Aggiornamento sulla situazione siriana, con uno sguardo attento soprattutto alle questioni strategiche e meno contingenti, che l’attacco jihadista-terrorista di Hayat Tahrir al-Sham e delle altre formazioni armate anti-siriane hanno riportato drammaticamente in primo piano.
Che l’esercito siriano (SAA) fosse a pezzi, lo avevo già fatto notare nel recente passato, quando neanche si ipotizzava una evoluzione paragonabile a quella vista negli ultimi giorni. E di ragioni, anche comprensibili, ce n’era più d’una. Di sicuro, dopo quanto sta accadendo, il contraccolpo d’immagine sul governo siriano è devastante, e di certo non ne rafforza la credibilità interna [1]. Non che Russia ed Iran ne escano indenni da questo punto di vista: una incredibile carenza di intelligence, come minimo – e verrebbe quasi da essere cattivi, e parlare di carenza di intelligenza tout court…
Sul piano militare, è impensabile che Mosca e Teheran possano permettersi la perdita della Siria (e, quindi, di Assad). Del resto, per quanto le forze jihadiste-terroriste stiano procedendo con grande slancio e grande coordinamento, mettendo in campo decine di migliaia di uomini, la loro completa assenza di difese anti-aeree le espone inevitabilmente ai raid dell’aviazione russa e siriana. Alla lunga ciò farà sentire il suo peso. Ovviamente – come ben sanno gli israeliani – avere il dominio dell’aria non è sufficiente senza una capacità di combattimento efficace sul terreno. In termini operativo-strategici, è abbastanza evidente che le formazioni terroriste non sono strutturalmente in grado di competere con le forze alleate di Damasco (le cose sarebbero ben diverse se la Siria fosse sola). Il punto, quindi, è semplicemente quanto tempo ci vorrà per stabilizzare la linea del fronte, e soprattutto dove. Se le forze jihadiste-terroriste riusciranno ad occupare Aleppo (come già avvenne nel 2016), allora sarà un problema serio, perché la riconquista sarà lunga e dolorosa. Se, invece, l’offensiva sarà contenuta ai quartieri occidentali, sarà più facile tagliare le linee logistiche e chiuderli in una sacca.
La questione però ovviamente si pone in termini strategici. Per quanto riguarda Russia ed Iran, si tratta essenzialmente di affrontare in via definitiva alcuni nodi, che poi significano sostanzialmente ripristinare le condizioni affinché la Siria torni ad essere un’entità statuale pienamente sovrana.
Il primo nodo è quello dei rapporti con la Turchia. Erdogan è un nazionalista turco, con ambizioni da impero ottomano e quindi (legittimamente dal suo punto di vista), gioca le sue carte in modo spregiudicato. Ma, soprattutto, si rivela essere sempre più un personaggio ambiguo ed inaffidabile, che cambia fronte con troppa disinvoltura. Se in passato, specie durante la prima fase della SMO in Ucraina, la Turchia è stata utile a Mosca, di certo ora non lo è più, quanto meno non nella stessa misura. Mosca ha più volte salvato il culo a Erdogan, avvertendolo per tempo di manovre per farlo fuori. Ciò nonostante, Erdogan non si è fatto scrupolo di ricambiare con palesi tradimenti (vedi la liberazione dei leader dell’Azov esiliati lì dopo la cattura di Mariupol). Con questa operazione, molto più grave e pericolosa, ha fatto una scelta di campo, e dovrà pagarne le conseguenze.
Tanto per cominciare, quindi, bisognerebbe porsi l’obiettivo a medio termine di ripulire completamente il nord siriano sia delle milizie controllate da Ankara, sia dalle sue basi militari. Una mossa di indubbio valore strategico potrebbe poi essere quella di appoggiare sostanzialmente le milizie curde anti-siriane, usandole a loro volta per esercitare pressioni sulla Turchia e – cosa non secondaria – sottraendole al controllo statunitense.
Ovviamente, la questione delle basi illegali USA è un altro problema serio da risolvere. Queste basi non solo sono lo strumento con cui viene rubato il petrolio siriano, ma rappresentano anche un importante elemento di disturbo rispetto alle strategie iraniane nella mezzaluna sciita. La base di Deir el Zor è, di fatto, piantata in mezzo alle linee di comunicazione tra Iran e Libano.
La questione curda è, a sua volta, un altro elemento, non meno delicato, del quadro generale. Siria e Turchia sono i due paesi (tra i quattro in cui è diviso il Kurdistan) in cui è più forte l’attività politico-militare delle formazioni curde, che sono tra l’altro strettamente collegate (le YPG siriane sono quasi una filiazione del PKK operante in Turchia). Le forze curde sono state parte dell’insurrezione anti-Assad nel 2011 ed hanno lungamente partecipato alla guerra civile dalla parte sbagliata. Anche adesso, le SDF (composte essenzialmente dai curdi) agiscono sotto l’ombrello americano, appoggiandosi alle basi USA. Ma la reciproca ostilità coi turchi è prevalente, pertanto ci sono tutti i margini per avviare un percorso di pacificazione all’interno della Siria (anche attraverso forme di autonomia regionale, sul modello iracheno).
Last but not least, anche se non è una questione esclusivamente legata alla Siria, c’è la questione dei rapporti tra Mosca e Teheran. Che l’asse tra i due paesi sia di prospettiva strategica, e per innumerevoli motivi, è indiscutibile. Ma, al tempo stesso, è inutile nascondere che sussistono ancora problemi irrisolti. E questi problemi riguardano soprattutto la questione mediorientale. Non è un caso che l’accordo strategico tra i due paesi, la cui firma è data da tempo come imminente (la si attendeva da ultimo in occasione del vertice dei BRICS+ a Kazan, lo scorso ottobre) tardi ad arrivare. Mentre, infatti, Teheran ha una posizione netta e chiara rispetto alla questione palestinese, e più ampiamente rispetto alla questione dello stato sionista israeliano, Mosca continua a mantenere una posizione mediana, per non dire ambigua, che proprio in Siria si traduce nel consenso assenso ai continui bombardamenti da parte di Tel Aviv (cosa che non ha mancato di suscitare malumore nell’Asse della Resistenza). È sin troppo evidente che un accordo tra Russia e Iran sulla falsariga di quello da poco stipulato tra Federazione Russa e Repubblica Popolare di Corea impegnerebbe Mosca in caso di conflitto aperto tra Teheran e Tel Aviv e tale impegno non si limiterebbe al semplice supporto dell’alleato, ma si estenderebbe a una difesa comune (un po’ come accade per l’art. 5 della NATO). Un passo che, evidentemente, il Cremlino non si sente ancora del tutto pronto a compiere.
In conclusione, e guardando le cose in una prospettiva non contingente, l’offensiva jihadista-terrorista su Aleppo ha messo in evidenza problematiche di fondo che la relativa tranquillità del fronte aveva consentito di tenere sotto il tappeto. Pertanto, ora si pone sicuramente nell’immediatezza la questione del contenimento e dello stop di tale offensiva. Ma in termini più generali si rende necessario affrontare, con una prospettiva strategica, una serie di problemi la cui mancata soluzione può (come proprio l’azione dell’Hayat Tahrir al-Sham dimostra) avere effetti molto seri.
1 – Vale da cartina di tornasole la notizia che un campo profughi palestinese, ad est di Aleppo, e quindi lontano dalle prime linee jihadiste, avrebbe trattato con emissari dell’HTS scambiando una propria posizione di neutralità per evitare di essere attaccato…