Un sommario inquadramento geopolitico della situazione mediorientale, per provare ad orientarsi nel complesso panorama della regione, tra le più esplosive del pianeta, e comprenderne le dinamiche politiche e militari.
Prima parte di una analisi generale, che successivamente, nella seconda, esaminerà gli aspetti militari del conflitto.
Gli avvenimenti mondiali susseguiti all’avvio dell’Operazione Speciale Militare, nel febbraio 2022, hanno sicuramente rilanciato – specialmente in occidente – un interesse diffuso per la geopolitica, materia negletta da decenni. Questo rinnovato interesse, però, non ha trovato grande corrispondenza nella effettiva comprensione delle dinamiche che la sottendono, anche e soprattutto nelle élite politiche europee.
Anche chi prova a fare delle analisi geopolitiche, del resto, spesso tende a dare per scontate cose che, invece, tali non sono per il grande pubblico. Uno degli errori più comuni – nella rappresentazione e quindi nella comprensione – è quello di focalizzare l’attenzione sugli attori principali, ricadendo, anche involontariamente, in quelle schematizzazioni dualistiche che hanno caratterizzato i decenni precedenti, allontanandosi quindi dalla complessità che invece caratterizza appunto la visione geopolitica.
Con questa consapevolezza, si vuole qui pertanto affrontare l’attuale situazione mediorientale – al momento la più incandescente – partendo dapprima da una valutazione complessiva del quadro geopolitico, per poi esaminare nella seconda parte – con uno sguardo più ravvicinato – la situazione di teatro sotto il profilo militare.
Quando guardiamo al conflitto in Medio Oriente, tendiamo appunto ad escludere (o quanto meno a marginalizzare) gli attori non di primo piano. Vediamo Israele, con gli Stati Uniti alle loro spalle, e dall’altro lato l’Iran con i vari soggetti dell’Asse della Resistenza. Ma in effetti, anche se al momento i combattimenti sono (relativamente) limitati ad alcune aree, l’onda d’urto del conflitto si estende molto più ampiamente, e dobbiamo considerare come (direttamente o indirettamente) interessati molti più paesi, in un’area che possiamo grosso modo considerare come estesa dalla Turchia al Corno d’Africa, e dall’Egitto all’Iran. In un modo o in un altro, tutte le nazioni che vi si trovano sono variamente coinvolte nei sommovimenti che il conflitto comporta.
Fondamentalmente, si deve tenere presente che i governi di questi paesi – non sempre allineati col sentire delle rispettive popolazioni – stabiliscono la natura e la qualità del proprio posizionamento geopolitico, sulla base dell’interesse del paese e sulla base dei rapporti di forza, regionali ed internazionali.
Tenendo presente questi parametri, possiamo leggere con maggiore chiarezza l’intero contesto.
Tralasciando per il momento il caso Israele, che rappresenta, come vedremo, a tutti gli effetti una anomalia, possiamo vedere come vi siano quattro grandi attori regionali: la Turchia, l’Iran, l’Arabia Saudita e l’Egitto.
La Turchia, membro della NATO (al momento, il secondo esercito dell’Alleanza), ed a lungo interessato ad entrare nell’Unione Europea, sotto la guida di Erdogan ha cominciato a spostare leggermente l’asse del proprio posizionamento, spesso anche con ampi margini di ambiguità. Pur senza mettere in discussione la propria collocazione atlantista, Ankara si è sostanzialmente mossa in direzioni più o meno divergenti rispetto al passato. Ha sviluppato un rapporto proficuo con la Russia – nonostante la conflittualità tra NATO e Mosca – ha cercato di costruire un’egemonia verso i paesi turcofoni dell’Asia centrale, e di espanderla anche in Africa orientale.
La sua posizione geografica, comunque proiettata verso il mar Nero ed il Mediterraneo, ne fa un attore non secondario – nello scenario mediorientale – ma con un ruolo inferiore alle sue potenziali capacità, e soprattutto alle sue ambizioni.
Il problema principale per la Turchia (a parte quelli interni, soprattutto relativamente alla forte e combattiva minoranza curda) è che la sua forza economica non è all’altezza del ruolo cui ambisce, quindi fondamentalmente il suo gioco geopolitico è in gran parte basato sul mantenimento di una posizione borderline, e con la necessaria flessibilità.
Ne sono perfetto esempio le relazioni con Israele e con l’Iran.
Per un verso, Ankara è un ottimo partner commerciale di Tel Aviv, e non intende (almeno per il momento) mettere in discussione i suoi interessi economici, anche se fa poi largo ricorso alla retorica contro Israele – funzionale sia a rispondere agli umori della popolazione turca, sia a rappresentarsi come paladina dei musulmani.
Per un altro, dopo aver avuto un rapporto conflittuale con l’Iran, soprattutto in virtù dell’azione anti-curda messa in atto in Siria dall’esercito turco (e da apposite milizie turcomanne), ha poi dovuto riconsiderare i termini della relazione con Teheran, alla luce dei mutamenti sul terreno (sconfitta del tentativo di rovesciamento di Assad, rientro della Siria nella Lega Araba, appeasement Iran-Arabia Saudita…), sino ad un sostanziale allineamento rispetto al conflitto palestinese [1].
Analogamente, anche l’Arabia Saudita ha avuto un percorso simile, anche se – anche qui in virtù del posizionamento geografico – il coinvolgimento saudita negli equilibri regionali è maggiore.
Storicamente, soprattutto a partire dalla rivoluzione islamica in Iran, Ryad è stata il secondo alleato strategico statunitense in Medio oriente [2], ovviamente dopo Israele. In questo quadro, l’Arabia Saudita ha sempre cercato di contrastare la crescente potenza regionale iraniana, dapprima in Siria (finanziando l’Isis e i ribelli filo-occidentali), sia nello Yemen (guidando la coalizione che ha cercato di sconfiggere Ansarullah).
Ovviamente, e soprattutto per un paese come l’Arabia Saudita, l’interesse primario sarebbe quello di una pacificazione dell’area, poiché le guerre fanno male al commercio. Per quanto disponibile ad un rapporto di reciproco scambio e pacifica convivenza con Israele [3], Ryad ha dovuto prendere atto di tre elementi emersi negli ultimi anni, e trarne le dovute conseguenze.
Da un lato, i crescenti attriti con Washington, soprattutto intorno al tema dei diritti civili, che sono stati vissuti come una fastidiosa interferenza in faccende interne, e di fatto come un tentativo americano di imporre un rapporto più subordinato, hanno spinto verso la ricerca di partnership diverse, in grado di compensare l’allentamento dei rapporti con gli USA. Da qui, i nuovi rapporti con la Russia e l’ingresso nei BRICS+.
Da un altro, la crescente potenza diplomatica e militare dell’Iran, che (insieme alla Russia) ha sconfitto il tentativo di abbattere Assad, ha sconfitto la coalizione saudita in Yemen, ha stretto rapporti importanti con Russia e Cina, è entrato nei BRICS+ prima ancora di Ryad, ha sostanzialmente mutato il quadro degli equilibri politici regionali, spingendo infine verso la normalizzazione, mediata dalla Cina.
E, infine, la manifestazione di forza nei confronti di Israele (True Promise 1 e 2), che è valsa da ammonimento regionale a non sottovalutare le capacità operative di Teheran.
Un terzo attore di rilievo è l’Egitto, sia per la sua posizione geografica che per la sua importanza storico-politica. Anche in questo caso, siamo di fronte ad un paese che si muove in equilibrio tra i due fronti, un po’ come la Turchia. Il Cairo ha anch’esso buoni rapporti commerciali (e non solo) con Israele, che a sua volta non avrebbe motivo di mettere in discussione – cosa che infatti non fa. Deve comunque tener conto del sentimento filopalestinese della popolazione (oltre 100 milioni, di gran lunga il più popoloso della regione). Governato da un regime militare, che non vede di buon occhio l’islamismo politico, ha una situazione economica abbastanza precaria, tale da renderlo più debole politicamente di quanto – sotto altri aspetti – potrebbe legittimamente aspirare. Sul piano della collocazione internazionale, bordeggia tra Russia e Stati Uniti, mantenendo buoni rapporti con entrambe; cerca di esercitare una sua influenza verso il Corno d’Africa (Sudan, Somalia, Etiopia…) e verso il Maghreb (Libia orientale), dove si trova spesso allineato a Mosca.
La sua stretta vicinanza con la Striscia di Gaza è ovviamente fattore di tensione continua e, pur cercando di tenersi fuori dal conflitto in ogni modo, ne sta comunque pagando le conseguenze; il blocco navale di Ansarullah nel golfo di Aden, infatti, non ha prodotto soltanto il fallimento del porto israeliano di Eilat, ma ha danneggiato molto anche il traffico attraverso il canale di Suez. Proprio come Erdogan, Al Sisi è costretto ad un gioco di sponda, nel quale stenta a trovare un ruolo di rilievo, ed deve comunque volare basso, pur disponendo di un esercito potente [4], proprio in virtù delle debolezze strutturali egiziane.
Un importante elemento che condiziona la politica egiziana, così come quella saudita (e in generale di altri paesi della regione), è il difficile bilanciamento tra l’interesse immediato (scambi commerciali con Israele, timore della sua forza militare) è quello di lungo termine. I paesi arabi, infatti, sono ben consapevoli che l’ideologia sionista – ineludibile fondamento dello stato ebraico – comporta ambizioni territoriali che includono molta parte dei loro territori nazionali. Cosa che, peraltro, molti esponenti politici israeliani si preoccupano di ribadire periodicamente.
Le mire espansionistiche israeliane non riguardano infatti soltanto i territori palestinesi della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, ma si estendono su ampie fasce di territori libanesi e siriani (in parte già illegalmente occupati), nonché su parti di Giordania, Iraq, Arabia saudita ed Egitto (Sinai). E gli arabi sanno che si tratta di ambizioni che aspettano soltanto il momento propizio, per essere messe in atto. Da questo punto di vista, quindi, è generalmente nell’interesse strategico arabo il contenimento di Israele; tanto meglio se questo viene fatto da (ed a spese di) altri. Idealmente, per gli arabi la situazione ottimale sarebbe infatti uno status quo che veda il crearsi di un equilibrio di potere tra Israele e l’Iran, che farebbe a sua volta da reciproco contenimento. Gli arabi, prevalentemente sunniti, non vedono infatti di buon occhio l’affermarsi dell’Iran, sciita e persiano, come potenza regionale egemone.
In questo senso (oltre che per le summenzionate ragioni commerciali), i paesi arabi preferirebbero una soluzione a due stati per la questione palestinese, perché lascerebbe in piedi Israele e, risolvendo la questione, toglierebbe all’Iran ed alle forze radicali l’argomento principe attraverso il quale egemonizzano le masse arabe.
Per quanto riguarda l’Iran stesso, infine, siamo di fronte ad un paese che, grazie ad una leadership lungimirante e ben coesa, non solo è riuscito a resistere per 45 anni alle pressioni statunitensi, ma ha saputo sfruttare al meglio i vantaggi derivanti dalla sua posizione strategica, evitandone gli svantaggi, ed affermandosi sempre più come emergente potenza regionale, e di grandi aspirazioni.
La collocazione geopolitica iraniana non è, per molti versi, ideale. Nonostante sia un paese abbastanza vasto, e con quasi 90 milioni di abitanti, presenta svariate minoranze etniche al suo interno, specie lungo i confini – in particolare, ovviamente, i curdi [5]. La popolazione persiana è, dal punto di vista etno-culturale, diversa da quella dei paesi vicini, che sono prevalentemente arabi o turcofoni. E, anche se la religione prevalente è quella musulmana, comune a tutta l’area, qui prevale la corrente sciita, che è generalmente minoritaria nel mondo islamico.
Nonostante questi handicap, l’Iran ha saputo trovare una sua collocazione strategica regionale e globale. In ambito regionale, soprattutto attraverso la creazione dell’Asse della Resistenza ed il sostegno pieno alle aspirazioni palestinesi, non solo ha assunto la piena leadership delle comunità sciite – Iraq, Libano, Yemen – ma anche di alcune di quelle sunnite e cristiane – Palestina – o alawite – Siria.
Sul piano internazionale, ha sviluppato ottimi rapporti con Russia e Cina, collocandosi in una posizione centrale rispetto ai progetti di grandi rotte commerciali euroasiatiche. Questa collocazione, soprattutto dopo che la Federazione Russa, a seguito del conflitto in Ucraina, ha rotto i ponti con l’occidente e si è rivolta ad est, rappresenta naturalmente una grande prospettiva di crescita per il paese, che subisce da quarant’anni le sanzioni statunitensi.
Di grande importanza, come accennato, è stata anche l’assunzione del ruolo di guida della Resistenza, dapprima attraverso l’importante intervento militare in Siria, e poi con il rafforzamento ed il coordinamento di tutte le forze, in Libano, in Iraq, in Yemen ed in Palestina.
La creazione dell’Asse della Resistenza va visto nella sua prospettiva strategica, che non è meramente filo-palestinese, ma ha un respiro più ampio. Dal punto di vista di Teheran, infatti, lo stato di Israele rappresenta non soltanto un ostacolo alla nascita di una nazione di Palestina, ma una fondamentale pedina del disegno egemonico statunitense nella regione, oltre che – con le sue ambizioni territoriali – una costante minaccia per la stabilità del Medio Oriente.
L’obiettivo strategico e geopolitico iraniano, quindi, è la liberazione di quest’area fondamentale dalla presenza degli Stati Uniti, e per raggiungere questo obiettivo è necessario prioritariamente la distruzione dello stato ebraico. Che, è importante sottolinearlo, non ha nulla a che vedere con una qualche forma di antisemitismo (ammesso che il termine abbia un senso); all’interno dell’Iran, infatti, c’è una comunità ebraica che vive tranquillamente, ed è anzi largamente integrata nel sistema politico e sociale del paese. Il problema non è la cacciata degli ebrei dal Medio Oriente, ma la rimozione dello stato coloniale da essi creato per difendere gli interessi europei prima e americani poi.
A parte questi attori di maggior rilievo, la questione del conflitto palestinese interessa ed investe una quantità di paesi molto più larga delle aree immediatamente contigue alle zone di combattimento.
Prossime alle zone calde sono innanzi tutto la Siria e la Giordania. La prima è sicuramente quella maggiormente minacciata dal conflitto, sia perché già estremamente indebolita dai lunghi anni di guerra contro i ribelli finanziati da USA, Turchia, Arabia e Israele, sia perché il suo territorio è ancora parzialmente occupato. A nord, dalle milizie turcomanne sostenute da Ankara, a sud dalle SDF, dall’Isis (residuale, ma ancora presente in alcune zone desertiche), nonché dalle basi militari illegali degli Stati Uniti. Allo stato attuale, Damasco dipende sostanzialmente dall’appoggio militare russo e iraniano, e continua a soffrire economicamente per la sistematica rapina del proprio petrolio (i giacimenti si trovano nelle aree controllate dagli USA, che proteggono i convogli che lo esportano fraudolentemente verso il Kurdistan iracheno). A tutti gli effetti, la Siria è il ventre molle della cosiddetta mezzaluna sciita (Iran-Siria-Libano), ed è anche, come vedremo nella seconda parte, a rischio di un’invasione militare israeliana.
La Giordania, a sua volta, si trova al confine di un’area calda ma (non ancora) caldissima, cioè la Cisgiordania, ovvero il territorio ad occidente del fiume Giordano. La Giordania è governata dalla monarchia hashemita, strettamente legata alla Gran Bretagna, ma ha una popolazione in parte beduina, in parte di origine palestinese. Sempre saldamente schierata a favore degli interessi occidentali e israeliani, è potenzialmente soggetta a divenire la retrovia di una possibile guerriglia palestinese nella West Bank, e comunque a rischio di instabilità. Anche Amman, più di recente, sta cercando di attenuare il proprio schieramento filo-israeliano, proprio per timore che l’Asse della Resistenza sfrutti il malcontento popolare per crearvi proprie cellule.
Un po’ più discosto geograficamente, ma più prossimo politicamente, l’Iraq è sostanzialmente vicino all’Iran, in virtù di una maggioranza della popolazione di osservanza sciita. Anche se il governo cerca di mantenere una posizione più moderata, nel paese c’è una forte presenza di organizzazioni politico-militari che fanno capo all’Asse della Resistenza, e che sono impegnate in una guerra a bassissima intensità contro le basi statunitensi nel paese (che dovrebbero essere definitivamente smantellate entro il 2026) e contro Israele. La posizione politica e geografica del paese ne fa di fatto la prima retrovia logistica del fronte anti-israeliano, soprattutto di quello libanese, ma la presenza delle forze statunitensi – e gli equilibri interni con la forte minoranza sunnita – non danno grande stabilità a Bagdad, che per quanto schierato avrebbe certamente bisogno a sua volta di un lungo periodo di pace per stabilizzarsi definitivamente.
Andando più ad est, troviamo una serie di paesi minori, tutti più o meno filo-occidentali e legati all’Arabia Saudita: Kuwait, Bahrein, Qatar, Emirati Arabi Uniti (UAE), Oman, più lo Yemen.
Tutti questi stati, che vivono di petrolio, ed affacciano sul Golfo Persico, hanno ovviamente interesse a mantenere aperti i canali per i loro traffici commerciali, che sostanzialmente significa evitare che il conflitto si allarghi all’Iran – che in tal caso bloccherebbe lo stretto di Hormuz. Sono tutti molto piccoli, in gran parte desertici, ricchi di petrodollari ma non in grado di esercitare alcun vero potere in proprio.
Contigui all’Arabia Saudita – della quale sono, anche geograficamente, poco più che delle propaggini – ne ricadono nell’orbita politica. Sono prevalentemente sunniti, anche se in Bahrein c’è una significativa minoranza sciita. Molti di questi paesi ospitano basi militari statunitensi e britanniche. Fa ovviamente eccezione lo Yemen, sciita, legatissimo all’Iran (grazie al quale ha potuto vincere la guerra con l’Arabia) e parte dell’Asse della Resistenza, nell’ambito del quale è molto attivo, sia per il blocco navale selettivo nel Golfo di Aden, sia per gli attacchi missilistici su Israele [6].
Ad ovest del mar Rosso, incontriamo Sudan, Eritrea, Etiopia, Gibuti e Somalia. Questi paesi, in gran parte già afflitti da enormi problemi interni (guerra civile in Sudan, separatismi in Etiopia, caos e signori della guerra in Somalia…) risentono del conflitto soltanto in modo riflesso, ma sono a loro volta a rischio. A Gibuti, per esempio, ci sono importanti basi americane e inglesi, che potrebbero divenire bersaglio, in caso di allargamento del conflitto. E nel Somaliland (una regione somala resasi autonoma, nel nord del paese) Israele sta pensando di installare una base militare per contrastare lo Yemen sciita, che si trova proprio dall’altra parte del Golfo di Aden.
Da ultimo, abbiamo l’anomalia israeliana. Anomalia in quanto, tanto per cominciare, si tratta di un corpo estraneo. Lo stato di Israele, infatti, non solo è una creazione coloniale della Gran Bretagna, ma è stato fondato da coloni europei, portati qui dalla paura per l’antisemitismo [7] europeo e dall’illusione messianica di un diritto su quelle terre, derivante da una presunta assegnazione delle stesse da parte di dio in persona.
Questa estraneità, che pure avrebbe potuta essere evitata, se soltanto la fondazione dello stato si fosse basata sulla comune identità semitica delle popolazioni, indipendentemente dal credo religioso, e quindi sulla eguale dignità, è stata invece sin dall’inizio rimarcata, violentemente. Il fondamento dell’ideologia sionista, infatti, è stato non soltanto negare questa comune identità, ma addirittura stabilire una gerarchia ontologica: gli arabi palestinesi erano non soltanto una presenza scomoda di cui liberarsi, per occuparne le terre ed appropriarsi dei beni, ma dei veri e propri untermenschen, degli “animali umani” (nell’espressione del ministro Gallant). In buona sostanza, gli ebrei europei fuggiti dal vecchio continente perché vi erano considerati razza inferiore, appena arrivati in Palestina hanno replicato il medesimo atteggiamento.
Lo stato israeliano, quindi, sin dalla sua nascita (e non soltanto dalla sua proclamazione come stato ebraico, nel 2018) si è caratterizzato come un regime di apartheid. Ulteriore caratteristica, questa, dei regimi coloniali europei. Consapevole della propria estraneità, ma al tempo stesso ritenendosi investito per diritto divino al possesso esclusivo di quei territori, Israele si è sin dall’inizio posto in una condizione ostile nei confronti dei paesi vicini. Anzi, ha letteralmente teorizzato la necessità di imporre la sua presenza attraverso il terrore, sino ad articolare una specifica dottrina militare. Questa caratterizzazione originaria è stata poi ulteriormente accentuata e sottolineata, nei decenni successivi, quando Israele si è per un verso sempre più caratterizzato come un paese occidentale, in tutto e per tutto diverso dal resto del Medio Oriente, e per un altro – ponendosi come perno della presenza imperialistica statunitense nella regione – ha assunto il ruolo di gendarme di una potenza estranea ed ostile.
Questo quadro sommario del contesto geopolitico del Medio Oriente, dovrebbe aiutare a comprendere le dinamiche complesse che lo caratterizzano, e che non sono ovviamente soltanto quelle militari che attualmente insanguinano l’area. Per dirla brevemente, non è tutto bianco e nero, non c’è un di qua ed un di là così nettamente marcato e distinguibile. Ciascun attore, grande o piccolo, persegue i suoi interessi, non sempre coincidenti con quelli dei paesi amici e/o alleati. Ne consegue che anche le posizioni politiche possono essere più o meno sfumate, a volte ambigue, sempre comunque potenzialmente mutevoli – perché mutevoli sono gli equilibri di forza. Avendo fatto questo passo indietro, al fine di avere uno sguardo più ampio sulla situazione, anche la lettura della carta geografica – a cui è sempre bene dare un’occhiata, per comprendere gli aspetti spaziali (dimensioni, distanze, posizioni…) – dovrebbe risultarne arricchita. E fa da introduzione alla lettura delle mappe, cioè all’analisi di ciò che sta accadendo sul campo di battaglia, che esamineremo nella seconda parte. Perché poi, a sua volta, gli esiti della guerra influenzeranno in vario modo, ed in tempi diversi, gli equilibri di forza nella regione; e quindi muteranno la natura geopolitica della stessa.
1 – È di qualche giorno fa la dichiarazione di Erdogan che, rivolgendosi al Ministro degli Esteri iraniano Araghchi, ha sostenuto la necessità che l’Iran e la Turchia debbano collaborare più strettamente per contrastare Israele.
2 – Gli Stati Uniti hanno sempre cercato di avere due alleati nella regione, in modo tale da poterne bilanciare il peso. Finché c’era lo Shah Reza Pahlavi, questo ruolo è stato ricoperto appunto dall’Iran, per poi passare all’Arabia Saudita. Il raffreddamento dei rapporti tra Washington e Ryad ha fatto sì che il peso specifico di Israele aumentasse considerevolmente, sbilanciando la politica mediorientale statunitense.
3 – Di recente, il principe reggente Mohammed bin Salman avrebbe dichiarato che a lui personalmente non importa nulla dei palestinesi, ma che non può non tener conto dell’opinione dei sudditi del regno.
4 – L’Egitto è il Paese africano con le forze armate più potenti, piazzandosi al 15mo posto a livello globale, con un punteggio di 0.2283, nella classifica 2024 degli eserciti più potenti del mondo, pubblicata dal sito americano specializzato in difesa Global Fire Power (Gfp).
5 – Le popolazioni curde ricadono a cavallo del territorio di ben quattro stati: Turchia, Siria, Iraq ed Iran, e ovviamente reclamano la fondazione di uno stato nazionale. In particolare, in Turchia ed in Siria sono attive formazioni politiche e militari molto attive. La complessità della situazione geopolitica regionale ha purtroppo spinto una parte delle forze curde a trovare riparo sotto l’ombrello statunitense. In particolare in Siria, dove le formazioni della resistenza curda si sono alleate con altre formazioni di opposizione formando le SDF (Syrian Democratic Forces), che operano sotto la protezione delle basi illegali statunitensi, ed in Iraq, dove a seguito delle guerre del golfo è stato creato lo stato (di fatto autonomo) del Kurdistan, a sua volta filo-americano. In entrambe i casi – SDF e Kurdistan iracheno – c’è anche una larga collaborazione con i servizi israeliani.
6 – Lo Yemen è in effetti diviso in due parti: quella sud-occidentale è controllata da Ansarullah, mentre quella nord-orientale è controllata da un governo filo-saudita.
7 – Si rende qui necessaria una puntualizzazione sul termine, e sul concetto che esprime. L’antisemitismo, inteso come ostilità nei confronti di coloro che praticano la religione ebraica, è un prodotto assolutamente europeo. Non è ovviamente questa la sede per indagarne le motivazioni storiche, resta comunque il fatto che storicamente non c’è sostanzialmente traccia di ostilità nei confronti degli ebrei in Medio Oriente. Il termine stesso – antisemitismo – nasce dal fatto che ab orgine gli ebrei si ritenevano remotamente provenienti dalla Palestina, terra le cui popolazioni erano per l’appunto semitiche. L’identificazione degli ebrei come semiti, dunque, non intendeva stabilire una sovrapposizione esclusiva dei termini, ma nasceva semplicemente dal fatto che gli ebrei erano (o si riteneva che fossero) comunità di origini semitiche; erano, insomma, gli unici semiti significativamente presenti in Europa. Questa ostilità nei confronti degli ebrei, radicata soprattutto – ma non solo – nei paesi anglo-sassoni, ha origini remote, ma nel corso del secolo scorso ha raggiunto l’apice della sua virulenza. Lo sterminio pianificato e sistematicamente applicato, soprattutto negli anni ‘40 del novecento, ha poi dato impulso al progetto sionista, spingendo molti ebrei europei a fuggire – appunto – da questo antisemitismo, ed a cercare rifugio in questa terra promessa mediorientale. È quindi evidente come l’uso del termine antisemitismo, nel contesto della Palestina, sia semplicemente privo di senso, in quanto lì tutti – arabi ed ebrei – sono semiti. Così come è evidente che tacciare di antisemitismo qualsiasi critica al governo di Israele o al sionismo, sia non solo fuorviante (sarebbe come dire che una critica al governo della Germania sia definibile come anti-ariana, o anche solo come anti-tedesca), ma chiaramente frutto di una manipolazione semantica, attraverso la quale i sostenitori di Israele cercano di utilizzare i sensi di colpa e la vergogna per l’olocausto per rimbalzare qualsiasi biasimo verso i comportamenti israeliani.
Un ringraziamento ad Enrico Tomaselli per questo bellissimo articolo,come i precedenti del resto..