
Chad Crowley, chadcrowley.substack.com, 3 giugno 2025 — Traduzione a cura di old Hunter
Nota dell’autore
Questo saggio è apparso originariamente a puntate su X, dove è stato pubblicato come topic per raggiungere un pubblico più ampio. Per motivi di chiarezza, coerenza e accessibilità a lungo termine, viene ora presentato qui integralmente. Pur rimanendo suddiviso nelle sue sezioni originali, è stato leggermente modificato per migliorarne la fluidità, il ritmo e la formattazione. Non sono state apportate modifiche sostanziali.
Quello che segue è sia una guida alla lettura che un intervento polemico: un resoconto strutturato dei libri e delle argomentazioni che si confrontano con la mitologia ufficiale della Seconda Guerra Mondiale e con la sua persistente autorità morale sull’Occidente moderno. Non si tratta di speculazioni marginali o provocazioni anticonformiste, bensì di serie opere di erudizione storica che sono state ignorate, respinte o soppresse perché mettono in discussione la narrazione teologica della cosiddetta “Buona Guerra” . L’obiettivo non è difendere ogni decisione dell’epoca, ma denunciare le distorsioni ideologiche che hanno trasformato una tragica catastrofe geopolitica in una giustificazione permanente per il declino della civiltà occidentale.
Questa selezione di libri si concentra specificamente sulle origini europee del conflitto, con particolare attenzione alla responsabilità britannica e agli errori diplomatici. La prossima settimana mi concentrerò sul ruolo americano: il suo percorso verso la guerra, le azioni dell’amministrazione Roosevelt e le persistenti controversie che circondano Pearl Harbor.

Unnecessary War di Patrick J. Buchanan
Traduzione: Attorno a noi possiamo vedere chiaramente che l’Occidente sta scomparendo. In un solo secolo sono cadute tutte le grandi casate dell’Europa continentale. Tutti gli imperi che dominavano il mondo sono scomparsi. Nessuna nazione europea, tranne l’Albania musulmana, ha un tasso di natalità che le consenta di sopravvivere per tutto il secolo. Come percentuale della popolazione mondiale, i popoli di origine europea si stanno riducendo da tre generazioni. Il carattere di ogni nazione occidentale si sta alterando irrimediabilmente, mentre ognuna subisce un’invasione senza resistenza da parte del Terzo Mondo. Stiamo lentamente scomparendo dalla Terra. Avendo perso la volontà di governare, l’uomo occidentale sembra perdere la volontà di vivere come civiltà unica, mentre si abbandona febbrilmente alla Dolce Vita, con una sbadigliante indifferenza nei confronti di chi potrebbe ereditare la Terra che un tempo governava.
Mentre sempre più persone si rendono conto che il ventesimo secolo non è stato un cammino verso una fine utopica della storia, bensì un’illusione attentamente gestita, la narrazione ufficiale inizia a sgretolarsi.
Sotto il suo aspetto patinato si cela un ricordo non di chiarezza morale, ma di inganno, tradimento e catastrofe orchestrata. Tra queste illusioni, nessuna è più sacrosanta, difesa con più zelo del mito della Seconda Guerra Mondiale, la cosiddetta Guerra Buona.
Ma cosa ha veramente ottenuto quella Buona Guerra? Per usare le parole di Patrick J. Buchanan, la cui riflessione è riportata sopra, la Seconda Guerra Mondiale ha spento le ultime braci dell’ascesa dell’Occidente. Tutte le grandi casate dell’Europa continentale sono cadute. Gli imperi che un tempo governavano il mondo sono scomparsi. I tassi di natalità sono crollati. I popoli di origine europea sono in declino demografico da generazioni. La fiducia spirituale che un tempo guidava l’Occidente è stata sostituita dalla stanchezza e dalla diseredazione. Gli Alleati possono aver vinto sul campo di battaglia, ma la civiltà che affermavano di difendere non è sopravvissuta alla vittoria.
Con questo in mente, diventa più facile capire perché un corpus di opere storiche così importante sia emerso dopo il 1945 e sia stato immediatamente sottoposto a soppressione, censura e denuncia. Questi libri, scritti da generali, diplomatici, giornalisti, disertori e storici indipendenti, sfidano ogni sacro presupposto della narrazione ufficiale.
Per decenni, sono stati sepolti o screditati da una potente alleanza di monopoli dei media, controllori del mondo accademico ed élite dominanti, le cui istituzioni erano guidate da una vasta gamma di interessi finanziari, politici ed etnici, spesso convergenti nella comune determinazione di preservare il mito della Buona Guerra.
Solo con l’avvento dei social media e l’indebolimento della presa delle strutture di potere tradizionali, questa storiografia alternativa ha iniziato a raggiungere un pubblico più ampio. La sua rinascita non è casuale. Riflette il lento crollo del consenso ideologico che un tempo rendeva impensabile il dissenso.
Per comprendere la mitologia ideologicamente radicata della cosiddetta “Guerra Buona” , dobbiamo rivolgerci ai libri che hanno osato sfidarla. Nelle righe qui sotto, esamino opere che tracciano le origini del conflitto in Europa e le scelte politiche compiute in Gran Bretagna, che hanno trasformato una disputa regionale in una catastrofe globale, plasmando la traiettoria e il carattere di un mondo occidentale ora visibilmente in declino.

La prima seria frattura nell’ortodossia che circondava la Seconda Guerra Mondiale non venne da uno scrittore dissidente o da un radicale politico, ma dall’interno stesso dell’establishment accademico britannico. In “The Origins of the Second World War”, pubblicato nel 1961, AJP Taylor, allora lo storico più letto in Gran Bretagna, offrì un resoconto meticoloso e documentato che contraddiceva quasi ogni giustificazione morale e strategica utilizzata per spiegare lo scoppio della guerra nel 1939.
Taylor non scriveva come una sorta di ideologo di parte. Era un liberale, un ex sostenitore della Società delle Nazioni e un fervente oppositore del fascismo. Eppure, le sue ricerche lo portarono a una conclusione profondamente scomoda: che Hitler non pianificò una guerra mondiale, che spesso improvvisava e si mostrava opportunista, e che la strada verso la guerra era stata in gran parte lastricata da errori diplomatici e deliberati errori di valutazione a Londra e Parigi.
La tesi di Taylor minava direttamente l’interpretazione della storia da Norimberga Eterna che aveva finito per dominare la vita pubblica anglo-americana: l’idea che la guerra fosse il risultato di una premeditata e diabolicamente malvagia cospirazione. Inoltre, Taylor dimostrò che gli obiettivi di Hitler, in particolare dal 1933 al 1939, non erano significativamente diversi da quelli dei precedenti statisti tedeschi: l’annullamento di Versailles, il recupero dei territori perduti e la reintegrazione dei tedeschi bloccati in stati stranieri a causa degli accordi di confine del dopoguerra. Le prove di tutto questo risiedevano negli archivi stessi. Taylor studiò attentamente memorandum interni tedeschi, verbali di riunioni di gabinetto e telegrammi diplomatici, senza trovare alcun piano coerente a lungo termine per la conquista del mondo.
Al contrario, dimostrò che le decisioni di Hitler erano spesso prese tardivamente, soggette a cambiamenti e reattive alle mosse di altre potenze. Ad esempio, la rimilitarizzazione della Renania nel marzo 1936 fu condotta con meno di 30.000 soldati leggermente armati, molti dei quali avevano ricevuto l’ordine di ritirarsi al primo segno di resistenza francese. Hitler accettò quella scommessa solo dopo essersi assicurato che le potenze occidentali fossero distratte e restie ad agire. Analogamente, l’Anschluss con l’Austria nel 1938 non fu imposta da un’invasione militare, ma accolta con favore da vaste folle e organizzata con la collaborazione di fazioni filo-tedesche all’interno della stessa Austria.
Taylor sosteneva che la crisi finale si verificò nel marzo del 1939, non a causa dell’aggressione crescente di Hitler, ma a causa dell’insolita e mal calcolata garanzia offerta dalla Gran Bretagna alla Polonia. Questa mossa, presa in risposta all’annessione da parte della Germania dei restanti territori cechi dopo il crollo di Praga, impegnava la Gran Bretagna a difendere i confini della Polonia, confini che erano stati tracciati arbitrariamente dal Trattato di Versailles e che includevano milioni di tedeschi sotto dominio straniero, in particolare nel cosiddetto Corridoio Polacco e nella Città Libera di Danzica. Taylor sottolineava che la Germania aveva avanzato ripetute proposte di negoziazione su Danzica, tra cui l’autonomia sotto la protezione tedesca e la costruzione di un collegamento stradale e ferroviario tra la Prussia Orientale e il Reich. La Polonia rifiutò ogni apertura, contando sul sostegno britannico. La Gran Bretagna, a sua volta, offrì un assegno in bianco che non aveva né l’intenzione né la capacità militare di onorare, e che di fatto pose fine a ogni speranza di una soluzione pacifica.
Una delle rivelazioni più sorprendenti di Taylor fu che Hitler non si aspettava che la Gran Bretagna dichiarasse guerra per la Polonia e che il suo staff aveva elaborato una serie di piani alternativi che includevano colloqui prolungati, commissioni congiunte e garanzie dei diritti delle minoranze. Taylor osservò che Hitler non ordinò la mobilitazione totale né riportò l’economia su un piede di guerra nel 1939. La Wehrmacht stessa era impreparata a ostilità prolungate. La decisione di invadere la Polonia non faceva parte di un disegno globale, ma una risposta a una situazione di stallo locale, resa inconciliabile dalle garanzie britanniche.
In modo analogo, dimostrò anche come la Francia, paralizzata dalle divisioni interne e dall’instabilità politica, avesse sostanzialmente seguito l’esempio della Gran Bretagna, pur avendo ben meno interesse strategico nell’Europa orientale. Il dramma diplomatico non fu quello di un’acquiescenza incapace di contenere l’aggressione, ma di ultimatum incompatibili, atteggiamenti nazionalisti e una diplomazia bluff che si rivelò letale.
La reazione accademica e politica al libro di Taylor fu rapida e punitiva. Sebbene scritto in tono sobrio e basato interamente su documenti governativi pubblicamente accessibili, l’opera fu denunciata come irresponsabile, pericolosa e persino traditrice. Taylor perse incarichi editoriali e impegni come oratore. La sua reputazione pubblica ne fu danneggiata e i principali organi di stampa tentarono di presentarlo come un simpatizzante di Hitler, nonostante la sua lunga storia di “anti-totalitarismo”. Eppure il libro non poteva essere liquidato a priori. La sua prosa era lucida, il suo ragionamento meticoloso e le sue prove tratte interamente dagli archivi ufficiali di Gran Bretagna, Francia e Germania.
Rifiutandosi di mitizzare la guerra e trattandola invece come il tragico risultato di una diplomazia fallita e di alleanze mal valutate, Taylor ha restituito alla storia il suo vero terreno: una testimonianza umana di scelte, errori e conseguenze. Ha dimostrato che la guerra non era una necessità morale, ma una catastrofe politica, che si sarebbe potuta evitare se i leader europei avessero agito con prudenza anziché con orgoglio. Il suo libro rimane una pietra miliare, non per ciò che dice su Hitler, ma per ciò che denuncia sulle democrazie che sostenevano di opporsi a lui.

Se AJP Taylor riaprì la questione di chi volesse la guerra, Gerd Schultze-Rhonhof ampliò il dossier. Ex generale della Bundeswehr e storico militare, Schultze-Rhonhof portò sul tavolo ciò che mancava a Taylor: la padronanza delle fonti primarie tedesche, una conoscenza approfondita della strategia militare e l’accesso a materiali ignorati o soppressi nel mondo accademico occidentale. In 1939: The War That Had Many Fathers, offrì una delle ricostruzioni cronologiche più esaustive degli anni che precedettero la Seconda Guerra Mondiale, basando le sue conclusioni non su polemiche ma su documenti di stato, registri giornalistici, corrispondenza diplomatica e archivi ufficiali.
La sua tesi centrale era cruda ma attentamente costruita: la guerra non fu un singolo atto di aggressione tedesca, ma il culmine di complesse e deliberate provocazioni da parte di molteplici stati, con Gran Bretagna, Polonia e persino Stati Uniti che giocarono un ruolo più attivo nel provocare il conflitto finale di quanto comunemente riconosciuto. Schultze-Rhonhof dimostrò che, lungi dal pianificare una guerra di conquista, la politica estera di Hitler per gran parte degli anni ’30 rimase cauta, reattiva e di portata limitata. Fino alla fine del 1938, la strategia del governo tedesco si concentrò prevalentemente sulla revisione dei confini di Versailles, soprattutto nelle regioni con nette maggioranze etniche tedesche, evitando al contempo qualsiasi confronto con le potenze occidentali.
Una parte importante del libro è dedicata all’intransigenza del governo polacco durante la crisi di Danzica. Schultze-Rhonhof documentò come la Polonia, sotto la guida del maresciallo Edward Rydz-Śmigły e del ministro degli Esteri Józef Beck, respinse ogni singola proposta tedesca, comprese quelle estremamente moderate che avrebbero restituito Danzica alla Germania, preservando al contempo l’accesso polacco al mare e la piena autonomia economica nel corridoio. Hitler offrì persino la supervisione internazionale del corridoio ferroviario e garantì la sovranità polacca altrove. Queste proposte non erano vaghe o informali; furono trasmesse ripetutamente attraverso i canali diplomatici e supportate da memorandum dettagliati. Eppure la Polonia, contando sulla garanzia anglo-francese, rifiutò ogni negoziato.
L’autore ha anche posto grande enfasi sul ruolo dell’esercito polacco nell’escalation delle tensioni. Dall’inizio del 1939 in poi, le forze polacche si mobilitarono lungo il confine tedesco, conducendo incursioni in territorio tedesco e perseguitando la popolazione di etnia tedesca nelle aree controllate dai polacchi. Schultze-Rhonhof citò decine di casi documentati di violenza fisica, confisca di proprietà e pogrom locali contro i tedeschi nei mesi precedenti l’invasione, atti ampiamente ignorati dai media britannici all’epoca. L’invasione tedesca, sosteneva, non avvenne in modo casuale, ma come risposta all’escalation delle ostilità e alla totale impasse diplomatica creata dalla fiducia polacca nel sostegno britannico.
Forse il fatto più controverso è che il libro classificava il comportamento anglo-francese durante l’estate del 1939, sostenendo che la garanzia di guerra data dalla Gran Bretagna alla Polonia a marzo non fosse stata data per preservare la pace, ma per garantire che la Germania rimanesse intrappolata in una guerra su due fronti. Secondo i documenti citati da Schultze-Rhonhof, il governo britannico sapeva di non avere mezzi per proiettare la propria potenza a est della Francia, eppure dichiarò un impegno che non poteva né far rispettare né revocare. Invece di scoraggiare Hitler, questa garanzia incoraggiò la Polonia e rimosse ogni incentivo a negoziare. Contemporaneamente, sia la Gran Bretagna che la Francia aumentarono la pressione sull’Unione Sovietica per un’alleanza militare, che portò al Patto Molotov-Ribbentrop solo dopo il fallimento delle aperture occidentali.
In termini di struttura, il libro di Schultze-Rhonhof è metodico. Inizia nei primi anni ’30 e segue cronologicamente la politica estera di ciascuna nazione – Germania, Francia, Gran Bretagna, Polonia, Unione Sovietica e Stati Uniti – trattandole come partecipanti attivi piuttosto che come osservatori passivi. L’autore ha evidenziato eventi meno noti come gli scontri tra Cecoslovacchia e Polonia, le ambizioni territoriali polacche in Cecoslovacchia dopo Monaco e l’istigazione francese contro la Germania nell’Europa orientale. La sua tesi era che la politica britannica fosse passata dall’acquiescenza alla provocazione non in risposta all’aggressione tedesca, ma in conformità con obiettivi geopolitici più profondi e storici, ovvero il contenimento e la distruzione della Germania come potenza continentale.
Sebbene le conclusioni di Schultze-Rhonhof si basassero su documenti pubblicamente accessibili, l’accoglienza del suo libro fu prevedibilmente ostile. I principali editori si rifiutarono di pubblicarlo in inglese. I media tedeschi lo ignorarono o lo diffamarono, nonostante la reputazione dell’autore come rispettato ex generale. I revisori accademici lo liquidarono senza un confronto diretto, basandosi su insinuazioni piuttosto che su confutazioni. Il libro circolò principalmente attraverso piccole case editrici, edizioni tradotte e piattaforme online, mantenuto in vita non dalle istituzioni, ma dai lettori in cerca di una comprensione più approfondita delle origini della guerra.
1939: La guerra che ebbe molti padri non è un esercizio di apologia, ma uno studio lucido della tragica aritmetica di potere, diplomazia e reciproca sfiducia. Il suo messaggio è chiaro: la guerra avrebbe potuto essere evitata. A causarla non fu solo l’ambizione di un uomo, ma la follia combinata di molteplici governi e il trionfo della rigidità sulla ragione.

Mentre la maggior parte delle storie di guerra dipinge Winston Churchill come il salvatore ribelle della civiltà occidentale, Churchill’s War (Vol. 1: The Struggle for Power) di David Irving ne smantella il mito fino alle radici e ricostruisce l’uomo attraverso le sue parole, le sue azioni e i suoi documenti finanziari. Attingendo a diari privati, documenti inediti e archivi declassificati provenienti da Europa e Nord America, Irving ha ripensato Churchill non come il leader riluttante in tempo di guerra, catapultato sulla strada della storia, ma come un emarginato politico calcolatore, desideroso di tornare al potere, che aveva capito che la guerra, soprattutto, poteva restituirgli rilevanza.
Irving documentò dettagliatamente come Churchill, in gran parte escluso dalle cariche politiche dopo la Prima Guerra Mondiale, fosse sempre più emarginato durante gli anni ’30 e dipendesse da finanziamenti privati per sostenere il suo stile di vita sfarzoso. Era un letterato, non uno statista, e dipendeva in larga misura dalle entrate derivanti da rubriche di giornali, diritti d’autore dei libri e tournée di conferenze, molte delle quali sponsorizzate direttamente o indirettamente da gruppi di interesse desiderosi di promuovere il riarmo e il confronto con la Germania. La ricerca di Irving, basata su documenti finanziari inediti di Churchill e sulla corrispondenza riservata, rivelò un sistema di finanziamenti segreti e spesso esteri. Tra questi, il principale fu Sir Henry Strakosch, un magnate minerario ebreo sudafricano che saldò ingenti debiti di Churchill nel 1938. Questo mecenatismo contribuì a mantenere Churchill solvente e si inserì nella sua crescente ostilità verso la Germania, un’ostilità che favoriva gli interessi dei suoi benefattori.
Questa dipendenza finanziaria plasmò la sua politica. Churchill, che un tempo sosteneva la distensione e lodava Mussolini, si dedicò con decisione all’intervento. Irving dimostrò che Churchill sfruttò ogni crisi diplomatica – Abissinia, Spagna, Austria – come palcoscenico teatrale per rilanciare il suo ruolo pubblico. Coltivò i legami con i redattori di Fleet Street, fece trapelare documenti per generare panico sulle intenzioni tedesche e utilizzò il Parlamento per presentarsi come il rivale più accanito di Chamberlain. Nel 1938, Churchill aveva già aperto canali di comunicazione non ufficiali con la cerchia ristretta di Roosevelt, inclusi i rivali dell’ambasciatore Joseph P. Kennedy, e aveva esortato gli Stati Uniti a resistere alla neutralità in Europa. Non si limitava ad attendere una guerra; stava contribuendo a progettarla.
Il titolo di Irving non si riferisce allo scontro tra nazioni, ma alla guerra personale di Churchill per il controllo della politica britannica. La sua ascesa non fu il risultato naturale di una richiesta pubblica, ma il frutto di instancabili manovre private. Quando Chamberlain si dimise nel 1940, fu Churchill, non Lord Halifax, a prendere il potere, soprattutto grazie alla sua immagine coltivata di voce della resistenza e ai suoi rapporti segreti con il partito laburista e con elementi dell’intelligence britannica. Una volta in carica, Churchill respinse ogni offerta di pace tedesca, comprese le molteplici proposte presentate attraverso canali neutrali nel 1940 e nel 1941. Queste includevano il completo ritiro tedesco dall’Europa occidentale, il ripristino della sovranità polacca (esclusa Danzica e il Corridoio) e la garanzia dei possedimenti imperiali britannici. Churchill si rifiutò di prenderle in considerazione. Insisteva sulla vittoria totale e sulla resa incondizionata, sebbene la Gran Bretagna non avesse i mezzi per raggiungere tali obiettivi senza l’intervento americano.
Il libro affronta anche il profilo psicologico di Churchill. Irving include testimonianze di ministri, segretari e medici, dipingendo il ritratto di un uomo il cui giudizio era sempre più incostante. Churchill iniziava ogni giornata con il brandy, proseguiva con il whisky e terminava con lo champagne. Il suo bere non era un atto sociale; era un’abitudine e un’eccessiva abitudine, che portava i segni di un alcolismo clinico. I colleghi del governo commentavano regolarmente la sua incapacità di concentrarsi, i suoi sbalzi d’umore e il suo distacco dalle conseguenze materiali. Allo stesso tempo, si abbandonava alla retorica apocalittica e romanticizzava la guerra come palcoscenico per la grandezza personale. La sua convinzione che la storia lo avrebbe scagionato non era ironica, ma letterale.
Irving raccontò anche la precoce approvazione da parte di Churchill dei bombardamenti terroristici. Già nel 1940, molto prima del Blitz, sostenne l’opportunità di colpire i centri civili tedeschi per indebolire il morale. Incaricò i pianificatori della RAF di massimizzare la distruzione e veniva informato quotidianamente sul tonnellaggio sganciato e sulle vite perse. Questo cambiamento strategico, che prendeva esplicitamente di mira la popolazione civile, rappresentava una rottura con le tradizionali regole di guerra ed era, secondo Irving, una decisione morale di cui Churchill si assumeva la piena responsabilità.
La Guerra di Churchill fu il frutto di un decennio di ricerche d’archivio, che includevano l’accesso a documenti inediti o non disponibili ai precedenti biografi. Non si scusò per Hitler né approvò le politiche della Germania. Piuttosto, si chiedeva se la guerra fosse davvero inevitabile o se fosse stata provocata da un uomo per il quale la guerra offriva salvezza personale.
Sebbene “War” di Churchill non fosse immediatamente così incendiario come il precedente “Hitler’s War” di Irving , ebbe un ruolo significativo nell’accelerare la sua emarginazione negli ambienti accademici e mediatici. Mentre alcuni recensori ne riconobbero la profondità d’archivio e le argomentazioni provocatorie, la sua tesi centrale – che descrive Churchill non come un nobile salvatore dell’Occidente, ma come un opportunista egoista – alimentò i tentativi esistenti di screditarlo. Era già in corso una campagna per rovinare Irving professionalmente, finanziariamente e nella sua reputazione, e quest’opera aggiunse ulteriori munizioni. Mentre le sue ricerche mettevano sempre più in discussione la narrativa sacra della guerra, soprattutto per quanto riguardava le motivazioni britanniche e la condotta degli Alleati, la pressione per metterlo a tacere si intensificò.
La fase più surreale di questa campagna si è svolta durante la causa per diffamazione di alto profilo intentata da Irving contro Deborah Lipstadt e la Penguin Books nei primi anni 2000. Irving la denunciò per la caratterizzazione che Lipstadt aveva fatto di lui come negazionista dell’Olocausto e falsificatore della storia, ma il processo si trasformò in un processo farsa dell’opera della sua vita. A un nutrito team legale fu concesso pieno accesso ai suoi archivi personali. Decine di migliaia di pagine di diari manoscritti, appunti privati e corrispondenza furono citati in giudizio ed esaminati riga per riga, fino a banali note a margine e osservazioni superficiali, in un vasto tentativo di screditarlo. Nonostante questo livello di controllo senza precedenti, fu identificato solo un piccolo numero di errori fattuali, inferiori, in realtà, a quelli riscontrati in molti testi accademici ampiamente accettati. Ciononostante, Irving perse la causa, fallì e pochi anni dopo fu arrestato e imprigionato in Austria per un discorso pronunciato quasi vent’anni prima.
Per inciso, vale la pena dirlo chiaramente: nessun altro storico, forse nell’intera storia della civiltà, ha dovuto affrontare una censura così prolungata e coordinata, una rovina finanziaria, una persecuzione legale, un ostracismo professionale e un esame storico così approfondito come David Irving. All’apice della sua carriera, pubblicò con importanti case editrici, fu invitato a tenere conferenze in tutto il mondo e fu ampiamente elogiato per la sua ineguagliabile abilità archivistica. I suoi primi libri, come “La distruzione di Dresda” e “La guerra di Hitler”, furono un tempo citati in pubblicazioni accademiche e giornalistiche di grande diffusione. Ma quando la sua ricerca iniziò a mettere in discussione i sacri pilastri della memoria della guerra – in particolare la condotta, le motivazioni e la propaganda degli Alleati – fu sistematicamente cancellato dalla vita intellettuale colta.
Qualunque cosa si pensi delle sue conclusioni, la forza istituzionale esercitata contro Irving la dice lunga sulla fragilità della memoria ufficiale. La Guerra di Churchill rimane uno dei resoconti più dettagliati ed esaustivamente documentati dell’entrata della Gran Bretagna nella Seconda Guerra Mondiale. Le sue argomentazioni possono essere contestate, ma le sue fonti rimangono silenti ma inamovibili.

“No More Champagne: Churchill and His Money” di David Lough non è una biografia politica, ma è indispensabile per comprendere Churchill come uomo e come statista. Laddove David Irving ha affrontato l’argomento attraverso archivi privati e documenti di guerra, Lough, egli stesso consulente finanziario e storico, ha ricostruito l’intera vita finanziaria di Churchill utilizzando registri bancari recentemente resi disponibili, registri personali e corrispondenza con commercialisti, broker, editori e amici. Il risultato è uno studio su un uomo che ha vissuto tutta la sua vita adulta sull’orlo della bancarotta e le cui decisioni politiche devono essere considerate alla luce della sua persistente dipendenza finanziaria.
Lough fa risalire l’instabilità fiscale di Churchill ai primi anni del Novecento. Pur essendo nato nell’aristocrazia britannica, Churchill non ereditò né una grande proprietà né una ricchezza stabile. Era un uomo di immensa ambizione e con pochi limiti materiali, che gestiva una grande tenuta di campagna, impiegava segretarie, servitori e personale privato, acquistava abiti eleganti e beni di lusso, cenava sontuosamente e beveva quotidianamente champagne e brandy d’importazione. Tutto ciò non era supportato da un reddito fisso. Churchill dipendeva principalmente dal giornalismo, dagli anticipi sui libri e dalle capacità oratorie, nessuna delle quali era garantita o sufficiente. A metà degli anni ’30, era profondamente indebitato e faceva fatica a sostenere le spese di base per il mantenimento di Chartwell, la sua tenuta nel Kent.
Solo nel 1938, i debiti di Churchill superavano le 18.000 sterline (ben oltre un milione di sterline in termini odierni). Lough documentò non solo gli arretrati con l’Agenzia delle Entrate, ma anche ingenti somme dovute a sarti, vinai, editori, tipografi e vari creditori privati. I suoi agenti letterari ricevettero l’ordine di ottenere il maggior numero possibile di anticipi, spesso per opere che non aveva ancora iniziato. Gli editori di Churchill, a loro volta, furono pressati a erogare pagamenti di emergenza per coprire spese non correlate a nessuna pubblicazione in corso. Scrisse saggi e rubriche di giornale non per ottenere influenza, ma perché ogni contributo era urgentemente necessario per pagare un creditore. La sua solvibilità quotidiana si basava sul credito, sulle dilazioni e sulla benevolenza degli amici.
Quella buona volontà ebbe delle conseguenze. Lough mostrò nei minimi dettagli come la più grave crisi finanziaria di Churchill fu evitata nel 1938, quando Sir Henry Strakosch, un ricco finanziere ebreo ed ex presidente della Union Corporation of South Africa, intervenne per saldare gran parte dei debiti di Churchill. Strakosch non solo saldò i margini di profitto in sospeso di Churchill, ma gli fornì anche ricerche economiche e spunti di riflessione, in particolare sull’espansione industriale della Germania. Molti di questi dati apparvero in seguito, quasi alla lettera, nei discorsi pubblici e negli articoli di stampa di Churchill. Questi interventi non erano noti al pubblico all’epoca. Si trattava di transazioni private tra un uomo in difficoltà e un uomo benestante.
Allo stesso tempo, gli scritti di Churchill sul riarmo tedesco iniziarono a dominare la stampa. Articoli sindacali, spesso pubblicati negli Stati Uniti, sottolineavano il pericolo dell’acquiescenza e l’urgenza della resistenza. Queste rubriche generavano entrate e posizionavano Churchill come la voce morale dell’antinazismo. Lough non sostiene la cospirazione. Presenta le prove con chiarezza: Churchill dipendeva finanziariamente da uomini che avevano ragioni politiche e strategiche per incoraggiare il confronto con la Germania. Il loro sostegno gli permise di mantenere il suo stile di vita e di finanziare il suo ritorno al potere politico.
Le abitudini finanziarie di Churchill rimasero incontrollate. Nonostante le suppliche dei suoi consiglieri di ridurre i costi, riassunte nella nota ormai famosa “Basta champagne”, continuò ad acquistare casse di Pol Roger d’annata, a mantenere uno staff completo e a intrattenere con eccessi. Stipulò polizze assicurative sulla vita per coprire i compensi futuri per le conferenze. Chiese anticipi su libri che non aveva intenzione di completare a breve termine. Chiese prestiti ad altri parlamentari e cercò aiuto da amici aristocratici. I suoi segretari finanziari dedicarono più tempo a rinegoziare i debiti e a proteggerlo dai creditori che a gestire il bilancio.
La narrazione di Lough è equilibrata ma chiara. La resurrezione politica di Churchill coincise direttamente con il periodo di maggiore difficoltà finanziaria. Aveva bisogno di un palcoscenico, e la guerra gliene fornì uno. Aveva bisogno di un reddito, e l’aggressività contro la Germania, sia in Parlamento che sulla stampa, lo rese di nuovo prezioso. I benefattori che contribuirono a salvarlo, come Strakosch, lo fecero in un contesto che non può essere disgiunto dalla politica.
Questo non dimostra un movente. Ma stabilisce una dipendenza. L’immagine pubblica di Churchill come profeta di guerra fu sostenuta, in parte, dai fondi privati di uomini che consideravano il suo ritorno al potere una risorsa strategica. Il suo rifiuto delle aperture di pace tedesche, il suo rifiuto di accettare un accordo negoziato nel 1939 e di nuovo nel 1940, e il suo immediato appello a una guerra di resa incondizionata, vanno tutti letti alla luce di questa situazione finanziaria.
Il libro di Lough non condanna esplicitamente Churchill, ma smantella l’illusione che fosse solo, guidato esclusivamente dai suoi principi. Si trovava invece in una posizione di precarietà finanziaria e di opzioni sempre più limitate. Il successo di Lough sta nell’aver chiarito questo punto senza moralismi.

Una delle sfide più ardue alla mitologia della Seconda Guerra Mondiale non è emersa dai margini, ma dall’interno delle fila del conservatorismo americano mainstream. Churchill, Hitler, and the Unnecessary War di Patrick J. Buchanan è un’estesa accusa alle decisioni che hanno condotto l’Europa alla rovina e l’Occidente al declino definitivo. Pubblicato all’indomani delle disastrose campagne americane in Medio Oriente, il libro funge sia da opera di revisionismo storico sia da monito politico: gli errori che hanno distrutto l’Impero britannico vengono ripetuti dagli Stati Uniti sotto le mentite spoglie dell’internazionalismo liberale.
L’obiettivo principale di Buchanan è smantellare la sacra illusione che la Seconda Guerra Mondiale sia stata una lotta giusta combattuta in nome della libertà universale. Sostiene invece che essa sia stata il prodotto di una serie di errori diplomatici e strategici evitabili – principalmente da parte della Gran Bretagna – iniziati nel 1914 e culminati nella distruzione dell’ordine europeo entro il 1945. La guerra non ha preservato la civiltà. L’ha distrutta. Non ha inaugurato la pace. Ha dato origine al dominio sovietico a Est, all’egemonia americana a Ovest, alla perdita della sovranità imperiale e all’inizio dell’eclissi demografica e spirituale dell’Europa.
Centrale nella sua analisi è la tesi secondo cui la strada verso il disastro non passò attraverso l’acquiescenza, ma attraverso l’hybris [*]. Il Trattato di Versailles, imposto alla Germania nel 1919, è identificato come il crimine originale. Smembrava una grande nazione europea, imponeva riparazioni punitive e violava il principio stesso di autodeterminazione nazionale che gli Alleati avevano invocato per giustificare la guerra. Seminando umiliazione e instabilità, gettò le basi per l’ascesa del radicalismo. Hitler non fu un caso. Fu la conseguenza logica di Versailles e del bigotto rifiuto degli Alleati di rimediare alla sua ingiustizia.
La critica più aspra di Buchanan è rivolta a Winston Churchill, la cui reputazione di difensore della libertà è sottoposta a un esame rigoroso. Ben lungi dall’essere un profeta o uno statista al di sopra della storia, Churchill è presentato come un opportunista, plasmato dall’impero, dalla classe sociale e dall’ambizione personale. La sua carriera pubblica è mostrata segnata non dalla prudenza, ma da una serie di disastri: da Gallipoli e i Black and Tans [**] al fallito gold standard e alle garanzie offerte alla Polonia. Churchill non considerava la Germania semplicemente una minaccia sotto Hitler, ma un perenne rivale geopolitico. La sua determinazione a schiacciarla – a prescindere dalle circostanze, dalla leadership o dalle possibilità di pace – era guidata da una visione di una supremazia britannica che aveva da tempo cessato di rispecchiare la realtà.
Buchanan dedica particolare attenzione all’Accordo di Monaco del 1938. La storiografia convenzionale tratta questo momento come il vergognoso apice dell’acquiescenza. Buchanan non è d’accordo. Lo considera un atto razionale di statista, compiuto da una Gran Bretagna esausta dalla guerra, impreparata a un nuovo conflitto e isolata sulla scena mondiale. L’accordo fece guadagnare tempo per riarmarsi ed evitare il disastro. La vera follia, sostiene, si verificò nel marzo del 1939, quando la Gran Bretagna offrì alla Polonia una garanzia di guerra incondizionata. Questo impegno sconsiderato incoraggiò la Polonia a resistere ai negoziati su Danzica, trasformando una crisi locale in una guerra europea. La Gran Bretagna non aveva alcun interesse vitale nel corridoio polacco. Non aveva mezzi per far rispettare la sua promessa. Il risultato non fu chiarezza morale, ma un suicidio strategico.
La condotta successiva di Churchill non fa che aggravare la tragedia. Rifiutò ogni proposta di pace tedesca, persino quelle avanzate da stati neutrali. Premette per una guerra totale, non solo contro Hitler, ma contro la nazione tedesca. I bombardamenti dei centri civili, il blocco per affamare e la richiesta di resa incondizionata prolungarono inutilmente il conflitto. La sua alleanza con Stalin e la sua acquiescenza alle richieste sovietiche a Teheran e Yalta consegnarono mezza Europa alla tirannia comunista. Lungi dal salvare l’Occidente, Churchill contribuì a smantellarlo. La Gran Bretagna uscì dalla guerra vittoriosa solo di nome: in bancarotta, dipendente dagli aiuti americani e privata del suo impero.
Buchanan estende la lezione. Lo stesso orgoglio e assolutismo morale che animarono la politica bellica di Churchill riappaiono nelle crociate americane del dopoguerra. Corea, Vietnam, Iraq, Ucraina, ognuna è giustificata da appelli alla “democrazia” e alla “libertà”. Ognuna ignora i limiti, respinge la diplomazia e pretende la vittoria totale. Il risultato strategico è sempre lo stesso: instabilità all’estero, declino in patria e l’erosione della stessa civiltà che queste guerre pretendono di difendere. La Guerra Fredda, secondo Buchanan, non fu un trionfo dell’Occidente, ma l’estensione della stessa tragedia, ora istituzionalizzata.
Churchill, Hitler, and the Unnecessary War non è un tentativo di scaricare le colpe o di assolvere, ma di affrontare la storia della Seconda Guerra Mondiale senza illusioni. Richiede di esaminare le cause, le decisioni e le conseguenze del conflitto con sobrietà, piuttosto che con sentimentalismo. La guerra, così spesso descritta come l’apice della chiarezza morale, appare, secondo l’analisi di Buchanan, come un disastro di civiltà, le cui conseguenze hanno distrutto l’Europa, rafforzato i suoi nemici e accelerato il declino dell’Occidente. Il suo libro è un’opera di rara sfida: uno statista disposto a sfidare il mito più sacro dell’era moderna in nome della verità, e nella speranza che tali errori non si ripetano.
* Hybris, presso gli antichi Greci, l’orgogliosa tracotanza che porta l’uomo a presumere della propria potenza e fortuna e a ribellarsi contro l’ordine costituito, sia divino che umano, immancabilmente seguita dalla vendetta o punizione divina.
** I Black and Tans, ufficialmente designati come Royal Irish Constabulary Special Reserve, furono un’unità ausiliaria della Royal Irish Constabulary (RIC) istituita nel 1920 durante la guerra di indipendenza irlandese, per iniziativa di Winston Churchill (all’epoca Segretario di Stato per la guerra), oltre che di John French e Frederick Shaw. Reclutati principalmente tra gli ex soldati britannici che avevano combattuto durante la prima guerra mondiale, ottennero il loro soprannome (in italiano “nero e beige“) a causa delle uniformi improvvisate spesso costituite da un misto di verde scuro del RIC e di color cachi dell’esercito britannico. Nei due anni di attività, fino al 1922, i Black and Tans operarono contro le forze dell’Irish Republican Army nell’ambito della guerra d’indipendenza irlandese, e divennero famigerati a causa delle esecuzioni sommarie e delle azioni particolarmente violente prese contro i rivoltosi irlandesi. Wikipedia