LE LEGGI DELLA VITA: ARISTOTELE E I FONDAMENTI BIOPOLITICI DELLA POLIS

DiOld Hunter

15 Maggio 2025
Come gli antichi governavano il sangue, la virtù e la memoria per sostenere la civiltà

di Chad Crowley per il suo chadcrowley.substack.com   –    Traduzione a cura di Old Hunter

I. Biopolitica e natura della polis

Il termine biopolitica è spesso associato a Michel Foucault, il post-strutturalista di sinistra che ha cercato di decostruire il modo in cui gli stati moderni regolano la vita attraverso sistemi diffusi di potere, controllo istituzionale e sorveglianza. Ha identificato meccanismi come la politica sanitaria, la regolamentazione demografica e la sorveglianza stessa, ma si è rifiutato di chiedersi cosa un ordine politico dovesse fare con tale potere, o al servizio di chi [1]. La sua analisi è rimasta confinata alla critica, slegata da qualsiasi fondamento morale o di civiltà. Ciò che lui chiamava biopotere, gli antichi lo avrebbero chiamato responsabilità. Dove lui vedeva dominio, i nostri antenati vedevano dovere.

Foucault riconobbe la struttura della governance moderna, ma non il suo scopo. Accennò ai meccanismi ma evitò il telos, il fine ultimo verso cui la vita politica deve essere orientata. Per lui, la biopolitica è un sintomo storico. Per gli antichi, era il fulcro dell’arte di governare. Non è un caso che figure come Aristotele, Licurgo e i primi legislatori abbiano posto il governo della vita, le questioni del matrimonio, della riproduzione e dell’appartenenza,  al centro dell’ordine politico.

Le radici della biopolitica affondano ben oltre il XX secolo. Risalgono all’antichità classica, quando lo Stato e la famiglia erano intesi come estensioni di un unico ordine organico. I Greci non teorizzarono la biopolitica: la vissero. Legiferarono il matrimonio, regolamentarono la riproduzione, onorarono la discendenza ancestrale e concepirono la città non come un apparato neutrale per l’amministrazione dei diritti, ma come un corpo vivente incaricato di proteggere, affinare e trasmettere un popolo attraverso le generazioni.

Una nazione nasce dove il sangue è ricordato e l’ordine è forgiato da un popolo consapevole della propria continuità ancestrale. Questa è biopolitica nella sua forma più autentica: non una teoria astratta, ma un istinto al governo, tra i fondamenti più antichi e indispensabili della vita politica. È l’arte e la scienza di plasmare un popolo non solo attraverso leggi e istituzioni, ma anche coltivando, regolando e preservando il suo carattere biologico, morale e culturale. Si occupa di nascita e morte, di parentela ed eredità, dell’eterna questione di chi ne fa parte e chi no. Lo Stato, in questa visione, non è un contratto o un’astrazione, ma un ordine vivente, nutrito dalle consuetudini, plasmato dal sangue e orientato dalla natura verso l’eccellenza e la continuità.

Nell’antica Grecia, questa visione non era puramente speculativa. Era radicata nella religione, nei rituali e nel diritto. La città non era semplicemente una giurisdizione, ma un’estensione sacra della famiglia ancestrale, creata per amore della virtù, sostenuta dalla venerazione per i defunti e animata dal dovere verso i nascituri. In nessun luogo ciò fu espresso in modo più completo che nel pensiero di Aristotele.

Erodoto diede voce alla prima nozione occidentale di cittadinanza. Nelle Storie, descrive i Greci come uniti non dal territorio o dal governo, ma dal sangue, dalla lingua, dal culto e dallo stile di vita condivisi [2]. La loro identità era radicata nella discendenza e nella memoria, un legame che trascendeva i confini politici e fondava l’unità civica sull’appartenenza ancestrale.

Aristotele diede a questo istinto una forma filosofica. Nella sua Politica, offre l’espressione più chiara dell’ordine biopolitico nella tradizione occidentale. La polis, ci dice, è la forma più alta di associazione umana, non perché garantisca libertà o benessere materiale, ma perché permette all’uomo di realizzare la sua natura di essere razionale e politico [3]. “L’uomo è per natura un animale politico” [4], non nel senso moderno di partecipazione individualistica o atomizzata alla politica, ma perché non può raggiungere il suo telos – il suo fine naturale o la sua perfezione – al di fuori della città. Proprio come la ghianda è destinata a diventare quercia, l’uomo è destinato a diventare cittadino, legislatore, filosofo. E la polis è il terreno in cui questa trasformazione mette radici.

Per Aristotele, la vita politica è il culmine della vita biologica. La città non è costruita al di sopra o contro la natura, ma in armonia con essa. Le sue leggi devono riflettere la gerarchia naturale di capacità, carattere e scopo, rispecchiando l’ordine del cosmo. La parola greca κόσμος non significa semplicemente “universo”, ma “ordine”, una totalità strutturata in cui ogni parte svolge il proprio ruolo. Aristotele immagina la città come una comunità organica finemente calibrata, composta da coloro che sono biologicamente, moralmente e intellettualmente adatti a condividerne i fardelli e le responsabilità. “Il fattore principale necessario per l’equipaggiamento di una città è il materiale umano”, scrive, “e questo ci porta a considerare la qualità oltre che la quantità” [5]. La cittadinanza non è un diritto universale, ma un’eredità sacra, guadagnata attraverso la discendenza, la virtù, la lealtà al bene comune e la partecipazione vissuta alla vita della polis.

Di conseguenza, Aristotele definisce il cittadino non in base allo status giuridico, ma in base alla discendenza e alla funzione. “Un cittadino è colui che nasce da genitori cittadini da entrambe le parti” [6]. Gli stranieri potevano occasionalmente essere naturalizzati, ma sempre “in un senso speciale” [7], e mai come pari a coloro la cui discendenza incarnava la comunità stessa. La legge può accogliere gli estranei, ma non può creare un senso di appartenenza. Il biologico e il politico convergono in questa concezione: una città sana dipende dalla riproduzione di una cittadinanza sana.

Ecco perché Aristotele, come il mondo greco in senso più ampio, insisteva sul fatto che la riproduzione non fosse una questione privata, ma un obbligo pubblico e sacro. La religione indoeuropea, fondamento del diritto greco, considerava il celibato empio e poneva la continuazione della linea familiare al di sopra di ogni desiderio privato. Il padre governava per il bene della famiglia e la città estendeva tale potere alla sfera pubblica. Governare correttamente significava plasmare non solo le istituzioni, ma anche i corpi e le anime delle persone. “È probabile”, scrive Aristotele, “che buoni figli provengano da buoni padri e che coloro che sono stati educati in modo appropriato siano di tipo appropriato” [8].

Questa è la biopolitica nel suo senso antico e proprio: il governo della vita ordinato alla perfezione dell’uomo. Aristotele non parla di uguaglianza o di diritti. Parla della città nel suo insieme, vincolata dal dovere, formata dalla consuetudine e animata dal sangue comune. “La bontà di ogni parte deve essere considerata in riferimento alla bontà del tutto” [9]. E ancora: «Un tutto non è mai destinato dalla natura ad essere inferiore ad una parte» [10].

 Parlare della politica di Aristotele significa parlare della biologia della città, della sua armonia interiore, della sua continuità e del suo bisogno di esclusione. Lo Stato non è un magazzino di individui, ma una forma vivente, sostenuta dalla memoria e trasmessa per discendenza. Il suo scopo non è appagare gli appetiti, ma elevare il nobile, disciplinare il vile e coltivare le facoltà più elevate dell’uomo. In questo, Aristotele presenta non una tirannia, ma una visione della vita civile concreta, gerarchica e viva.

II. Cittadinanza, parentela e struttura della città antica Per comprendere la concezione biopolitica di Aristotele, bisogna partire dalla sua convinzione che la città non sia un assetto meccanico imposto a individui disparati, ma un’estensione naturale della famiglia. “La polis”, scrive, “è un’associazione di famiglie e clan che vivono una vita virtuosa, al fine di raggiungere un’esistenza perfetta e autosufficiente” [11]. La città non nasce da contratti o convenienze, ma da legami già forgiati: legami di sangue, di religione e di memoria ancestrale. Il legislatore non inventa il popolo. Lo eredita, lo affina e ne assicura l’unità attraverso l’educazione, la tradizione e il diritto. Tale unità si fonda, soprattutto, sulla discendenza.

Un cittadino, per Aristotele, non è definito dalla geografia o dal rispetto delle leggi, ma dalla partecipazione alla vita della città. Cittadinanza significa sia governare che essere governati. Ma questa partecipazione presuppone l’appartenenza. I membri di una polis devono riconoscere l’uno nell’altro un’eredità condivisa. Devono essere capaci di philia, amicizia civica, fondata su una comune discendenza e sul dovere collettivo. Le città greche, quindi, limitavano la cittadinanza alla nascita, richiedendo spesso generazioni di genitori cittadini. La città non era un’assemblea di stranieri, ma una comunione di famiglie allargate, ciascuna legata da vincoli sacrificali alla terra, alla legge e alla discendenza.

La parentela, quindi, non era un sentimento privato. Era un principio politico. L’affetto naturale tra genitore e figlio, che Aristotele descrive come l’amore per “una sorta di altro sé” [12], servì da modello per l’unità civica. La fratellanza all’interno della famiglia si estendeva alla solidarietà all’interno della città. Questo legame non poteva essere creato per decreto o ideologia. Era il prodotto di sangue condiviso, rituali comuni e responsabilità ereditate. Espressioni come “della stessa stirpe” e “dello stesso sangue” non erano metafore poetiche, ma verità fondamentali dell’ordine politico.

Questa enfasi sulla discendenza spiega gli avvertimenti di Aristotele su stranieri e fazioni. In tutta la sua Politica, egli documenta come le città siano cadute in stasi, in conflitti civili, dopo aver concesso la cittadinanza a stranieri. In ogni caso, dalla Magna Grecia all’Egeo, l’immigrazione senza una profonda assimilazione ha portato al conflitto. “L’eterogeneità delle stirpi può portare a fazioni”, avverte, “almeno finché non hanno avuto il tempo di assimilarsi” [13]. Anche in questo caso, l’unità forgiata dal sangue e dal tempo potrebbe essere infranta da decisioni politiche che danno diritto al voto a coloro che non hanno radici nella società civile.

La preoccupazione di Aristotele per la coesione si estendeva anche alle azioni dei tiranni. I despoti, a differenza dei re, non facevano affidamento su cittadini leali, ma su stranieri. “I re sono protetti dalle armi dei loro sudditi”, osserva, “i tiranni da una forza straniera” [14]. Un tiranno recide i legami organici di famiglia, culto e tradizione perché questi legami generano lealtà, resistenza e memoria. Un popolo che sa chi è non può essere facilmente governato da chi cerca di trasformarlo.

Questa stessa intuizione guidò la comprensione di Aristotele della famiglia. La famiglia non era semplicemente un’unità privata, ma il germe dello Stato. Al suo interno, l’uomo incontrò per la prima volta il dovere, la gerarchia e l’ordine. Il padre governava non come un despota, ma come un esempio morale, guidando la sua famiglia attraverso l’anzianità, la saggezza e l’affetto. Proprio come il re dovrebbe incarnare l’anima e il sangue del suo popolo, così anche il padre deve incarnare l’eredità della sua stirpe. L’ordine politico richiedeva la preservazione della struttura familiare. Ecco perché sia ​​le tirannie che le ideologie moderne hanno cercato di indebolirla o dissolverla.

Per Aristotele, i legami familiari, di parentela e cittadinanza formano una struttura ininterrotta. La polis non era un aggregato di leggi o un insieme astratto di diritti. Era un corpo plasmato dal tempo, dalla memoria e dalla discendenza. Richiede un’identità condivisa per generare lealtà e una virtù condivisa per preservare l’ordine. Quando queste fondamenta vengono minate – dall’immigrazione di massa, da ideologie atomizzanti o dal crollo della famiglia – la città cessa di esistere tranne che nel nome. Nessuna legislazione, per quanto saggia, può sostenere un popolo una volta che il sangue e lo spirito che lo uniscono siano stati dimenticati o sostituiti.

III. Diritto, istruzione e riproduzione della cittadinanza Nella filosofia politica di Aristotele, il diritto non è né un contratto neutrale tra individui né un meccanismo per bilanciare interessi contrastanti. È lo strumento formativo dell’anima di un popolo. Il legislatore non si limita a frenare l’ingiustizia; plasma il carattere, instilla la virtù e assicura la continuità di un distinto ordine morale e biologico. “Tutti sarebbero d’accordo”, scrive Aristotele, “che il legislatore dovrebbe fare dell’educazione dei giovani la sua principale e fondamentale preoccupazione” [15]. In questo contesto, l’istruzione non è l’accumulo di conoscenze, ma la formazione di abitudini, lealtà ed eccellenza incarnata all’interno di un dato stile di vita.

Questo stile di vita dipende dalla qualità della cittadinanza. Aristotele non si sforza di nasconderlo. La politica demografica, per lui, non è secondaria, ma fondamentale. “Il fattore primo necessario, nell’equipaggiamento di una città, è il materiale umano”, insiste. Ciò significa che lo statista deve considerare sia la qualità che la quantità di coloro che compongono il corpo politico. La città non è definita dai suoi confini o dalle sue istituzioni, ma dalla natura delle persone che la sostengono: un popolo legato dal sangue, animato dalla ragione e orientato al benessere. I suoi limiti non sono tracciati dalla burocrazia, ma dalla parentela, dalla virtù e dalla capacità di eccellere civicamente.

La cittadinanza, quindi, deve basarsi sulla discendenza. Aristotele afferma ciò che il mondo antico dava per scontato: cittadino è chi nasce da genitori cittadini, spesso nel corso di più generazioni. I fondamenti biologici della polis si riflettono nei suoi rituali, nelle sue leggi matrimoniali e nella sua struttura di governo. La città è, in sostanza, una famiglia allargata. Le leggi esistono non per equiparare gli individui, ma per preservare nel tempo la forma ereditata di un popolo. La naturalizzazione, quando avviene, è rara e deliberata: un atto di politica, non di sentimento.

Questo quadro dà origine a una visione profondamente aristotelica della riproduzione: non come una decisione privata, ma come una responsabilità pubblica. Uomini e donne, sostiene, “rendono un servizio pubblico mettendo al mondo figli” [16] e questo servizio deve essere allineato alle esigenze della città. Aristotele prescrive l’età ideale per il matrimonio: trentasette anni per gli uomini, diciotto per le donne, e mette in guardia contro il declino fisico e morale che deriva da scelte sbagliate o negligenza. Anche le donne incinte devono mantenere forza e disciplina, poiché riteneva che la salute della madre influenzasse direttamente il nascituro [17]. Il corpo stesso diventa luogo di dovere civico.

Aristotele non si sottrae alle implicazioni più dure di questa posizione. Approva i divieti legali contro l’educazione di bambini deformi [18]. Una posizione ampiamente accettata nel mondo greco. Questa non era considerata crudeltà, ma prudenza: un modo per garantire la solidità a lungo termine della città impedendo l’ascesa di una popolazione dipendente e inadatta. Anche la sovrappopolazione non era vista come un problema astratto, ma come una minaccia diretta all’ordine sociale. Troppi figli potevano portare a povertà, instabilità di classe e decadenza civica. “La regolamentazione della quantità di proprietà dovrebbe essere accompagnata dalla regolamentazione del numero di figli in famiglia” [19]. La famiglia e la città devono essere governate dallo stesso principio: ordine misurato e orientato all’eccellenza.

La riproduzione, quindi, è inseparabile dal diritto. Il legislatore non è un semplice amministratore. È un artefice che plasma la sostanza stessa della città: le sue virtù, la sua demografia, la sua continuità. Che tipo di persone conterrà la città e quali virtù dovrà incarnare? Queste non sono domande marginali per Aristotele. Sono l’essenza della vita politica.

Questo è il cuore della sua visione biopolitica. Lo Stato non esiste per proteggere le preferenze di individui atomizzati, ma per formare e preservare un popolo degno di autogovernarsi. Il suo scopo non è la libertà come la intende la modernità, definita da autonomia, scelta e diritti, ma la responsabilità, l’eccellenza e la perseveranza del nobile. Il compito politico più alto non è quello di garantire la libertà, ma di coltivare la grandezza nelle anime di un popolo unito da ascendenza, dalla legge e dalla memoria.

IV. La fragilità dell’ordine: diversità, decadenza e perdita della polis Aristotele, come Platone prima di lui, comprese che le minacce più gravi all’ordine politico non derivano dall’invasione straniera, ma dal decadimento interno. La virtù si erode. I legami ancestrali si indeboliscono. Gli elementi stranieri, una volta ammessi senza assimilazione, destabilizzano l’anima stessa della città. La polis, sebbene radicata nella forza, non è mai immune alla corruzione. Nell’analisi di Aristotele, il declino inizia spesso con l’ampliamento incurante della cittadinanza, l’ascesa delle fazioni e la seducente promessa di un’uguaglianza slegata dalla natura.

Al centro del suo monito c’è un principio semplice: la solidarietà richiede somiglianza. “Ogni differenza”, scrive, “è destinata a creare una divisione” [20]. La polis era più di una struttura politica. Era una cultura condivisa, un ordine di parentela fondato sul sangue, sulla lingua e sul culto. Quando questa coesione veniva interrotta dall’immigrazione di massa, dal dominio straniero o da manipolazioni tiranniche, ne conseguiva inevitabilmente il conflitto. Aristotele racconta, con precisione empirica, come le città cadessero in stasi o in guerra civile dopo aver accolto stranieri. “Una città non può essere costituita da un insieme casuale di persone”, osserva, “o in un periodo di tempo casuale” [21]. L’identità civica non è un’etichetta burocratica. È un’eredità.

I tiranni lo sanno bene. A differenza dei cittadini, gli stranieri non hanno alcun legame con i miti fondativi, le leggi o i culti ancestrali della città. Sono strumenti del potere, non membri di un organismo politico. “I re sono protetti dalle armi dei loro sudditi”, scrive Aristotele, “i tiranni da una forza straniera” [22]. Il tiranno teme il cittadino, portatore di memoria e orgoglio. Per governare senza che gli sia opposta resistenza, deve recidere quei legami: sciogliere le tribù, mettere a tacere i riti ancestrali, concedere il diritto di voto allo straniero e indebolire la famiglia. “Ogni stratagemma”, ammonisce Aristotele, “dovrà essere impiegato [dal tiranno] per far sì che tutti i cittadini si mescolino il più possibile e per spezzare le loro antiche lealtà” [23]. In questo convergono le tirannie e le democrazie radicali.

Aristotele non rifiuta il governo costituzionale. Al contrario, elogia la politeia, il regime misto, come il più equilibrato e duraturo. Ma quando la democrazia cessa di servire il bene comune e inizia a soddisfare appetiti vili, mina le sue stesse fondamenta. “Esiste una falsa concezione della libertà”, scrive, “il cui risultato è che in queste democrazie estreme, ogni individuo vive come vuole” [24]. Questa non è libertà in senso classico, vincolata alla legge e alla virtù. È licenza: libertà senza forma, autonomia senza obblighi. Recide i legami naturali tra uomo e uomo, padre e figlio, cittadino e città. È la fine del politico.

Questa discesa nella decadenza non è casuale. La prosperità può essere più corrosiva delle difficoltà. “Gli uomini sono facilmente viziati”, ammonisce Aristotele, “e non tutti sopportano la prosperità” [25]. Rivolge particolare attenzione a Sparta. Vittoriosa in guerra, decadde in pace. La ricchezza indebolì la disciplina. Le donne, non vincolate dalla legge, acquisirono un’influenza sproporzionata. L’etica marziale cedette il passo alla mollezza, e ne seguirono divisioni interne. La lezione è chiara: la legge non può salvare un popolo che non sa più governarsi da solo.

Atene offre un caso simile. Dopo l’espulsione dei tiranni, Clistene arruolò stranieri e persino schiavi nelle tribù civiche [26]. Queste riforme, volte a consolidare il potere popolare, dissolsero i fondamenti ereditati dell’identità civica. Quando tutte le distinzioni, di nascita, di virtù, di lealtà, vengono cancellate in nome dell’uguaglianza, il risultato non è armonia, ma caos. “La giustizia”, ​​scrive Aristotele, “si presume consista nell’uguaglianza e l’uguaglianza nel considerare sovrana la volontà delle masse… questa è una concezione meschina. Vivere secondo le regole della costituzione non dovrebbe essere considerato schiavitù, ma piuttosto salvezza” [27]. La vera libertà non è l’assenza di limiti, ma la vita all’interno di un ordine giusto e naturale.

Il declino della polis inizia quando la sua natura viene dimenticata. Una città non è una folla o un mercato. Non è un palcoscenico per l’opinione pubblica o un luogo di consumi. È una forma sacra, plasmata dalla disciplina, dalla memoria e da una discendenza comune. Deve essere custodita non solo da eserciti e tribunali, ma anche da leggi, usanze e rispetto per i defunti. Una volta spezzati questi legami, una volta che i cittadini dimenticano chi sono e perché esistono, la città diventa un guscio vuoto. Perde la sua anima e diventa vulnerabile, sia alla tirannia interna che all’assorbimento da parte di un impero esterno.

V. Il legislatore e la rinascita dell’ordine Se la polis è un corpo vivente, ordinato dalla natura e sostenuto dalla parentela, allora il suo rinnovamento non avviene attraverso le riforme, ma attraverso la memoria. Per Aristotele, la speranza in un’epoca di declino non è la partecipazione di massa o una rivoluzione ideologica, ma l’emergere di un nomothetēs, un legislatore capace di ristabilire l’ordine sulle sue giuste fondamenta. In questa visione, il diritto non è né uno strumento burocratico né un consenso mutevole. È un’eredità sacra, una struttura progettata per coltivare la virtù attraverso le generazioni. Ciononostante, il diritto non può prevedere ogni cosa. “È abbastanza facile creare teorie su tali questioni”, ammette Aristotele. “Ciò che accade realmente dipende dal caso” [28].

Il legislatore deve quindi comprendere i limiti del governo. Alcuni uomini trascendono la legge non per sfida, ma per eccellenza. Come i re omerici e i fondatori di città, incarnano l’ordine stesso da cui nasce la legge: natura, ragione e virtù. “Non può esserci legge che governi persone di questo tipo”, scrive Aristotele. “Sono una legge in sé” [29]. Tali uomini non violano la giustizia ponendosi al di sopra delle regole convenzionali. Ne rivelano l’origine nella gerarchia e nella misura.

Eppure Aristotele non abbraccia il dispotismo. Il suo ideale è la politeia, una costituzione mista ancorata al diritto, temperata dall’aristocrazia e sostenuta da una virtuosa classe media. Questi non sono cittadini passivi. Sono padri, agricoltori, guerrieri e giudici. Detengono proprietà non per soddisfare i propri appetiti, ma per adempiere al dovere. La loro libertà non è la licenza di agire senza restrizioni, ma la capacità acquisita di partecipare alla vita della città. La politeia esprime la naturale gerarchia di capacità e carattere, ordinata all’eccellenza e alla conservazione.

Questo ordine dipende dall’istruzione e dalla memoria. “Anche il sistema educativo deve essere uno e uguale per tutti”, insiste Aristotele, “e l’erogazione di questo sistema deve essere una questione di azione pubblica” [30]. L’istruzione non è privata e il cittadino non appartiene a sé stesso. Come un padre cresce il figlio perché ereditino un nome e una famiglia, così la città deve crescere i suoi giovani perché ne ereditino le leggi, lo spirito e lo scopo. Ciò che viene tramandato non è solo conoscenza, ma anima. Questa non è tirannia. È tradizione resa consapevole e sostenuta dalla legge.

Eppure la virtù è fragile. Non prospera in ogni condizione. La prosperità invita all’arroganza. La pace invita alla debolezza. Aristotele mette in guardia dal costante desiderio di innovazione, riconoscendo che la novità spesso nasconde il decadimento. “La guerra impone automaticamente temperanza e giustizia”, ​​scrive. “Il godimento della prosperità… è più incline a rendere le persone prepotenti” [31]. Un regime stabile richiede più della semplice legge. Richiede rispetto per i culti ancestrali, i principi fondanti e il ritmo vitale che lega i vivi ai morti. Senza tale rispetto, anche la costituzione meglio costruita crolla nel vuoto.

In questo senso, la Politica di Aristotele non è semplicemente descrittiva. È prescrittiva. Dà voce all’istinto più profondo della civiltà ellenica: che la città non esiste per il commercio o il piacere, ma per l’aretē, il pieno sviluppo dell’eccellenza umana. Il legislatore deve legiferare non per l’uomo in astratto, ma per questo popolo, su questa terra, con queste memorie. Se avrà successo, le sue leggi dureranno non come decreti statici, ma come tradizione vivente, incarnata nel carattere, nelle abitudini e nella lealtà di coloro che le ereditano.

Questo è ciò che Nietzsche vide e lodò nei Greci: l’anima aristocratica di un popolo che si rifiutava di dissolversi in un’umanità astratta. Onoravano la forza, la bellezza, il coraggio e la saggezza non come simboli, ma come espressioni di uno spirito vivo che resisteva al declino. Sapevano che l’uomo non prospera nell’isolamento, ma in una forma che disciplina il desiderio e lo incanala verso la grandezza. La civiltà non era una massa informe, ma un’unità organica, sostenuta dal sacrificio e dalla legge.

Da Omero a Licurgo, dai riti domestici alle dottrine della Politica, il mondo greco offre più di un’eredità intellettuale. Offre un modello politico e biologico per la resistenza. Rifiutò l’egualitarismo e l’universalismo in favore di una visione radicata, esclusiva e sacra. Nel suo cuore, era biopolitico.

Recuperare questo spirito non significa imitarne le forme esteriori, ma ricordarne l’essenza e proiettarla nel futuro. Il mondo che verrà non apparterrà a coloro che predicano la tolleranza, né a coloro che confidano in tecnologie astratte. Apparterrà a coloro che ricordano chi sono e che possiedono la volontà di vivere, di perseverare e di moltiplicarsi nella fedeltà ai propri antenati e nel dovere verso i propri discendenti.

Aristotele non offre promesse di progresso. Si rivolge alle dure leggi della vita. La città non è una macchina. È un ordine vivente, plasmato dalla memoria, radicato nel sangue ed elevato dalla virtù. Il compito dell’uomo di Stato è preservare quell’ordine attraverso leggi sagge, un’educazione condivisa e la continua coltivazione dell’eccellenza, affinché la città possa durare non nell’agio, ma nella grandezza.

  1. Michel Foucault, Storia della sessualità, Volume 1: Introduzione , trad. di Robert Hurley (New York: Vintage Books, 1990), in particolare la Parte Quinta: “Diritto di morte e potere sulla vita”.
  2. Erodoto, Le Storie, trad. di Aubrey de Sélincourt (Londra: Penguin Books, 2003), 8.144.
  3. Aristotele, Politica, trad. di Carnes Lord (Chicago: University of Chicago Press, 2013), 1252b27–30.
  4. Ivi , 1253a2.
  5. Ivi , 1325b33.
  6. Ivi , 1275b22.
  7. Ivi , 1274b38.
  8. Aristotele, Retorica, trad. di W. Rhys Roberts (New York: Modern Library, 1954), 1366a31.
  9. Aristotele, Politica, 1260b8.
  10. Ivi , 1288a15.
  11. Ivi , 1280b29.
  12. Aristotele, Etica Nicomachea, trad. di Terence Irwin (Indianapolis: Hackett Publishing, 2019), 8.12, 1161b28.
  13. Aristotele, Politica, trad. di Carnes Lord, 1303a13.
  14. Ivi , 1285a16.
  15. Ivi , 1337a11.
  16. Ivi , 1335b26.
  17. Ivi , 1335b11.
  18. Ivi , 1335b19.
  19. Ivi , 1266a31.
  20. Ivi , 1303b7.
  21. Ivi , 1303a13.
  22. Ivi , 1285a16.
  23. Ivi , 1319b19.
  24. Ivi , 1310a12.
  25. Ivi , 1308b10.
  26. Ivi , 1275b34.
  27. Ivi , 1310a12.
  28. Ivi , 1331b18.
  29. Ivi , 1284a3.
  30. Ivi , 1337a21.
  31. Ivi , 1334a11.

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