In occasione della riapertura delle scuole, portiamo all’attenzione dei lettori un importante articolo di Fabio Bentivoglio, filosofo e saggista, apparso su l’Indipendenza, n. 58, luglio – agosto 2024. Ringraziamo l’autore, l’editore e Michele Maggino.

La scuola fascista” è il titolo di un saggio a cura di Gianluca Gabrielli e Davide Montino, pubblicato da Ombre corte nel 2009, organizzato in trentotto voci redatte da dodici ricercatori, incentrato su un’analisi a largo spettro delle fonti materiali, che si intreccia con una riflessione critica di spessore. Sono oggetto di esame gli elaborati scolastici, Befana fascista, arredi e decorazioni scolastiche, registri di classe, quaderni, libri di testo e altro. L’indagine – si legge nella quarta di copertina – si sviluppa da un lato attorno agli elementi istituzionali e organizzativi che caratterizzarono gli interventi del fascismo, dall’altro attorno alla cultura materiale della scuola del ventennio, che si modificò e subì fortissime torsioni sotto una spinta volta all’indottrinamento e alla socializzazione politica delle nuove generazioni.

Bene. Si metta in parallelo quanto emerge da questo testo circa gli interventi capillari del regime in ambito scolastico, con quanto prevede il decreto ministeriale “Piano Scuola 4.0” varato dal governo Draghi il 14 giugno 2022, in merito a istruzione e ricerca 1. Si tratta di verificare se, al di là, ovviamente, della diversità degli specifici contenuti delle prescrizioni imposte, esista una matrice comune tra il progetto di scuola del regime e il progetto della Scuola 4.0: una matrice comune riconducibile a due diverse declinazioni del totalitarismo, quello novecentesco, declinato sul piano politico, e quello contemporaneo, declinato sul piano tecno-aziendale.

Per chiarezza: in sede storica la categoria di totalitarismo indica la riduzione delle molteplici istituzioni e delle molteplici sfere di attività proprie di una società moderna ad una totalità unitaria che obbedisce ad un’unica logica di funzionamento, tale da non ammettere criteri di giudizio e scelte operative difformi da quelle prescritte. Scrive in merito Massimo Bontempelli: «Mentre un regime semplicemente reazionario non indottrina né secolarizza le masse popolari, un regime fascista le indottrina attraverso la radio, il cinema, la scuola, la stampa… per portarle ad agire dentro il sistema politico. Da questo punto di vista il fascismo appartiene al processo di modernizzazione del XX secolo, in quanto costituisce, in alcuni paesi, il passaggio da un regime oligarchico e notabiliare a un regime di massa» 2.

Quando si evoca il totalitarismo con riferimento alle esperienze storiche del Novecento, siamo certi di condividere, anche con il senso comune, il riconoscimento della violenza, della sopraffazione e della violazione dei fondamenti stessi della libertà, e ben altro, propria dei totalitarismi.

Diverso è l’atteggiamento quando si evoca (e si argomenta) il totalitarismo nella versione contemporanea che, privo dell’evidente e diretta violenza criminale rispetto a quello storico, ad un’attenta analisi si rivela più pervasivo e cogente di quello politico novecentesco. Come vedremo, se intento del fascismo era portare la scuola (e tutte le altre istituzioni e attività sociali) dentro il sistema politico, analogamente, oggi, l’intento è portare la scuola (e tutte le altre istituzioni e attività sociali) dentro il sistema tecno-aziendale, riducendo a zero la possibilità di «ammettere criteri di giudizio e scelte operative difformi da quelle prescritte». Tutto ciò senza l’obbligo di giuramenti di fedeltà o tessere di partito e senza la pratica del manganello.

Non si tratta di una tesi originale. Senza sommergere il lettore con troppe citazioni è più che sufficiente rileggere la lettera aperta con la quale Pasolini, nel 1974, rispose a Calvino che lo rimproverava di essere rimasto troppo legato, rimpiangendola, all’Italia contadina degli anni Sessanta. Nella sua risposta (più che mai attuale) affermava testualmente che «l’acculturazione del Centro consumistico ha distrutto le varie culture del Terzo Mondo (parlo ancora su scala mondiale…): il modello culturale offerto agli italiani e a tutti gli uomini del globo è unico. La conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell’esistenziale: e quindi nel corpo e nel comportamento. È qui che si vivono i valori, non ancora espressi, della nuova cultura della civiltà dei consumi, cioè del nuovo e del più repressivo totalitarismo che si sia mai visto» 3. Verifichiamo se quella di Pasolini, in merito al totalitarismo contemporaneo, sia stata un’asserzione visionaria o se, diversamente, corrisponda alla realtà.

Prendiamo le mosse dal totalitarismo più visibile, quello del fascismo, con riferimento al saggio di cui si è detto. Nel caso della scuola la volontà totalitaria si manifestava nel prescrivere anche gli apparenti e insignificanti dettagli della vita scolastica, allo scopo di indottrinare. In questa sede non si può fare un’analisi esaustiva, per cui citiamo solo alcuni esempi che comunque rendono bene il clima dell’epoca.

La scuola fascista

Arredi e decorazioni. L’elenco è capillare: pareti con pannelli, mensole e scritte tipiche del regime (“credere, obbedire, combattere”, “siamo tutti balilla”…), carte geografiche per far maturare la «coscienza geografica e coloniale» (eredità, questa, della classe dirigente liberale come stimolo alla politica di espansione nazionale), calendari di propaganda, cartelli celebrativi con l’immagine del Duce, fino al materiale di cancelleria con timbri di gomma con l’emblema del fascio littorio con la scritta “Anno… dell’era fascista”, gran copia di riviste fasciste, eccetera. In merito, osservano gli autori, «se oggi viene da sorridere delle pose istrioniche ed eccessive di Mussolini, e viene da rubricare nella categoria del grottesco l’intero apparato della liturgia fascista… non dobbiamo sottovalutare il fascino e l’attrattiva che tale estetica poteva esercitare nell’accaparramento del consenso (specie giovanile) in una nazione che si affacciava allora senza malizia alle invadenze delle strategie comunicative di massa. Di ciò il regime ebbe, sin dai suoi esordi, chiara percezione e la scuola fu un fecondo terreno di sperimentazione di tali nuovi linguaggi».

Analogo discorso vale per i quaderni di scuola e le pagelle, che fanno ampio uso di immagini per presentare, soprattutto nella fascia infantile, gli aspetti più popolari dell’ideologia del regime. Oltre agli immancabili ritratti del Duce, sono rappresentati i balilla, i coraggiosi soldati italiani, la battaglia dell’“ordine”, del “grano”, immagini inscrivibili nella consapevole operazione di pedagogia nazionale allo scopo di un coinvolgimento dell’infanzia e della popolazione meno colta con riviste illustrate. «Arrivare fino a un documento come la pagella», scrivono gli autori «dimostra come il fascismo abbia inteso davvero avvolgere nella sua totalità l’intera società italiana, senza lasciare nessuno spazio vuoto. Che poi questa volontà abbia trovato dei limiti, è altra questione che non va confusa con quelle che erano le ambizioni dei gerarchi». In ogni caso, siamo di fronte a un fenomeno di totalitarismo mediatico.

Libertà di insegnamento e scelta dei testi: fu mantenuta solo in modo formale, insieme al controllo del suo esercizio. Osservano gli autori: «Nel loro insieme tutte le discipline contribuirono, se pur in modi diversi, a ricostruire l’Italia fascista nel suo nesso con il passato più o meno remoto: privilegiando una dimensione temporale ambigua, nella quale la Roma di Cesare, la Roma di Mussolini e la Roma dei Papi tendevano a sovrapporsi. È questo il nodo della contaminazione fascista, che non può essere misurata solo sulle manifestazioni più visibili, ma sull’elaborazione di un complesso insieme di valori culturali, politici e morali». Tutto questo «tenendo presente la dialettica che esiste tra leggi e normativa da una parte, e la loro applicazione dall’altra».

Cultura militare e culto della personalità. È nota la formula fascista “Libretto e moschetto” espressione di una militarizzazione della scuola italiana, dalle elementari all’università, negli anni dell’avventura imperialista in Africa Orientale, per cui si insiste che lo studio della storia (e non solo) sia ispirato al nuovo clima imperiale e serva a porre in rilievo «l’iniziativa e la nobiltà del popolo italiano nel corso dei secoli, l’originalità del suo rinascimento e la grandezza della nuova civiltà Fascista». Dal 1937 tutti i dipendenti pubblici dovettero recarsi al lavoro in divisa, compresi i maestri, mentre le maestre erano tenute a indossare un grembiule nero.

Le voci analizzate dagli autori sono molteplici (Educazione fisica, Elaborati scolastici, Festa degli alberi, Igiene, Leggi razziste, Liceo classico, Maestri e Maestre, eccetera) e, ovviamente, non può mancare il riferimento alla riforma Gentile, emanata con Regio Decreto il 6 maggio 1923 (questione ardua da trattare in pochi cenni). Nella sua sostanza predisponeva un percorso di alfabetizzazione e di orientamento pratico fine a se stesso, un percorso magistrale, un percorso “tecnico” e un percorso privilegiato, liceale, incentrato sulla cultura umanistica, di cui storia, filosofia e latino erano assi portanti, allo scopo di fornire una solida cultura generale a quanti, poi, frequentando l’università, avrebbero assolto funzioni dirigenti o svolto professioni qualificate. Pur nel contesto totalitario della retorica fascista, la scuola aveva un proprio asse culturale oggettivamente formativo; attraverso una serie di esami di ammissione che scandivano il percorso scolastico, la selezione era tale da consentire solo a pochi, ai “migliori”, di proseguire gli studi nel liceo-ginnasio e poi all’università.

Il classismo della scuola di Gentile era il riflesso della rigida stratificazione sociale dell’epoca. La sua forte impronta selettiva aveva, come rovescio della medaglia, di valorizzare a tal punto il titolo di studio, da consentire a una sia pur ridottissima minoranza di giovani provenienti dai ceti popolari di accedere a migliori condizioni di vita. Sia pure per “pochi” la scuola svolgeva la funzione di promozione sociale. Questo valore riconosciuto allo studio e al titolo di studio non è stato inaugurato da Gentile, ma, in Italia, ha le sue radici nella cultura liberale: in larga parte della popolazione, nelle famiglie, almeno fino agli anni Sessanta del Novecento, è stato senso comune sollecitare i figli a impegnarsi nello studio con la convinzione che questo avrebbe garantito un futuro più stabile e dignitoso.

La reazione della pubblica opinione e del corpo insegnante

Riflettiamo su alcune considerazioni conclusive degli autori del saggio, utili per visitare la Scuola 4.0. Da questo dettagliato esame, senza ombra di dubbio, «si evince il ruolo di cinghia di trasmissione che il regime attribuì alla scuola per veicolare i propri messaggi tra le generazioni più giovani, nel tentativo di forgiare un nuovo tipo di italiano».

Come ha reagito la pubblica opinione e il corpo insegnante a fronte di questa volontà totalizzante del regime? «Quello che è certo è che la maggior parte di essi adeguandosi, ha permesso al regime e alla sua retorica di apparire un fatto normale, qualcosa di scontato e che non poteva essere messo in discussione. Insomma, hanno contribuito a normalizzare il fascismo, a renderlo un elemento della quotidianità che a scuola trovava però amplissima diffusione, e che doveva penetrare, quasi impercettibilmente nelle menti e nei cuori degli scolari». Nel testo si riportano anche alcune testimonianze di chi allora frequentava la scuola del regime. Questa è emblematica: «Il rapporto che si stabilì con il fascismo fu per molti di noi quasi un rapporto di natura, naturale. C’era, non lo si metteva in discussione. Era il potere. Era diventato natura e non lo si metteva in discussione».

La Scuola 4.0

Arriviamo a noi, al “Piano Scuola 4.0”. Per non scoraggiare il lettore, cito solo qualche brano. Invito, però, ad accedere alla sua lettura (sono poche pagine) per rendersi conto di persona di quale sia il progetto operativo in corso.

Arredi e decorazioni. Nel documento si afferma che «fin dalla nascita della scuola, lo spazio di apprendimento tradizionale è stato configurato secondo il rigido modello di un’aula di forma quadrata o rettangolare, con file di banchi disposti di fronte alla cattedra del docente. Tale disposizione ha caratterizzato il processo di apprendimento per oltre un secolo e mezzo e ancora oggi appare come modello prevalente nelle scuole. […] Gli ambienti fisici di apprendimento non possono essere oggi progettati senza tener conto anche degli ambienti digitali (ambienti online tramite piattaforme cloud di e-learning e ambienti immersivi in realtà virtuale) per configurare nuove dimensioni di apprendimento ibrido. L’utilizzo del metaverso in ambito educativo costituisce un recente campo di esplorazione, l’eduverso, che offre la possibilità di ottenere nuovi “spazi” di comunicazione sociale, maggiore libertà di creare e condividere, offerta di nuove esperienze didattiche immersive attraverso la virtualizzazione, creando un continuum educativo e scolastico fra lo spazio fisico e lo spazio virtuale per l’apprendimento, ovvero un ambiente di apprendimento onlife».«I nuovi spazi», si indica nel testo, «devono essere disegnati come un continuum fra la scuola e il mondo del lavoro». Questo vale per le scuole primarie e secondarie.

Libertà di insegnamento e scelta dei testi, cancellata, anche formalmente. Con la “dematerializzazione” (abolizione di libri, carta e penna), con l’”animatore digitale” in cabina di regia, gli ex docenti (promossi al grado di animatori!!) saranno classificati in base alle loro competenze informatiche: “novizio, esploratore, sperimentatore, esperto, leader o pioniere”. Se con il regime fascista poteva rimanere qualche spazio residuale per trattare argomenti con modalità non allineate a quelle prescritte, con la totale immersione degli studenti e dei docenti nell’apparato tecnico viene meno anche questa residua possibilità: come detto sopra, tratto distintivo del totalitarismo è di non ammettere e non consentire criteri di giudizio e scelte operative difformi da quelle prescritte.

Cultura militare. È una novità inquietante. Non si tratta solo delle innumerevoli iniziative che vedono coinvolti i militari all’interno delle scuole, ma dell’attivazione di progetti pedagogico- educativi (?) nella scuola primaria (e non solo) che in tutta evidenza generano una pericolosa familiarizzazione con la retorica militare e la guerra. Se nella scuola fascista si imparava l’aritmetica contando il numero dei balilla disegnati nel libro di testo, ora si propone ai bambini di apprendere le tabelline attraverso un apposito video intitolato “La tabellina del soldato” in cui si recita «Marcia soldato, non ti stancare, le tabelline ti voglio insegnare…le tabelline, le tabelline del soldato». Proprio perché non si tratta di episodi, ma di pratiche diffuse e ben mirate, si è costituito un “Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università” per monitorare e denunciare questa deriva. Si consulti il materiale raccolto dall’Osservatorio per rendersi conto dell’entità del fenomeno 4.

Questo cosiddetto “Piano Scuola 4.0” ha un merito: è la concretizzazione definitiva, senza più infingimenti, di un processo iniziato negli anni Novanta con le “Raccomandazioni della Commissione Europea” e il primo “Libro Bianco” del 1993 (“Crescita, competitività, occupazione”) in cui venne esplicitamente dichiarato che la funzione della scuola era promuovere l’acquisizione di competenze digitali e di tecnologie informatiche per rispondere alle richieste dell’industria del terzo millennio. In Italia l’aziendalizzazione della scuola, quindi la sua demolizione nell’accezione storica del termine, è iniziata il 15 marzo 1997 con la legge n. 59 sul decentramento amministrativo (Legge Bassanini) e la conseguente “autonomia scolastica” di berlingueriana memoria. Con la Scuola 4.0., dalla concezione di un essere umano «creato a immagine e somiglianza di Dio» si approda a un essere umano «ri-creato a immagine e somiglianza dell’apparato tecnico». Si usa impropriamente il termine “scuola” per descrivere quello che di fatto è un Centro di addestramento tecnico e smistamento di merci tecnologiche. I corsi di formazione per le nuove figure di “orientatori”, “tutor” ecc. muovono dal seguente assunto: «Viviamo nell’epoca del capitalismo globale, che ci piaccia o no, quindi noi dobbiamo formare il cittadino digitale globale».

In un articolo di Repubblica, che prende spunto dall’impianto di un microchip nel polpastrello di un giovane (che così, finalmente, potrà «pagare con un gesto») il giornalista, antropologo e divulgatore scientifico, osserva quanto segue: «Ormai la tecnologia sta diventando carne della nostra carne. E il nostro corpo si sta trasformando in un supporto vivente, in un alloggiamento per microchip in grado di fare le cose al nostro posto, e forse a nostra insaputa. È l’ultimo capitolo dell’evoluzione di homo digitalis. Che manda in pensione la vecchia concezione della persona come sintesi di corpo e mente, di materia e spirito. E la sostituisce con una nuova idea di uomo, inteso come sintesi di hardware e software. Da cogito ergo sum al digito ergo sim» 5.

Si riprenda la definizione di totalitarismo di cui si è detto sopra e quanto descritto nel caso della scuola fascista; si sostituisca al culto del Duce e all’indottrinamento per magnificare la “nuova civiltà Fascista”, il culto del mercato, del lavoro, dell’innovazione finalizzata alla crescita dei consumi e della competizione; si avrà modo di constatare come il contemporaneo Duce-mercato abbia caratteristiche ben più pervasive del grottesco indottrinamento del regime: da “Figli della Lupa” siamo passati a “Figli del Mercato”.

Lascia esterrefatti che si parli ancora dello statuto della tecnologia contemporanea come di uno strumento neutro, per cui la questione si ridurrebbe a farne un buono o cattivo uso! Lo strumento è tale se l’uomo è la costante e lo strumento la variabile; nel nostro caso il rapporto è capovolto, costante è l’apparato tecnico e “variabile” è l’uomo, ridotto a terminale di un apparato che ingloba qualunque atto della nostra esistenza, senza la possibilità di spazi autonomi e separati.

Governi e ministri, senza distinzione di colore, in questi decenni, hanno sempre asserito che la scuola deve far acquisire competenze spendibili nel mercato: «La scuola deve essere l’anello di congiunzione per fare conoscere agli studenti le opportunità presenti sul mercato, in particolare nei territori di riferimento…». L’ossessione di «valorizzare il capitale umano», fin dall’infanzia «anche con il coinvolgimento delle imprese e dei privati chiamati ad investire» è la costante di questa forma di totalitarismo tecno-aziendale che ha inglobato tutte le istituzioni, tutte le attività sociali, tutta l’esistenza umana. Si legge su “Informazione scuola” che «la scuola si avvia verso un nuovo modello gestito dal mercato» 6. Chi l’avrebbe detto!

Come abbiamo visto, gli autori del saggio sulla scuola fascista si sono posti la domanda «Come ha reagito la pubblica opinione e il corpo insegnante a fronte di questa volontà totalizzante del regime?»; poniamoci analoga domanda e sostituiamo il termine “regime” con “Mercato”. Si rilegga la risposta citata poco sopra e sia il lettore a trarne le conseguenze.

La fine della cultura, delle discipline di studio, della scuola

Se indichiamo con il nome di “cultura” l’ambito in cui si dispiega l’attività spirituale e creativa dell’uomo, attività che richiede un lento processo di acquisizione e sedimentazione autoriflessiva, ebbene, il progetto totalitario tecno-aziendale cancella ciò che distingue l’essere umano dagli animali. Osserva in merito Sonia Milone: «La scuola non è più luogo di formazione dello spirito attraverso la cultura, ma officina di avviamento al lavoro per operai specializzati e bacino di reclutamento per le multinazionali. Non si tratta più di istruire le menti ma di programmare manodopera 4.0 in linea con la mentalità utilitaristica di un mondo mercificato» 7. È vero, ma bisogna aggiungere che trattasi anche di una truffa colossale. Non siamo più nel secolo scorso, quando il lavoro manuale e simili era ampiamente diffuso per cui una scuola che addestrava a determinati mestieri poteva anche avere un senso e uno sbocco. Oggi sono proprio gli innovatori seriali a ripetere che non è più tempo di conoscenze “stabili”, perché la rapidissima evoluzione delle tecnologie esige soggetti in grado di «imparare a imparare»! Questo concetto, che in due parole sintetizza la catastrofe cognitivo-antropologica in cui siamo precipitati, è stato recentemente ribadito e precisato in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Accademico della Luiss. Dopo la prolusione dell’attrice Paola Cortellesi (!?), ai giovani «futuri leader globali che dovranno intraprendere strade sempre più sfidanti… che gestiranno la complessità delle sfide geopolitiche, economiche, giuridiche e tecnologiche che accelerano e trasformano il mondo» è stato spiegato che «è importante imparare a imparare, ma è altrettanto importante imparare a disimparare… si può progredire solo disimparando» 8. Chiaro: qualunque contenuto appreso, nel momento stesso in cui lo si apprende è già obsoleto. Così vuole il nostro Duce, che con l’intelligenza artificiale ci guiderà verso un radioso futuro. Il fatto che gli sviluppi esponenziali della tecnologia abbiano il loro centro motore nel complesso militare-industriale, nelle istanze del capitalismo finanziario, nelle gigantesche concentrazioni private di internet e dei social (con schedatura di massa unica nella storia) e nella necessità sistemica (i cui effetti sono devastanti) di alimentare la crescita dei consumi attraverso l’obsolescenza programmata, ebbene, tutto questo è dettaglio di poco conto. Sarebbe opportuno che l’auspicato «cittadino globale digitalizzato» si interrogasse su quante e quali risorse sono necessarie per questo integrale processo di digitalizzazione, quindi sulla disponibilità delle materie prime rare necessarie alle macro-reti tecniche, alle batterie ecc.; in merito è stato molto chiaro il presidente di Iren (azienda “multiutility” che opera nei settori dell’energia elettrica, gas, energia termica per teleriscaldamento…), quando, in occasione del Festival “Salviamo la Terra” ha dichiarato: «Ci sarà una guerra sul litio, e sarà una guerra mondiale per le batterie» 9. Questo è il radioso futuro che ci attende.

Quando si invoca la pace, si tenga presente che la pace ha un prezzo, quello di uscire collettivamente, come progetto politico, sociale e culturale, da questa inciviltà della competizione, del consumo e del profitto privato.

Abbiamo preso le mosse dalla scuola, ma è evidente che la questione trascende una Riforma con la quale non siamo d’accordo. Qui siamo di fronte ad una mutazione antropologica che, per essere analizzata, esige di uscire dal recinto scolastico. Se interessasse davvero la formazione dei bambini, adolescenti e giovani, dopo decenni di interventi sulla scuola che hanno prodotto un drammatico e documentato regresso cognitivo, si invertirebbe la rotta. Ma così non è, anzi, più si documenta il disastro più si procede nella stessa direzione, fino alla “soluzione finale” della Scuola 4.0, cancellando la dimensione dell’intersoggettività, luogo di senso e definizione dell’esistenza. Tutto ciò avviene anche per la sottomissione collettiva (salvo rare eccezioni) all’ideologia tecnocratica secondo cui questo potenziamento tecnico è inarrestabile, inevitabile e irreversibile. Così il cerchio si chiude. È il “progresso scorsoio”.

Cosa dovrebbe fare, allora, il corpo docente per contrastare questa deriva? Nel caso del totalitarismo del Novecento la mostruosa violenza che ha esercitato non è riuscita a spegnere la fiammella dell’opposizione, che si è poi trasformata in eroica resistenza con il sacrificio della vita. Noi, grazie a quei sacrifici, siamo nelle condizioni di non dover essere eroi: le “armi” per opporsi a questa forma di totalitarismo che non spezza la vita, ma la svuota di senso, sono la deontologia professionale e la dignità. Sotto questo riguardo condivido in pieno l’indicazione data da Alessandro Barbero che nel corso di un’intervista, alla domanda «Se potesse dare un consiglio alla classe docente di oggi, cosa indicherebbe?» così ha risposto: «Cominciare a combattere apertamente tutto ciò che in cuor loro riconoscono come offensivo, inutile, frustrante, senza avere il coraggio di dirlo. Non compilare le scartoffie superflue, non andare alle riunioni che fanno perdere tempo, togliere il saluto a chi parla di meritocrazia, isolare nel disprezzo i dirigenti scolastici che si prestano alla distruzione della scuola e all’umiliazione degli insegnanti; e queste cose dirle e spiegarle ai ragazzi e alle loro famiglie. È una battaglia e le battaglie si rischia di perderle ma, quando è il momento, bi-sogna comunque combatterle – o arrendersi» 10.

Dimenticavo l’obiezione ricorrente: «Non si può tornare indietro!». Bene, allora si vada avanti. Auguri!

Fabio Bentivoglio

NOTE

  1. Il documento è reperibile su internet all’indirizzo: www.miur.gov.it/documents/20182/6735034/PIANO_SCUOLA_4.0.pdf/
  2. Massimo Bontempelli, “Il respiro del Novecento”, Editrice Petite Plaisance, Pistoia, 2002, p. 436.
  3. “Lettera aperta a Italo Calvino. Pasolini: quello che rimpiango”, PaeseSera, 8 luglio 1974.
  4. osservatorionomilscuola.com/
  5. Marino Niola, “Vivremo come Blade Runner ma pur sempre con un’anima”, la Repubblica, 19 ottobre 2017.
  6. www.informazionescuola.it/cambiamenti-in-arrivo-per-la-scuola-secondaria-addio-al-collegio- docenti-piu-spazio-ai-privati/
  7. Sonia Milone, “Scuola 4,0, formare la nuova generazione transumana”
  8. Per chiarezza e lucidità di analisi si segnalano qui i vari interventi di Elisabetta Frezza reperibili a questa pagina: elisabettafrezza.it/scuola/
  9. www.romatoday.it/formazione/universita/l-universita-luiss-inaugura-l-anno-accademico-2023- 2024.html
  10. seitoscana.it/parlano-di-noi/17112023-litio-la-guerra-vicina-la-sfida-evitarla-iren-punta-al- recupero-delle-materie-rare
  11. www.oggiscuola.com/web/2020/10/03/alessandro-barbero-a-oggiscuola-linsegnamento-e-il-piu- frustrante-dei-mestieri-moderni-2/

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