Taylor Sheridan, in quella che potremmo definire come una “trilogia della frontiera” composta da “Sicario”, “Hell or high water” e “I segreti di Wind River”, ci racconta di luoghi dove il male abita e sembra non avere la forza per tramutarsi in cammino di salvezza. Luoghi dove l’unica risposta al dolore è la disperazione o la vendetta. L’individualismo è la sola matrice che muove la società. Non stiamo forse correndo tutti nella stessa direzione?
Non si inizia a vivere finché non si è provato dolore; non si può ascendere alla gioia piena se prima non si è stati precipitati nelle profondità della sofferenza. Non si è nemmeno capaci di pregare se il fuoco del dolore non ci ha purificato le viscere e le ossa. L’odierna società cerca con ogni mezzo di nascondere o allontanare le tracce del dolore, della vera angoscia che comprime l’anima, non la psiche, si badi. Non ha più risposte a quel grido acuto e netto. Ma il dolore e la solitudine hanno anche i loro luoghi, le loro “riserve”. Frontiere di terra arsa o di neve e freddo. I luoghi dove il male abita e sembra non avere la forza per tramutarsi in cammino di salvezza, ma solo di dannazione. La frontiera è come una notte a cui nessuno sa se farà seguito un’alba di sole. Gli uomini sembrano solo strumento del male e l’unica difesa è quella di un’arma sempre carica. Difesa di chi cerca la propria umanità nel coraggio, per superare ferite che non si possono cancellare.
Questo è l’universo che ci descrive Taylor Sheridan, sceneggiatore e regista statunitense. Potremmo definirla una “trilogia della frontiera” quella composta da Sicario, Hell or high water e I segreti di Wind River. Delle prime due opere Sheridan è autore della sceneggiatura, di quest’ultima ha firmato anche la regia. Non intendiamo soffermarci sull’aspetto eminentemente artistico di questi film: non si possono senz’altro inserire nella categoria del cosiddetto “cinema d’autore”. Tuttavia, con uno stile asciutto e ruvido, Sheridan, nasconde un piccolo tesoro, non facile da trovare nella cinematografia d’oltre oceano, un tesoro che solo apparentemente descrive terre e uomini a noi lontani e che a distanza di qualche anno risulta ancora più attuale.
Perché in questi territori di confine dimora un’umanità al limite, sconfitta, calpestata, che ha fatto del dolore la sua stessa forza e ragione di lotta. Un limite che precede il baratro della disperazione, perché in queste terre di frontiera la giustizia se n’è andata portando con sé le tracce.
Sicario, diretto dal canadese Denis Villeneuve, racconta il sud degli Stati Uniti a ridosso col Messico. Attorno al commercio della droga che supera il confine portando con sé morti e sparizioni, l’unica arma sembra quella di una giustizia che gioca le stesse carte del male. L’orizzonte di una normalità, di un ordine che assicuri ancora un po’ di vita veramente umana, sembra sparita da quei luoghi. Chi vuol essere “giusto” deve solo dimostrare di essere più forte.
Le sicurezze morali della protagonista, un’agente dell’FBI interpretata da Emily Blunt, cadono un po’ alla volta. Si trova davanti un mondo sempre più vasto e oscuro che non si lascia più afferrare dalle categorie del bene e del male. Il coraggio e le buone intenzioni sono tutto quello che resta e tutto quello che conta per non sprofondare nel baratro. E se si tenta di ripristinare una parvenza di ordine e di regole di giustizia, si scopre ben presto di essere soli davanti ad un nemico che non ha forma, perché supera i contorni dell’uomo. Il cosmo stesso pare preda del male. Si lotta solo per non morire, non per restituire speranza.
Lo stesso scenario assolato e polveroso ritorna in Hell or high water, espressione idiomatica che significa: “costi quel che costi”. Texas occidentale, terra di grandi distese, di povertà e solitudine. Un tempo patria degli indiani Comanche, “i signori delle pianure”, espropriata loro dagli europei con il sangue, e ora a sua volta espropriata a quest’ultimi dalle banche che pignorano le terre agli agricoltori in ginocchio per la crisi economica. La bilancia delle ingiustizie trova così il suo misterioso equilibrio; questa volta non servono nemmeno fucili, bastano le moderne armi della finanza, meno rumorose, ma altrettanto violente e senz’altro più subdole. Così, c’è chi decide di trovare una via personale alla giustizia sapendo che potrebbe essere la sua ultima avventura. Per una società che ha smascherato la sua illusione, per una terra che lascia solo frutti amari, rimane il legame di sangue, fluido denso e potente che può generare azioni da eroi come atroci vendette. Quest’America di frontiera non fa sconti, tanto vale ripagarla con la stessa moneta. «Non ho mai conosciuto nessuno che l’ha fatta franca con nulla, mai», confessa Tanner, ma per il fratello e per i figli di suo fratello accetta di correre sino in fondo su una strada forse senza uscita.
Dopo gli scenari bruciati dei primi due film, Sheridan decide di ambientare il suo debutto alla regia fra le nevi del Wyoming, nella riserva indiana di Wind River. Un altro luogo “a parte” dove la civiltà ha scaricato i suoi rifiuti culturali: violenza, droga e solitudine. La morte di una giovane ragazza indiana apre poco a poco una finestra su questa piccola realtà dove tutti si conoscono, ma a regnare è una grande solitudine che affoga sotto le montagne imbiancate. La natura è ostile, la povertà è compagna fedele, la disperazione che porta all’abuso di droga o alla violenza una bestia sempre in agguato. In tutto questo, la forza di un’umanità che ancora non si arrende è radicata nel dolore. Solo il dolore avvicina gli uomini, in questa anonima vastità. Apre una ferita e il sangue che ne sgorga è come un balsamo purificatore, ma occorre stare attenti che non si infetti col germe della vendetta e dell’odio. Forse non c’è esperienza più umana e necessaria del dolore.
Cory Lambert, il cacciatore di predatori che trova il corpo della ragazza, così confida al padre della giovane: «Il punto è, Martin, che non puoi allontanarti dal dolore, se lo fai, derubi te stesso, derubi te stesso di ogni ricordo di lei». Perché lui per primo sa come lavori dentro la sofferenza, cosa voglia dire portarla addosso; sa che niente sarà più come prima. Anche Cory ha perduto una figlia e quella morte ha mandato in frantumi la sua famiglia. Ma sa anche che la giustizia fra quelle montagne ha più il sapore della vendetta. L’urto del male scatena la ferocia che si espande come un’eco fra gli spazi immensi e disabitati. Un’umanità avvinta da forze primordiali che qui, lontano dalle “civili” metropoli, mostrano la loro anima senza maschere. Se ne renderà presto conto Jane, giovane e inesperta agente dell’Fbi inviata a Wind River per risolvere il caso. Consumerà qui la sua speciale iniziazione.
Cos’è allora la frontiera? Solamente un’estremità di terra che si scopre schiava, nella dimenticanza di chi ha stabilito la sua dimora nel “centro”? Ma lo spazio e il tempo non sono dimensioni che si possono separare. Frontiera è anche il luogo dove le spire perverse dell’oggi si scontrano con le malattie del passato che si trascinano come fantasmi e simboli del futuro prossimo a venire. Il focolaio di un tremito che scuoterà tutta la terra. Anticipazioni e avvertimenti.
Come l’epidermide sfoga il male che cresce nelle viscere, così quei non-luoghi distanti e crudi ci parlano: davanti a uno specchio il nostro destino e la nostra anima collettiva si palesano e attendono la loro espiazione. A volte guardare così lontano è un po’ come guardarsi dentro, fra le zone d’ombra che fingiamo di non avere.
Fra il bene e il male qual è allora la linea di demarcazione? Per Sheridan la risposta non è chiusa una volta per tutte. Il predatore caccia e violenta per puro egoismo, con l’illusione di riempire un vuoto che ha dentro di sé. Il giusto lotta per non soccombere e per togliere un po’ di male da quei luoghi pur sapendo che esso ricrescerà rapido come un’erba selvatica. Ma in fondo anche i “buoni” non sanno dare una risposta compiuta al dolore e al male; ritratto di un’umanità riportata alla sua più cruda essenza: tenace, coraggiosa, istintiva, ma dimentica del tragitto spirituale che ha da compiere.
L’ordine attorno e al di sopra dell’Uomo è dissolto, l’individuo si ritrova solo senza appoggi e sentieri tracciati, così che allora non ci sarà più ordine nemmeno dentro di sé. E così il caos cresce vicendevolmente all’interno e all’esterno. In questo scivolare ferino negli abissi, l’unica lotta possibile sembra quella per la sopravvivenza. «La fortuna non dimora qui, dimora nelle città… Qui sopravvivi o ti arrendi… I lupi non uccidono i cervi sfortunati, ma i deboli»; con queste parole asciutte ma sentite Cory rincuora Jane sdraiata in un letto di ospedale. Tragico compimento del “sogno americano”, di quell’individualismo di matrice protestante che si è fatto ormai norma per il mondo intero: inutile nasconderlo. Ma è anche grido acuto di uomini che attendono una risposta al loro dolore, alla loro sete di senso; risposta che però non sembra arrivare.
Queste periferie geografiche rimandano ad una periferia del tempo, ad un limite che ci sta davanti, fine e risoluzione inevitabile del dramma moderno. La disumanità e il caos spinti all’estremo limite, dove ogni maschera cade e le menzogne sono nude. Il personalismo di questa società mostra la sua anima feroce: l’uomo vinto dalla solitudine e dalla paura è carnefice di se stesso.
Abbiamo voluto dimenticare che l’ordine interiore si preserva e si perfeziona grazie all’ordine sociale. Il “grande corpo” che accoglie custodisce i “piccoli corpi”. Né l’uno senza l’altro. Se l’esterno si sfilaccia il caos entra anche nel singolo.
La Tradizione insegna che la triplicità dell’individuo (corpo, anima, spirito) rimanda necessariamente alla triplicità nella costituzione sociale (arti, regno, sacerdozio).
«Vi è un certo parallelismo costante fra il dissidio delle tre parti del corpo individuale e la lotta delle tre parti del corpo collettivo. Le scissioni che si operano nell’uomo singolo o nell’uomo associato reagiscono l’una all’altra. La crisi delle istituzioni oggettive scompone l’unità del soggetto umano: le lacerazioni interne di questo soggetto rendono, a loro volta, più facile la distruzione oggettiva. Anche per questa ragione avviene che le forze negatrici della Sovversione mondiale procedano sempre con un duplice colpo d’ariete, uno diretto alla psicologia del singolo, l’altro alle strutture civili di un’ordinata società. È chiaro, per tanto, che una vera e propria Ricostruzione dei valori deve puntare a un risanamento simultaneo e complementare della mentalità e delle istituzioni. Di solito, ci si limita infruttuosamente a uno solo di questi due compiti». Così magistralmente sentenziava il compianto quanto misconosciuto metafisico cristiano Silvano Panunzio. Un autore i cui libri, come spesso ripetiamo, andrebbero studiati e meditati in silenzio se davvero volessimo comprendere a fondo il tempo che viviamo e le “chiamate” che ci vengono rivolte.
La frontiera raccontata da Sheridan è perciò specchio estremo quanto limpido di quello verso cui tutti stiamo correndo. O forse ci siamo già dentro? Nessuna realtà spirituale sembra governare la terra ormai sconvolta. L’uomo l’ha scacciata dal suo orizzonte di vita e il cielo pare averla inghiottita. La religiosità di facciata, farisaica quanto intransigente, è solo un’altra espressione di un un’umanità che non sa più davvero chi sia Dio e dove Egli si lasci incontrare.
Se non vi è prima ordine sulla Terra i Cieli restano inaccessibili. E questa terra è divenuta una gabbia per lo spirito, gabbia che stringendo sempre più le sue sbarre di acciaio ci fa monadi e nemici. Addirittura quasi contenti di esserlo. Eppure il Bene è ancora possibile. Non per evitare la catastrofe finale, quelle è provvidenzialmente necessaria. Ma per preparare e prepararci alla catarsi che seguirà.
NOTA: Il presente articolo, fu pubblicato per la prima volta, sulla rivista L’intellettuale Dissidente il 09 maggio 2018. Qui lo si ripropone in una forma riveduta e ampliata