LA ZANZARA COLONIALISTA (II) [DIARIO DI UN MZUNGU #03]

DiDomenico Fiormonte

3 Febbraio 2025

La guerra alla malaria in Africa rientra storicamente nella strategia militare degli Stati Uniti per rendere più sicuro l’impiego delle proprie truppe nei territori a rischio. E come spesso accade, gli interessi militari e geopolitici finiscono con l’intrecciarsi con le scelte sanitarie, fino a rendere indistinguibili i confini fra gli uni e le altre.

La guerra alle zanzare, che avevo trattato ironicamente nella puntata precedente, si trasforma in un progetto geopolitico nel momento in cui il problema non riguarda più il singolo mzungu, ma gli imperi coloniali. Si può far risalire la storia del rapporto fra campagne militari e malaria ad Alessandro Magno (che secondo alcuni morì proprio a causa di una febbre malarica contratta a Babilonia) per arrivare fino all’invasione degli Unni, anche loro messi in fuga dalle zanzare che infestavano la campagna romana… Ma per quanto riguarda l’epoca contemporanea le prime osservazioni sul rapporto fra punture degli insetti e insorgenza della malattia emergono alla fine dell’Ottocento dalla corrispondenza fra un infettivologo inglese, Patrick Manson, e un ufficiale britannico di stanza in India, Ronald Ross, al quale nel 1902 verrà conferito il Premio Nobel per la medicina. Sostanzialmente tutta la storia della ricerca sulla malaria e dei modi per combatterla o curarla, da questo punto in poi, sono intrecciati con la storia del colonialismo occidentale e – dopo la Seconda guerra mondiale – con quella dell’espansionismo militare americano. Il generale Douglas MacArthur dichiarava nel maggio del 1943: “questa sarà una guerra lunga se per ciascuna divisione che affronta il nemico una seconda finisce in ospedale per malaria e una terza rimane convalescente per questa debilitante malattia.” Secondo un rapporto della Henry M. Foundation for the Advancement of Military Medicine “durante ogni guerra combattuta in regioni in cui la malaria è endemica, tale malattia ha causato più ricoveri fra i militari che le ferite da arma da fuoco” (nella guerra del Vietnam circa il 70% di tutti i ricoveri negli ospedali militari riguardavano casi di malaria). A questa situazione segue un intenso sforzo di ricerca degli apparati militari statunitensi. Nel 1946 viene introdotto il già citato repellente per insetti DEET (dietiltoluamide), a tutt’oggi il prodotto più efficace in commercio per la prevenzione delle punture. Nello stesso anno viene fondato il CDC (all’epoca acronimo di Communicable Disease Center), divenuto famoso durante la pandemia da COVID-19, che ha le sue origini proprio nei primi programmi di eliminazione della malaria. La guerra alle zanzare, dunque, rientra nella guerra in senso stretto, ovvero è parte della strategia militare degli Stati Uniti per rendere più sicuro l’impiego delle proprie truppe nei territori a rischio. E come spesso accade gli interessi militari e geopolitici finiscono con l’intrecciarsi con le scelte sanitarie, fino a rendere indistinguibili i confini fra gli uni e le altre. La vicenda viene raccontata dallo studioso canadese Killian McCormack in un importante e dettagliato contributo accademico dal quale ho tratto le citazioni precedenti. A partire dagli anni Sessanta, e ancora di più durante l’espansione post-11 settembre in aree geografiche “sensibili”, l’apparato militare statunitense ha contribuito a creare un network con OMS, industrie farmaceutiche e fondazioni private come le onnipresenti Rockfeller Foundation e Bill & Melinda Gates Foundation. Uno dei nodi centrali di questo network è lo US Army Medical Research Directorate – Africa (USAMRD-A), conosciuto anche come “Walter Reed Project”, creato in Kenya nel 1970. Secondo McCormack, il Walter Reed Project “non solo ha creato un luogo per sostenere le guerre globali degli Stati Uniti, ma ha fornito ai militari una piattaforma per proiettare la propria influenza geopolitica

attraverso strumenti apparentemente benigni, come la ricerca medica e la partnership sanitaria.” Tuttavia, continua lo studioso, la presenza militare USA non solo non ha aiutato lo sviluppo delle infrastrutture sanitarie necessarie al territorio che la ospita, ma sfrutta le comunità locali per la ricerca, come nel caso del complesso di Kisumu in Kenya, dove “vengono prelevati campioni di sangue di ricoverati affetti da malaria presso ospedali regionali e alcuni pazienti vengono trasferiti in strutture militari statunitensi, dove i loro campioni biologici acquistano valore geopolitico.” Melissa Graboyes, nel suo bel libro dedicato alla storia della ricerca medica nell’Africa orientale, ricorda che i medici occidentali di stanza delle colonie, molti dei quali come abbiamo visto militari, consideravano la popolazione africana un “museo ambulante di patologie”. O, come viene affermato quasi mezzo secolo dopo nella rivista militare Parameters, “il più prolifico incubatore di catastrofi biologiche umane sulla terra.” Questo tipo di narrazioni non vanno confuse con un “banale” problema di razzismo culturale. La trasformazione della ricerca medico-scientifica in terreno di scontro geopolitico non solo ha creato nuove forme di colonialismo che affliggono i paesi del Sud del mondo, ma ha aperto la strada a una militarizzazione tout court delle società e dei discorsi collettivi (si pensi alle recenti affermazioni di Mark Zuckerberg sulla censura di contenuti sul COVID non in linea con il governo). Un paradigma di sorveglianza delle menti e di dominio dei corpi che ha sfruttato la grande esperienza nel sud globale (e soprattutto in Africa) delle principali organizzazioni coinvolte: il Dipartimento della Difesa USA, l’industria farmaceutica, l’OMS e le principali fondazioni del filantro-capitalismo. Secondo l’OMS la malaria nel 2023 ha causato 597.000 vittime, di cui il 95% nell’Africa subsahariana. Si pensi che una malattia infettiva come la tubercolosi, considerata “debellata” in occidente, continua a mietere più di un milione di morti l’anno. Sempre la medesima organizzazione nel report annuale sulla malaria scrive che “la prevalenza della malaria tra i bambini di età inferiore ai 5 anni è sproporzionatamente più alta tra le famiglie che vivono in povertà e diminuisce con l’aumentare dello status economico, evidenziando come quest’ultimo influenzi fortemente il rischio di contrarla o meno.” In altre parole, come accade per altre malattie, la malaria colpisce con più violenza lì dove le condizioni economiche e sociosanitarie sono peggiori: il che vuol dire, banalmente, accesso ad acqua potabile e cibo sufficiente. L’Institute for Health Metrics and Evaluation evidenzia infatti che “solo il 10% dei finanziamenti mondiali per la salute viene destinato alle malattie che colpiscono il 90% della popolazione mondiale.” Ed è la stessa OMS a certificare che le malattie non trasmissibili continuano a essere la principale causa di morte nel mondo. Al primo posto rimane stabile “la cardiopatia ischemica, responsabile del 13% dei decessi totali. Dal 2000, l’aumento più consistente dei decessi è stato registrato per tale malattia, con un incremento di 2,7 milioni di decessi fino a 9,0 milioni nel 2021.” In conclusione, sembrerebbe abbastanza evidente che le grandi istituzioni e fondazioni internazionali citate sopra non abbiano un reale interesse nel diminuire quello che i tecnici chiamano i “fattori di rischio”, migliorando le condizioni di vita degli africani (e di tutti noi), ma perseguano l’interesse economico, militare e geopolitico delle potenze egemoni, di cui la ricerca medica e i suoi prodotti (farmaci e vaccini) sono ormai il riflesso deformato. Eugene T. Richardson, medico e antropologo all’Università di Stanford, in un libro coraggioso e dissacratorio che decostruisce i miti del globalismo sanitario, denuncia: “la più grande epidemia che ho incontrato (…) è un’epidemia di illusioni, un’epidemia propagata dalla colonialità della produzione della conoscenza.” Richardson si chiede: “quali sono i meccanismi della scienza della salute pubblica, e in particolare dell’epidemiologia, che permettono ai gruppi di sancire un resoconto della causalità delle malattie rispetto a un altro, cioè di ottenere il monopolio della verità?” Credo che la risposta a questa domanda sia emersa in questi ultimi anni: tuttavia non possiamo illuderci che il completo smantellamento di questi monopoli della conoscenza (e della “verità”) possa avvenire senza che gli equilibri geopolitici, militari ed economici che li generano e li sostengono, vengano anch’essi messi in discussione.

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