico. Seppure i rapporti di forza, in termini assoluti e relativamente ad Ucraina e Federazione Russa, sono certamente favorevoli a quest’ultima, è infatti innegabile che la quantità e la qualità del supporto offerto a Kiev dai 36 paesi NATO hanno assolutamente riequilibrato tali rapporti.
Naturalmente, l’obiettivo statunitense, in termini strategici, è sempre stato quello di logorare politicamente e militarmente la Russia, non di batterla sul campo (anche se, saltuariamente, qualcuno a Washington ha persino accarezzato realmente quest’idea). Ma, via via che appariva evidente come le forze armate ucraine non fossero all’altezza di tale compito, il coinvolgimento qualitativo della NATO è andato crescendo, sino al punto di assumere di fatto il comando strategico ed operativo della guerra.

Un primo aspetto critico di questo approccio, è stato l’emergere delle difficoltà insite nel rendere compatibili gli standard NATO con quelli di tipo sovietico su cui era strutturato l’esercito ucraino. Ovviamente, le forze armate di Kiev erano strutturate su un modello operativo simile a quello russo, e derivante dai tempi dell’URSS. Man mano che i mezzi di epoca sovietica andavano distrutti, e venivano sostituiti da mezzi occidentali, e parallelamente il comando statunitense diveniva più capillare e pervasivo, questa contraddizione è diventata sempre più stridente.
Ovviamente, il modello NATO ha una sua coerenza interna: la struttura organizzativa dei reparti, e la stessa tipologia dei mezzi, sono funzionali all’applicazione del modello operativo dell’Alleanza Atlantica. Calare questo modello, parallelamente ad una sostituzione parziale e progressiva dei sistemi d’arma, è di per sé una faccenda non particolarmente semplice; farlo in corso d’opera, nel pieno di una guerra ad alta intensità, è praticamente quasi impossibile.

Un secondo aspetto critico, si è manifestato con l’arrivo di mezzi occidentali. Innanzi tutto, ciò ha posto un problema di addestramento del personale, che necessariamente è stato assai più frettoloso del dovuto. E naturalmente si è immediatamente posto anche il problema della logistica, ovvero la manutenzione-riparazione di questi mezzi, per la quale le forze armate ucraine non erano attrezzate. Ma ancor più rilevante, come fattore critico, è stata la grande varietà di sistemi d’arma forniti, provenienti dai vari paesi occidentali. Tali sistemi, seppure in linea di massima uniformati ad un comune standard NATO, hanno in realtà rivelato una serie di specificità tale da moltiplicare ulteriormente i problemi di gestione [1]; ad esempio, è risultato che pezzi di artiglieria di un determinato calibro non fossero però capaci di utilizzare tutto il munizionamento del medesimo calibro, creando difficoltà di approvvigionamento. E, naturalmente, ciò ha ulteriormente complicato tutta la logistica.

Terzo aspetto, la pianificazione operativa e l’azione tattica. Anche qui, l’adozione di modelli NATO, a cui il personale ucraino non era addestrato (o lo è stato solo parzialmente), ha inciso significativamente sulla resa delle forze armate di Kiev.
Da notare che, per ovvie ragioni, l’addestramento dei militari ucraini (circa 60.000 soldati) è stato relativamente limitato, e si è svolto quasi esclusivamente nei paesi europei. Se teniamo presente che l’esercito ucraino ha oggi circa 6/700.000 uomini in linea, e che ne ha persi definitivamente circa altrettanti, si evince che i militari che hanno avuto un addestramento NATO sono circa il 5% del totale, e quindi in misura del tutto insufficiente. E, inoltre, la maggior parte di questi sono stati addestrati all’uso di particolari sistemi d’arma, e sempre in gruppi relativamente piccoli; quel che è mancato del tutto, pertanto, è l’addestramento tattico-operativo a livello di unità, cioè la capacità di manovra sul campo.

Tutto ciò, ha determinato uno scollamento tra la pianificazione dei comandi NATO e l’effettiva capacità delle forze armate ucraine. Ma, ancor più significativo, come precedentemente accennato, è lo scarto tra la dottrina di guerra della NATO (asimmetrica, rapida, incentrata sull’attacco) ed una realtà sul terreno completamente diversa.
Di ciò si sono alla fine resi conto anche i paesi addestratori, che infatti – mentre si discute l’estensione della missione europea di addestramento – sottolineano l’esigenza di “rendere le esercitazioni più in linea con le esigenze di combattimento, dato il divario tra i corsi e la realtà del campo di battaglia” [2]. In un documento del SEAE (il servizio diplomatico dell’UE) citato nello stesso articolo, si parla esplicitamente del fatto che “gli attuali modelli di addestramento sono modellati dagli standard occidentali” [3], sottolineando la differenza con la realtà del campo di battaglia. Inoltre, “il fatto che gli ucraini siano addestrati con equipaggiamento, procedure e dottrine degli stati membri, crea discrepanze anche nei tipi di tecniche e metodi conosciuti dai soldati, una volta tornati sul campo di battaglia” [4].

Di ciò abbiamo avuto un clamoroso esempio lo scorso anno, quando i comandi NATO – anche per esigenze politiche interne agli Stati Uniti –  spinsero l’esercito ucraino a lanciare un’offensiva a sud-est, rimpinguandoli preventivamente di carri Bradley e Leopard (gli Abrams furono forniti, ma allora non ne consentirono l’uso). L’operazione, concepita appunto secondo il modello operativo della NATO, fu effettuata nonostante fosse evidente che mancavano i presupposti per il successo. Da un lato, infatti, le forze russe avevano predisposto una formidabile linea difensiva fortificata (la famosa linea Surovikin), articolata in profondità su tre livelli successivi; e dall’altro le forze ucraine erano del tutto prive di due elementi fondamentali per sviluppare quel tipo di attacco, ovvero un efficace supporto aereo e di artiglieria.
Il risultato fu quindi, prevedibilmente, un completo fallimento, per di più pagato a caro prezzo.

Quello che abbiamo visto a Kursk, nei giorni scorsi, è per molti versi simile. Anche se con due elementi di novità. Il primo, più evidente, è quello strategico: rompendo di fatto quello che era sinora stato una sorta di tabù non dichiarato, la NATO ha invaso il territorio russo. Il secondo è quello tattico: stavolta l’attacco è stato portato utilizzando soprattutto piccole unità DRG, che dopo aver facilmente travolto le guardie di frontiera ed i militari di leva di stanza sul territorio, sono penetrate in profondità lungo alcuni assi. Ovviamente, in questo caso l’operazione – diversamente da quella dello scorso anno – ha avuto un successo tattico, almeno temporaneo.
Se si prescinde dal sù accennato valore strategico-politico, questa manovra è però irrilevante sotto il profilo militare. I danni inferti alle forze russe, a parte un certo numero di prigionieri catturati nei primissimi giorni, sono assolutamente minimi, mentre il prezzo pagato in uomini (circa 6.000, tra KIA e WIA, in pochi giorni) e mezzi è assai elevato.

L’attacco non è servito a distrarre truppe russe dal Donbass, ammesso che fosse questo l’obiettivo. Ed ora le forze ucraine sono di fronte ad un bivio: o si ritirano velocemente, vanificando il risultato politico dell’attacco, o restano sul campo facendosi distruggere dalle forze armate russe. Le quali anche qui stanno applicando il loro metodo operativo abituale: impegnano le forze ucraine in un settore, ed utilizzano la propria superiorità aerea e d’artiglieria per macinare le unità nemiche. E tutto per una porzione di territorio che può anche apparire significativa, se espressa in termini di chilometri quadrati, ma che perde totalmente di rilevanza non solo se raffrontata alla sterminata vastità del territorio russo, ma anche solo considerandone la valenza strategica. Si tratta infatti di un’area prevalentemente boschiva, con pochi villaggi; il centro più importante conquistato dalle forze ucraine, infatti, Sudzha, contava poco più di 6.000 abitanti prima della parziale evacuazione.

In tutto questo, il comando strategico delle forze armate russe non ha perso di vista il quadro complessivo del conflitto, ed ha anzi approfittato della situazione per concentrare – con successo – i suoi sforzi esattamente sullo schwerpunkt [5] del conflitto, ovvero il Donbass.
È lì, infatti, che si trova il baricentro dello scontro, e ciò per tutta una serie di ragioni.
Tanto per cominciare, basta dare uno sguardo alle mappe per rilevare un primo elemento fondamentale: la linea di combattimento disegna sostanzialmente un arco da nord-est a sud-ovest, che si presenta concavo dal lato ucraino e convesso da quello russo. La spinta offensiva russa, quindi, converge naturalmente verso un ideale centro di gravità, che si trova proprio ad occidente degli oblast di Lugansk e Donetsk.
Osservando la mappa sottostante, tra l’altro, si può rilevare come i maggiori concentramenti di forze russe siano all’estremità sud-occidentale, a protezione della Crimea, ed in corrispondenza del fronte del Donbass.

Questa regione – ed è questo un altro dei motivi che ne fa lo schwerpunkt – presenta un’elevatissima rete di fortificazioni ucraine, e di linee difensive incentrate sui centri abitati, che Kiev ha sviluppato a partire dal 2014. Oltre queste, in direzione ovest non c’è praticamente più nulla, né ostacoli naturali né difese fortificate, sino al Dnepr. Il che, per un verso, spiega perché l’avanzata russa è stata sinora così lenta (la liberazione di Bakhmut, ad esempio, ha richiesto praticamente un anno), e per un altro perché invece ora stia accelerando sempre più. La profondità difensiva ucraina, infatti, è stata via via erosa, sino a divenire ormai una linea assai sottile. In pratica, restano ormai solo pochi capisaldi, oltre i quali c’è sostanzialmente il vuoto.
C’è il centro strategico logistico di Pokrovsk, ormai a pochi chilometri dalle forze russe in avanzata, e più sù la linea Slovyansk-Kramatorsk (di cui si è più volte parlato qui, in passato).

L’attacco ucraino in direzione di Kursk, quindi, completamente lontano dal baricentro della linea di combattimento, in fin dei conti ha semplicemente allungato questa linea verso nord. Ciò, astrattamente parlando, potrebbe costituire un vantaggio per gli ucraini, poiché trovandosi dalla parte concava della linea questo teoricamente accorcia le linee di rifornimento, mentre per i russi accade esattamente il contrario. Ma tale vantaggio si darebbe soltanto se i rapporti di forze fossero grosso modo bilanciati; nella realtà, la disparità di forze è considerevole, soprattutto nei settori strategici dell’artiglieria e del dominio dell’aria, e pertanto l’esercito ucraino semplicemente non è in condizioni di trarne alcun vantaggio significativo.
In conclusione, l’attacco ucraino al territorio russo non si configura né come manovra diversiva (operazione tattica), né come offensiva significativa (operazione strategica).

Tornando quindi al quadro complessivo del conflitto, ed all’incidenza che hanno su questo la dottrina strategica ed il modello operativo della NATO, non è azzardato affermare ancora una volta che l’influenza dell’Alleanza Atlantica si è rivelata decisamente infausta, per l’Ucraina, e non solo – com’è evidente – su un piano più generale, avendo portato alla distruzione del paese, ma anche sul piano più specificamente militare.
A sua volta, questo ci porta ad una ulteriore chiave di lettura degli avvenimenti in corso, e di quanto si profila all’orizzonte. Se, infatti, una sconfitta ucraina rappresenterà chiaramente una sconfitta politica della NATO nella sua interezza, ciò rappresenterà anche una sconfitta del modello militare atlantico.
La potenza bellica statunitense – naturalmente ancora considerevolissima – si sta però sgretolando, forse ancora più rapidamente della potenza del dollaro.

L’evidente sconfitta israeliana in Palestina, l’incapacità di avere ragione d’un piccolo paese come lo Yemen, il chiaro timore di affrontare una potenza regionale come l’Iran, sono tutti sintomi della crisi profonda che attraversa lo strumento militare dell’egemonia occidentale. Un’eventuale sconfitta in Ucraina potrebbe essere il colpo decisivo, capace di azzerare il potere deterrente della NATO, aprendo la strada ad una miriade di conflitti ingestibili nel loro insieme.
Per ora, nel cuore dell’impero non sembra essersi aperta alcuna stagione autenticamente e seriamente riflessiva, su tutto ciò, è quindi presumibile che – almeno sul breve periodo – si continuerà a battere la medesima strada.
Ma se così non fosse, faranno di tutto per evitare di ascrivere una nuova sconfitta.


1 – Un aspetto messo in luce dal conflitto ucraino, ma a quanto pare non abbastanza sottolineato da analisti e personale militare, è che questa notevole varietà di mezzi (quasi ogni paese NATO ha una sua gamma di blindati, MBT e artiglieria) implica una logistica elefantiaca. In pratica, nel caso di una conflitto convenzionale – tanto più se ad elevato consumo – che vedesse le forze NATO in campo, si verrebbe a creare una situazione in cui i vari reparti nazionali necessiterebbero ciascuno di una propria specifica logistica (linee di rifornimento, officine di riparazione, pezzi di ricambio…), il che ovviamente non fa che complicare la flessibilità operativa.
2 – Cfr. “EU diplomatic service urges changes to Ukraine training mission to meet battlefield needs”, Aurélie Pugnet, Euractiv
3 – ibidem
4 – ibidem
5 – Il concetto di schwerpunkt fu formalizzato da von Clausewitz nel suo “Della guerra”. Nel libro 6, capitolo XXVII, scrive: “così come il centro di gravità si trova sempre là dove è concentrata la maggior parte della massa, ed ogni urto contro tale centro ha la massima efficacia sull’insieme, così deve avvenire in guerra e perciò l’urto più forte deve avvenire contro il centro di gravità”. Per Clausewitz si tratta del baricentro, del centro di gravità dello scontro. Al riguardo, vedi “Schwerpunkt”warfare.it

3 pensiero su “LO SCHWERPUNKT È NEL DONBASS”
  1. Articolo esemplare (al pari degli altri dell’autore, che ringrazio di cuore e a cui faccio i miei più sinceri complimenti): preciso, chiaro, sintetico, documentato e coerente.
    Un contributo davvero prezioso alla comprensione della situazione. Sarebbe assai utile diffonderlo. Se la stampa alternativa si ispirasse a questo modus scrivendi,
    potrebbe risultare molto più efficace di quanto non sia adesso…

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