Se c’è una cosa fondamentale che va messa subito in chiaro, per quanto riguarda l’attuale fase del conflitto in Medio Oriente, è che – esattamente come per il conflitto in Ucraina – siamo di fronte ad un conflitto radicale, in cui la dimensione spaziale (territori) è assolutamente secondaria, mentre ad essere prevalente è la dimensione temporale (durata), e soprattutto che si tratta di un conflitto in cui gli obiettivi delle parti sono assolutamente inconciliabili. Questo significa che non esiste una possibilità intermedia tra vittoria e sconfitta, non c’è spazio alcuno per mediazioni e negoziazioni che puntino a stabilire una qualche pace duratura, e che anche solo opzioni tattiche, come dei cessate il fuoco temporanei, sono estremamente difficili.
In entrambe i casi, si è superato un punto di non ritorno; e lo si è superato non nel corso delle due guerre, dove pure si registra una continua escalation, ma nel momento stesso in cui hanno preso avvio.
Così come l’avvio dell’Operazione Speciale Militare, il 24 febbraio 2022, ha segnato (forse persino senza piena consapevolezza da ambo le parti) il passaggio ad una fase di conflittualità irreversibile, altrettanto è stato per l’operazione Al Aqsa Flood, il 7 ottobre 2023.

Nello specifico, quanto si sta verificando nel teatro mediorientale – che al di là delle motivazioni peculiari è comunque parte a pieno titolo del confronto globale in atto – si presenta come uno scontro tra attori con posizioni assolutamente non conciliabili. La posta in gioco, infatti, è un completo ridisegno del quadro geopolitico regionale (che, come visto nella prima parte, si ripercuote ampiamente, anche ben oltre i paesi direttamente coinvolti) e che, a prescindere dagli esiti immediati del conflitto, presenta due sole possibili opzioni: o la distruzione dell’Asse della Resistenza, Iran compreso, con tutto quello che ciò comporterebbe (espulsione della Russia dal Medio Oriente, cancellazione definitiva dei progetti legati alla Nuova Via della Seta, crescenti minacce occidentali in Asia Centrale ed Africa), o viceversa espulsione di qualsiasi influenza regionale da parte americano-occidentale.
Questo non implica necessariamente, nel secondo caso, la cancellazione dello stato di Israele come esito della guerra. Come si diceva all’inizio, la dimensione territoriale è secondaria, ciò che conta saranno gli equilibri di forza.

Continuando ad esaminare le questioni più generali, sempre sotto il profilo dello scontro bellico, va tenuta presente la diversa natura degli attori in campo. Israele, anche sotto questo profilo, si presenta come una classica potenza coloniale occidentale: la condotta della guerra, a partire dalle decisioni strategiche, è legata ad una catena di comando verticale, che ha al suo vertice il governo politico del paese. Governo in cui, diversamente che nei decenni passati, gli ex-militari sono decisamente sottorappresentati (in pratica, solo Gallant, che infatti è costantemente in minoranza, e sull’orlo del licenziamento), ed è quindi privo della capacità di comprensione strategica complessiva, ma che – anche in virtù della presenza di un nugolo di ministri estremisti – tende ad esondare dal proprio ruolo, non limitandosi ad indicare gli obiettivi di massima (ad es. ridurre significativamente la capacità di combattimento della Resistenza nella Striscia di Gaza) ma arrivando a stabilire anche il come li si debba raggiungere. Per il governo israeliano, infatti, la guerra non è soltanto un modo per conseguire obiettivi politici con altri mezzi, ma è essa stessa uno strumento politico, usato come tale.

In ogni caso, la struttura gerarchica delle forze armate israeliane è tipicamente occidentale, con una centralizzazione delle scelte strategiche ed operative, e spesso anche tattiche, che lascia poco spazio all’iniziativa sul terreno, traducendosi in una qual certa rigidità nell’esecuzione delle operazioni.
Naturalmente, questo modello ha funzionato bene fintanto che si è confrontato con gli eserciti arabi, che ne mutuavano a loro volta il modello, ma che erano infinitamente più deboli. Bene o male, è riuscito ad esprimere una relativa capacità di contenimento [1], anche rispetto a formazioni guerrigliere, ma si trova oggi in seria difficoltà, dovendo fronteggiare formazioni molto più forti delle precedenti, con buona se non ottima capacità offensiva, e che invece sfruttano al massimo una struttura di comando estremamente flessibile e decentrata.

Un’altra caratteristica del modus operandi militare israeliano è che risulta incentrato sulla distruzione piuttosto che sul combattimento strategico. Anche in questo tipicamente occidentale, risente di un approccio profondamente quantitativo: tot morti, tot edifici distrutti, tot tonnellate di bombe sganciate… Si tratta però di una modalità operativa che va bene quando è in grado di distruggere, o quantomeno annichilire l’avversario in tempi brevi, ma risulta del tutto inefficace quando applicata in un contesto di guerra asimmetrica. Ciò vale ancor più per un paese come Israele, che ha una disponibilità limitata di uomini e mezzi – e, nello specifico, dipende pressoché totalmente dai rifornimenti statunitensi, che (già consumati in Ucraina) non sono inesauribili.

Una terza caratteristica israeliana è determinata dalla geografia. Per quanto sia valido il criterio summenzionato della relativa importanza della dimensione spaziale, ciò va riferito soprattutto ad eventuali conquiste (o perdite) territoriali; sotto altri aspetti, la geografia condiziona fortemente il piano strategico. E Israele è un paese piccolo, con la popolazione e le infrastrutture critiche concentrate in aree circoscritte, quindi totalmente privo di profondità strategica. Inoltre, è geograficamente intrappolato: ad ovest dal mare, a nord, ad est e a sud da paesi arabi. Non ha quindi un paese confinante che, alla bisogna, possa offrirgli quella profondità di cui non dispone. Ed è anche per sopperire a questa condizione che, da sempre, la dottrina strategica israeliana si è concentrata sullo sviluppo di una capacità offensiva altamente distruttiva, concentrata nel tempo, così da assicurare una veloce disfatta del nemico.
Detto altrimenti, Israele non è strutturalmente attrezzato per una guerra asimmetrica di logoramento, in cui vince chi resiste più a lungo, non chi infligge più perdite al nemico.

Se questo è, sostanzialmente, il quadro generale da parte israeliana, è legittimo chiedersi per quale ragione si siano lanciati in una campagna militare – quella nella Striscia di Gaza – che con tutta evidenza non poteva essere rapida, a prescindere dall’intensità. Ovviamente, dopo il 7 ottobre, essendo andata in frantumi la capacità di deterrenza (oltre che la credibilità dei servizi di sicurezza e dell’IDF), non poteva non esserci una risposta militare, ma rimane davvero incomprensibile che si sia avviata senza una strategia chiara e dei piani operativi ragionevoli. Ferme restando le responsabilità politiche in queste scelte, non si può non constatare come anche l’applicazione sul campo sia stata tanto feroce quanto grossolana. L’approssimazione con cui è stata – ed è – condotta la campagna risulta evidente non soltanto dal rapporto durata-risultati (un anno di guerra e la Resistenza è ancora pienamente operativa), ma dal fatto stesso che l’IDF continua a muoversi sul territorio come un animale in gabbia, passando continuamente da un settore all’altro, proclamando l’annientamento delle brigate nemiche [2], per poi essere costretto a ritornare più e più volte sui propri passi.

Di quanto accaduto sino ad ora nella Striscia di Gaza ci siamo comunque occupati più volte, e non ci torneremo. Cercheremo piuttosto di esaminare cosa sta accadendo adesso sui campi di battaglia – che, ad oggi, sono almeno tre: oltre Gaza, la Cisgiordania ed il Libano. L’Iraq, la Siria, lo Yemen e l’Iran sono per ora oggetto di una guerra a bassa intensità ed a distanza, non ancora combattuta quindi sul campo.
Per quanto riguarda Gaza, la prima cosa che risalta allo sguardo di un osservatore è che, nonostante un anno di combattimenti – ed una quantità incredibile di bombe sganciate su un territorio estremamente ridotto – l’intensità dei combattimenti non si è affatto affievolita; anzi, al contrario, si potrebbe quasi affermare che è aumentata. A fronte infatti di una lieve flessione nel numero degli scontri a fuoco, si può sicuramente registrare una crescente capacità tattica delle unità dei combattenti palestinesi, nonché del coordinamento operativo tra formazioni diverse.

Si è infatti intensificato il numero delle imboscate tese alle forze israeliane, anche molto articolate (con trappole esplosive predisposte in anticipo, squadre diverse con compiti diversi, e prolungate nel tempo, con scontri che continuano sino all’arrivo delle unità di rinforzo e recupero dell’IDF, che vengono a loro volta attaccate), e portate a termine da combattenti di varie organizzazioni (Brigate Al Qassam, Brigate Al Quds, Brigate Mujahedeen, etc). Tutti segnali non solo di una intatta capacità operativa [3], ma anche di un’efficiente comando interforze.
E, ovviamente, resta largamente intatta e sconosciuta la rete di tunnel sotterranei (così come la collocazione di decine e decine di prigionieri). Il problema di fondo è che l’IDF si muove nella Striscia apparentemente senza scopo, senza un disegno operativo coerente. “Occupiamo territori e poi ce ne andiamo”, ha affermato Michael Milstein, un analista israeliano degli affari palestinesi; “questo tipo di dottrina significa che ti ritrovi in ​​una guerra senza fine” [4].

Per ottenere il massimo risultato possibile, e quindi escludendo di poter effettivamente degradare definitivamente la capacità di combattimento della Resistenza palestinese, piuttosto che mettere in atto una devastante campagna di massicci bombardamenti (che, sotto il profilo militare, riducendo le città in macerie avvantaggiano più la guerriglia che l’esercito israeliano), avrebbe dovuto procedere diversamente. Avrebbe cioè dovuto suddividere la Striscia in quadranti, procedendo a bonificarli sistematicamente uno dopo l’altro, identificando e facendo brillare gli ingressi dei tunnel quando non fosse possibile penetrarli, per poi procedere con il quadrante successivo una volta che non si fosse più registrata presenza attiva della guerriglia. Ma ciò avrebbe richiesto moltissimo tempo – forse più dell’anno passato sinora – moltissimi uomini (per mantenere il presidio di ogni quadrante) e – naturalmente – moltissime perdite. Un prezzo che, comprensibilmente, l’IDF non era in grado di sopportare, e che però ha portato le forze israeliane ad applicare un disegno operativo del tutto inefficace.

Ciò che l’IDF sta facendo, quindi, è spostare la concentrazione delle forze da un posto all’altro, senza mai venire a capo della situazione. I soli due punti su cui le forze israeliane si sono insediati stabilmente sono infatti il corridoio Philadelphia, subito a sud di Rafah, che corre lungo il confine con l’Egitto, ed il corridoio Netzarim, un asse che taglia la Striscia da est a ovest, poco più a sud dell’area metropolitana di Gaza City.
L’intento sarebbe quello di bloccare il contrabbando tra l’Egitto e la Striscia, e dividere in due quest’ultima. Obiettivi che presuppongono comunque una permanenza di lungo termine dell’IDF sul territorio palestinese; ma che, in entrambe i casi, non tengono conto della rete di tunnel che percorre il territorio, anche a grande profondità, e che potrebbe consentire la mobilità nord-sud delle formazioni combattenti.
Peraltro, le forze dell’IDF stanziate lungo il Netzarim vengono quotidianamente attaccate dalla Resistenza, con mortai, missili e RPG.

Attualmente, e per la terza volta dall’inizio delle operazioni, l’esercito israeliano sta investendo in modo significativo l’area del campo di Jabalia, al centro di Gaza City, dove da una ventina di giorni si susseguono feroci combattimenti [5]. Secondo alcune voci, ciò rientrerebbe in un piano – il cosiddetto piano dei generali, redatto da alcuni ex-alti ufficiali, guidati dal maggiore generale Giora Eiland – che prevederebbe il completo svuotamento della fascia a nord del Netzarim, anche a costo di utilizzare l’affamamento della popolazione civile, per poi procedere a ripulirla dai combattenti.
Anche se apparentemente potrebbe sembrare una applicazione tardiva della suddetta tattica della suddivisione in quadranti, in questo caso si tratta di un’area troppo vasta perché possa essere proficuamente utilizzata. Ufficialmente l’IDF nega di stare applicando il piano, ma l’impressione è che lo stia sostanzialmente utilizzando nella prospettiva di un ben altro disegno: l’annessione di quest’ampia fascia di territorio e la creazione di una larga zona di sicurezza.

Questo disegno, che ovviamente preoccupa molto i palestinesi – che attualmente vengono forzatamente deportati fuori dall’area in massa, con centinaia di arresti tra gli uomini adulti – affinché possa realizzarsi richiede però alcuni step, che è assai improbabile possano verificarsi.
Il primo, ovviamente, è riuscire a svuotare completamente l’area dai civili (si calcola ne rimangano circa 400.000), e avere ragione delle unità locali della Resistenza. Come già detto, questa è la terza volta che l’IDF ci prova, e visto come stanno andando le cose difficilmente finirà con un esito diverso dalle precedenti. Un’altra condizione, assai difficilmente raggiungibile, è che una simile ipotesi venga accettata, quando – inevitabilmente – si andranno a negoziare i termini del cessate il fuoco.
Perché – ed è incredibile con quanta facilità si dimentichi ciò che significa – la parola chiave è resistenza.

Nel già citato articolo del New York Times, gli autori scrivono che Hamas è “incapace di operare come un esercito convenzionale” [6]. Ma le Brigate Al Qassam (l’ala militare del movimento) non è che siano diventate incapaci di farlo – magari a seguito dell’azione dell’IDF, come sembrano suggerire Kingsley e Boxerman – semplicemente non lo hanno mai pensato. Come praticamente ogni movimento di liberazione nazionale del novecento, non hanno mai avuto l’obiettivo di sconfiggere militarmente l’occupante (se non occasionalmente, tatticamente), ma quello di resistervi più a lungo, più di quanto a sua volta riesca a resistere quest’ultimo.
È quindi di un’evidenza palmare che la resistenza del popolo palestinese (che dura da 76 anni…) andrà avanti finché Israele non sarà costretto a cedere. Ed è così che è andata per lo stato più simile ad Israele che la storia ricordi, il Sud Africa dell’apartheid (non per caso stretti alleati).

Allora, nessuno avrebbe scommesso che un pugno di negri avrebbe sconfitto il regime di Pretoria. Nelson Mandela, fondatore e capo di Umkhonto we Sizwe (ala militare dell’African National Congress) era considerato un terrorista, e rimase in carcere per 27 anni. Poi divenne il primo presidente sudafricano non bianco, e vinse il Nobel per la pace…
Quindi, così come in termini di prospettiva storica, in termini di prospettiva contingente è inevitabile che si arrivi ad un negoziato per porre fine a questa fase virulenta del conflitto; perché la società israeliana non è in grado di resistere più a lungo di quella palestinese. E poiché, appunto, il negoziato arriverà quando sarà Israele a cedere, non ci sarà modo di non tener conto di ciò.

Da un punto di vista operativo, comunque, è evidente che anche gli obiettivi minimi dell’operazione IDF nella Striscia sono difficilmente conseguibili, ed in ogni caso di scarsa utilità.
Il controllo del valico di Rafah e del corridoio Philadelphia, al confine con l’Egitto, sul medio-lungo periodo non servirà a bloccare il contrabbando. Il controllo del corridoio Netzarim non servirà a separare il nord dal sud, e conseguentemente a tenere divise le forze della Resistenza. E, in entrambe i casi, offrirà a quest’ultima dei bersagli costantemente a disposizione. Quanto all’ipotesi di trasformare Gaza City e dintorni in una grande area cuscinetto, seppure fosse praticabile servirebbe soltanto a spostare un po’ più in là il problema.
Come si è detto, Israele è un paese piccolo, e non c’è praticamente un solo metro di territorio che non possa essere raggiunto dalle armi dell’Asse della Resistenza.

Dal punto di vista strategico, quindi, Gaza è destinata a rimanere una spina nel fianco – in senso letterale – per lo stato ebraico. Vale appena la pena ricordare, ancora una volta, che Israele ha tenuto lungamente sotto occupazione la Striscia, tenendovi anche degli insediamenti coloniali, ma alla fine ha dovuto optare per la scelta di abbandonare quel territorio, smantellando gli insediamenti e ricollocandone gli abitanti, perchè l’occupazione aveva un costo troppo elevato.
In un certo senso, rappresenta un efficace sineddoche del più ampio problema di Israele con tutti i territori occupati: sono troppi, troppo abitati, troppo resistenti, per un piccolo paese.
Cosa che, del resto, vale anche per la Cisgiordania – che è poi la porzione di territorio su cui più si concentrano gli appetiti coloniali israeliani, ed in particolare dei settler che costituiscono gran parte della base elettorale dell’estrema destra.

La situazione sul fronte della West Bank è sicuramente la meno esplosiva, dal punto di vista israeliano, anche se dal 7 ottobre le cose sono assai peggiorate per l’IDF. Per quanto le forze della Resistenza siano di molto inferiori, come numero di combattenti, rispetto a Gaza, tanto che spesso le brigate territoriali sono costituite mettendo insieme militanti della varie organizzazioni, nel corso dell’anno appena passato si è reso evidente un salto di qualità nelle capacità di combattimento. Di conseguenza, ogni qualvolta le forze israeliane fanno un’incursione in uno dei centri abitati palestinesi, devono inevitabilmente affrontare scontri a fuoco e agguati a base di IED. In questa porzione di territori occupati, peraltro, l’IDF può contare su un vantaggio aggiuntivo di non poco conto; il governo dell’Autorità Nazionale Palestinese [7], infatti, ed in particolare le sue forze di sicurezza, collaborano attivamente con le forze israeliane, passando informazioni sulla Resistenza, collaborando alla realizzazione di agguati delle forze speciali contro i combattenti, arrestandoli e addirittura disinnescando gli ordigni predisposti per colpire le forze dell’IDF.

Da un punto di vista strategico, la particolarissima configurazione amministrativa del territorio, a macchia di leopardo, presenta vantaggi e svantaggi per entrambe le parti. In pratica, l’intera Cisgiordania occupata si presenta con una serie di centri abitati palestinesi, ed insediamenti coloniali israeliani, sparpagliati sul territorio, ma con l’ulteriore particolare caratteristica che esiste tutta una rete stradale di collegamento tra gli insediamenti che è totalmente off-limit per i palestinesi. Questa particolare configurazione crea di fatto come una serie di enclave dell’una e dell’altra parte, disposti in modo casuale sul territorio. L’idea originaria israeliana, che ha determinato questo singolare sviluppo urbanistico, era quella di consentire che gli insediamenti coloniali coprissero l’area più vasta possibile, e che allo stesso tempo servissero a frammentare il territorio palestinese, impedendone qualsiasi continuità.

Questa frammentazione territoriale, se da un lato limita fortemente la mobilità delle forze palestinesi (sostanzialmente costrette ciascuna nel proprio territorio, senza possibilità di intervenire in soccorso di altri centri sotto attacco, e più in generale senza poter operare alcuna concentrazione delle forze, anche solo temporanea), e consente all’IDF un più efficace controllo operativo, è comunque potenzialmente pericolosa anche per i settler, di cui molti insediamenti sono alla portata di attacchi palestinesi (cosa questa, peraltro già cominciata a verificarsi).
Da segnalare che la vicinanza del confine con la Giordania rende più facile il contrabbando di armi – come si può vedere dalla documentazione video-fotografica, mentre a Gaza l’arma tipica dei combattenti è l’AK-47, nella West Bank abbondano le armi moderne di fabbricazione occidentale.
Più in generale, le forze della Resistenza (anche per le condizioni suddette) non sono attualmente in grado di operare in modo tale da creare problemi all’IDF, e possono al più agire sulla difensiva, colpendo il nemico quando questo effettua incursioni nei vari centri abitati palestinesi. L’esercito israeliano è comunque costretto a mantenere costantemente forze sul territorio, che non possono quindi essere impegnate sui fronti più caldi.

Per quanto riguarda infine il terzo fronte, quello libanese, è abbastanza evidente – sotto molti aspetti – che qui siamo in un’altra dimensione di scala. Anche se Hezbollah è una organizzazione non-statuale (ricordiamo che è innanzitutto un partito politico, rappresentato nel parlamento e nel governo libanese), la sua forza e la sua capacità di combattimento ne fanno un attore militare di rilievo, sicuramente maggiore rispetto all’esercito regolare libanese (e non solo: probabilmente più forte anche dell’esercito siriano, ad esempio). E quindi, se si prescinde da questa diversa natura, diciamo così, giuridica, quella che si sta combattendo lungo la blue line [8] è a tutti gli effetti una guerra simmetrica. Con ciò non si intende ovviamente sostenere che l’IDF e Hezbollah siano equiparabili (basti dire che quest’ultimo non ha una sua aviazione…), ma che appartengono entrambe alla categoria degli eserciti. Altrettanto ovviamente, vi è un’altra, significativa differenza tra i due, in ordine sia alla catena di comando, sia alle modalità operative.

Inoltre, i combattenti della Resistenza Islamica libanese possono vantare due ulteriori atout: hanno accumulato una lunga esperienza di combattimento, durante un decennio di guerra civile in Siria, ed hanno una struttura altamente territorializzata (ovvero le unità combattenti sono formate prevalentemente da uomini del posto in cui l’unità stessa è stanziata).
Tutte queste caratteristiche, seppure ovviamente non consentono di competere con l’IDF sullo stesso piano [9], danno però l’opportunità di ottenere una sufficiente superiorità tattica sul terreno. Come si è visto ad esempio dopo tutta la serie di omicidi mirati, con cui sono stati eliminati molti vertici politici e militari (compresi alti comandanti e lo stesso leader Nasrallah), questo non ha intaccato la capacità operativa neanche per un giorno. La struttura gerarchica dell’organizzazione militare è infatti assai più orizzontale e decentrata, di contro a quella verticale tipica degli eserciti statali.
Infine, va sottolineato che Hezbollah combatte sul terreno una battaglia difensiva (e questo è sempre un vantaggio), che l’orografia del terreno lungo la linea di demarcazione non favorisce i grandi movimenti di corazzati, e che negli ultimi 24 anni ha costruito una fitta rete di tunnel e bunker sotterranei lungo questa linea, che consente di tenere al riparo uomini e mezzi durante gli attacchi dell’aviazione.

Andiamo ora ad osservare gli obiettivi strategici (dichiarati e non) dell’operazione Northern Arrow, lanciata dall’IDF il 1° ottobre scorso, in modo da poter valutare l’efficacia o meno dell’azione militare sul campo. Al netto della propaganda, è chiaro che i vertici militari israeliani sapevano benissimo che una campagna di terra contro Hezbollah sarebbe stata sanguinosa, e molto probabilmente anche infruttuosa. Ma questa idea non era del tutto condivisa nel governo, che forse contava su una maggiore capacità distruttiva delle forze armate. In ogni caso, è presumibile che sia i politici che i militari contassero su una sorta di effetto Gaza, cioè l’annichilimento del nemico attraverso una massiccia e devastante campagna di bombardamenti. L’obiettivo minimo dichiarato dell’operazione, era in ogni caso assicurare il rientro dei circa 100.000 coloni evacuati dagli insediamenti settentrionali di Israele. Corollario di questo – anzi, sua necessaria precondizione – rendere inoffensivo Hezbollah e/o respingerlo indietro sino al fiume Litani (circa 20 km a nord della blue line). Terzo obiettivo, infine, non detto ma sostanziale, arrivare ad un ribaltamento degli equilibri politici libanesi, tale da inficiare il ruolo dominante di Hezbollah nel paese dei cedri, riallineandolo agli interessi occidentali.

Questo obiettivo strategico – l’unico effettivamente ancora in campo – viene perseguito attraverso una manovra a tenaglia, con la pressione militare israeliana sul terreno, e quella politico-diplomatica dei paesi occidentali. Da qui sia l’insistenza per una rapida elezione del Presidente libanese [10], sia la pressione per arrivare ad un ritiro dell’UNIFIL, che si vorrebbe sostituire con una nuova missione multinazionale, non più targata ONU, e guidata da forze occidentali.
Una tale manovra ha chiaramente una portata ben maggiore della salvaguardia degli insediamenti coloniali israeliani; l’obiettivo di fondo, infatti, è privare l’Iran del suo principale – e più forte – alleato, per ridimensionarne il ruolo nella regione e, in prospettiva, renderlo più debole nel caso di una mossa militare per abbatterne il regime.

Se guardiamo all’azione militare israeliana, possiamo distinguere tre diversi livelli. Il primo, e più significativo, è quello dei massicci bombardamenti su città e villaggi del Libano del sud, oltre che su Beirut. Questi, nella loro indiscriminatezza, non hanno lo scopo (se non in piccolissima parte) di intaccare la capacità di combattimento di Hezbollah, e nemmeno di minarne il sostegno popolare. Lo scopo è esattamente quello di esercitare una fortissima pressione sulla parte di società – e di ceto politico – avverso o comunque non solidale, al fine di determinare una spaccatura profonda e, grazie all’appoggio europeo ed americano, arrivare ad un rovesciamento degli equilibri politici e di potere all’interno dello stato libanese. In questo senso, si può dire che la feroce campagna di bombardamenti è l’unica mossa veramente clausewitziana di tutta l’azione militare di Israele.

Il secondo livello, sostanzialmente completato, è quello del tentativo di disarticolazione della struttura politica e militare di Hezbollah, uccidendone quanti più possibili leader attraverso attacchi mirati e, come si è visto qualche settimana fa, attraverso forme di terrorismo di massa (esplosione dei cercapersone e  dei walkie-talkie). Nonostante l’esperienza avrebbe dovuto insegnare pur qualcosa (sono decenni che Israele adotta la pratica degli assassinii, contro la Resistenza palestinese prima e contro Hezbollah poi, senza che ciò sia mai servito effettivamente a nulla), è evidente come ancora una volta gli israeliani abbiano puntato troppo sull’efficacia di questo genere di pratica, che infatti si è nuovamente confermata essere militarmente inutile. Tra l’altro (opinione personalissima) l’operazione delle esplosioni di massa andava fatta nello stesso giorno, e non in due step successivi, ad a 24 massimo 48 ore dall’attacco di terra, così da massimizzarne l’impatto psicologico e di disorientamento.

Terzo livello, ovviamente, quello dei boots on the ground. Che, altrettanto ovviamente, è il più complicato, perché questo è il terreno su cui Hezbollah può sfruttare al massimo i suoi vantaggi, e perché è anche quello senza il quale Israele non può portare a casa alcun risultato.
In quattro settimane di combattimenti, l’avanzata israeliana continua a misurarsi nell’ordine di qualche centinaio di metri; le zone dove l’IDF è riuscito a penetrare maggiormente sono quelle a nord-est, dove è stato preso il villaggio di Kfarkilla (circa 4-500 metri di penetrazione verso ovest) e, a sud, quella di Mouroun al ras (circa 1 km di penetrazione verso nord-ovest). Lungo le restanti parti della linea di contatto,  le forze israeliane sono avanzate mediamente di 100-200 metri. A fronte di questi risultati abbastanza contenuti, e di certo lontanissimi dall’obiettivo di respingere Hezbollah sino al Litani, le perdite subite sono significative; secondo i dati forniti dalla Resistenza (l’IDF censura in modo ferreo queste informazioni) ammonterebbero ad oltre  90 morti e più di 750 feriti tra ufficiali e soldati [11], 38 carri armati Merkava, 4 bulldozer militari, un Hummer, un veicolo blindato e un trasporto truppe, più 3 droni Hormuz 450 e un Hormuz 900 abbattuti.

Anche se gli israeliani sostengono che Hezbollah “si è ritirato dal confine”, non solo non tengono conto della penetrazione irrisoria sinora effettuata dall’IDF, ma soprattutto del fatto che la Resistenza Islamica opera da posizioni fortificate a circa cinque chilometri dal confine; memore della guerra del 2006, si è comunque attrezzata con una profondità strategica sufficiente a contenere l’avanzata israeliana, quand’anche fosse riuscita a superare le prime linee. E intanto, le forze d’élite di Radwan stanno impegnando le forze israeliane bloccandone o rallentandone fortemente la capacità di spingersi all’interno del territorio libanese. Un approccio che sottolinea la tattica di Hezbollah, basata sull’attrito e la deterrenza.
“Per Hezbollah, uno scontro prolungato serve sia come misura difensiva sia come strategia per influenzare il futuro politico e di sicurezza del Libano, potenzialmente orientando la risoluzione del conflitto a suo favore” [12].

Si deve considerare che, durante la seconda guerra libanese, nel 2006, durata 34 giorni, l’avanzata israeliana si infranse principalmente contro il villaggio di Beit Jebeil, che si trova poco lontano dall’attuale punta avanzata dell’IDF nella zona di Mouroun al ras. A Beit Jebeil i combattenti di Hezbollah resistettero ad un assedio per due settimane, mentre adesso gli israeliani si sono appena avvicinati al villaggio, dopo quattro settimane.
A parte le scarse avanzate territoriali, anche la capacità di colpire con missili e droni le aree a sud della blue line, da parte della Resistenza Islamica, non è stata minimamente intaccata; anzi, si è intensificata ed estesa, arrivando a colpire sino a Tel Aviv [13].
Attualmente, le forze israeliane si stanno dedicando principalmente alla demolizione di tutte le case e delle moschee all’interno dell’area controllata (con l’eccezione del villaggio cristiano di Rmeich).

Ci sarebbe stato da aspettarsi che, quantomeno, l’IDF continuasse a cercare di spingersi in avanti, sia in direzione di Beit Jebeil, sia verso Taybeh più a nord, oltre che lungo la costa ad ovest, a prescindere dalle perdite, altrimenti non si comprende che senso abbiano avuto quelle sostenute sinora. Ma, contrariamente a ciò, sembra invece che le forze israeliane abbiano già deciso di fare retromarcia. Dopo che la 146^ divisione è stata ritirata, anche la 98^ divisione si sta ora ritirando dal Libano meridionale, lasciando solo due divisioni attive all’interno del paese (la 91^ e la 36^). La 146^ Divisione di riserva Ha-Mapatz dell’IDF ha cessato le operazioni la scorsa settimana, dopo essere stata respinta nel settore occidentale. La 98^ Divisione paracadutisti Ha-Esh si sta ora ritirando dal settore orientale, dopo aver subito pesanti perdite a Kfar Kila, Odaisseh, Markaba e Houla.

Questa inversione di rotta è stata accompagnata e sostenuta dai media israeliani, che hanno manifestato crescenti perplessità sull’andamento della guerra, ed hanno dato spazio alle voci critiche in seno all’esercito ed all’intelligence.
Amos Harel, su Haaretz [14], ha sottolineato lo scarto tra la posizione dell’esercito e l’intenzione del Primo Ministro Netanyahu di intensificare le operazioni. Analisti come Ronen Bergman di Yedioth Ahronoth riconoscono che l’intelligence e i militari hanno ampiamente sopravvalutato la vulnerabilità di Hezbollah, ed il corrispondente militare Ron Ben-Yishai ha evidenziato la solida ripresa da parte di Hezbollah. Per Alon Ben-David, di Maariv, non solo il lancio quotidiano di razzi dal Libano non è diminuito, ma il conflitto ha iniziato a spingere Israele verso i negoziati.
Apparentemente, quindi, Israele si starebbe orientando verso una de-escalation, quanto meno sul fronte libanese. Ma, considerando l’assoluta pochezza dei risultati ottenuti, risulta difficile comprendere come potrebbe giustificarla, agli occhi della propria opinione pubblica.

Netanyahu non fa mistero di voler licenziare il ministro della difesa Gallant, inviso all’estrema destra ultra-religiosa sia perché considerato troppo moderato, sia perché artefice dell’introduzione dell’obbligo al servizio militare per gli Haredim (gli studiosi ortodossi, sinora esentati dalla leva), ma chiaramente questa mossa non servirà a farne l’unico capro espiatorio. Oltretutto, Gallant è l’uomo di fiducia dell’amministrazione Biden nel governo di Tel Aviv, e la sua rimozione non farà piacere a Washington.
Ma il vero problema è che, per quanto millantino mirabolanti successi, anche sparando a raffica clamorose fake-news, i propagandisti governativi non possono più nascondere la realtà dei fatti sul campo. Nonostante la decapitazione dei suoi vertici politici e militari, Hezbollah è più forte che mai; di respingerlo militarmente oltre il Litani nemmeno se ne parla; di far tornare a casa i coloni evacuati men che meno; persino l’obiettivo di separare il conflitto di Gaza da quello libanese risulta impossibile.

Quali potrebbero quindi essere le prossime mosse israeliane? È interessante notare come proprio Gallant, in una lettera aperta indirizzata al governo (e che suona ad un tempo come un’ulteriore provocazione per farsi cacciare, e come una sorta di testamento politico), avanzi le sue idee sul futuro immediato; idee che però sono un breve e facile compendio di buone intenzioni, ma senza alcuna effettiva indicazione sul come realizzarle. Scrive infatti Gallant che, per quanto riguarda Gaza, gli sforzi dovrebbero mirare a “stabilire una realtà senza una minaccia militare, prevenire la crescita delle capacità terroristiche, restituire tutti gli ostaggi e promuovere un’alternativa al governo di Hamas”; sul Libano, dice che bisogna “creare una realtà di sicurezza che consenta ai residenti del nord di tornare alle loro case il prima possibile”; e riguardo alla Cisgiordania, ha aggiunto: “Prevenire uno scoppio violento contrastando il terrorismo”.
Tutte cose, appunto, sulle quali probabilmente persino Smotrich non avrebbe nulla da obiettare, ma che – da ex-generale, e da attuale ministro della difesa – avrebbe quantomeno dovuto accompagnare con delle indicazioni strategiche ed operative sul come realizzarle.

Più in generale, sembra che Israele si stia avviando verso una fase di rallentamento dell’azione militare (si veda anche l’attacco all’Iran, decisamente sotto tono), che potrebbe però essere solo una tattica (anche) politica, in vista delle presidenziali americane. Che vinca Trump o la Harris, è probabile che già dal giorno successivo Netanyahu rimetta in moto i suoi Merkava. Anzi, è proprio durante la fase di interregno, tra il 6 novembre ed il 20 gennaio (data di insediamento del nuovo presidente) che potrebbe accelerare, esattamente per condizionare l’atteggiamento della nuova amministrazione USA.
E, nonostante si dia per scontato che preferirebbe Trump, questo potrebbe non essere per niente vero. Non per caso, la potente lobby ebraica statunitense è saldamente schierata in favore della Harris. E di certo non è sfuggito, ad un politico navigato come Netanyahu, che il vice-presidente in pectore, J.D. Vance (vera mente politica di un’eventuale amministrazione repubblicana), abbia recentemente dichiarato in tv che “Israele ha il diritto di difendersi, ma l’interesse dell’America a volte sarà distinto. A volte avremo interessi sovrapposti, e a volte avremo interessi distinti, e il nostro interesse, credo, è molto nel non andare in guerra con l’Iran”.

In fondo, una settimana di attività militare meno intensa potrebbe risultare assai gradita, alla Casa Bianca, e comunque non sarebbe un gran problema. Ma Israele deve decidere cosa fare, e deve deciderlo adesso. Una cosa è abbastanza chiara, e cioè che gli USA non sono disposti a farsi trascinare in una guerra con l’Iran. Harris o Trump, questo punto non è suscettibile di cambiamenti – anche perché le decisioni in merito non vengono prese nello Studio Ovale all’ultimo momento, ma discendono direttamente dagli orientamenti strategici imperiali, che non cambiano di certo ad ogni elezione presidenziale, né in conseguenza di queste; semmai, i presidenti vengono scelti in funzione delle strategie di medio-lungo periodo.
Oltretutto, il recente monito russo, col quale Mosca ha reso chiaro che, in caso di conflitto Iran-Israele, se la NATO intervenisse in favore di Tel Aviv la Federazione Russa scenderebbe in campo con Teheran.

Le opzioni, quindi, si restringono. O puntare su una strategia di de-escalation, con tutti i rischi conseguenti per la stabilità del governo e della sua maggioranza, magari cercando di restringere l’azione militare alla sola Striscia di Gaza, oppure trovare una via per rilanciare la guerra in qualche altro modo.
La prima opzione è ovviamente assai rischiosa per Netanyahu; si troverebbe a fronteggiare la rabbia dei suoi alleati di estrema destra Smotrich e Ben Gvir, dovrebbe fare i conti con i coloni infuriati perché non possono tornare alle loro case ed alle loro attività, e soprattutto dovrebbe incassare un’altra sconfitta da parte di Hezbollah. Tutte cose che non solo minerebbero la sua posizione personale e quella del suo governo, ma che si rifletterebbero negativamente sulla stabilità di Israele stesso. Dunque, la seconda opzione sembrerebbe essere una scelta obbligata, oltre che nella natura dell’attuale governo.

Ma, dovendo scartare appunto l’idea di un conflitto con l’Iran, il range delle possibilità si restringe vorticosamente. In effetti, forse ad una sola. Che, ancora una volta, costituisce un azzardo non da poco. L’IDF potrebbe infatti cercare di ribaltare l’impasse sul confine libanese, attraverso una manovra aggirante. Le forze israeliane potrebbero cioè entrare in Siria dalle alture del Golan – dove incontrerebbero scarsa resistenza da parte dell’esercito siriano – per poi convergere ad ovest ed entrare in Libano dalla Siria (un confine certamente non fortificato, e senza dubbio anche meno presidiato), ottenendo il duplice vantaggio di aggirare le linee difensive di Hezbollah, e di tagliarne le linee di rifornimento. Oltretutto, potrebbe sfruttare i suoi legami con le milizie curdo-jihadiste per farle attivare, creando nuovi problemi alle forze siriane (ed alle unità di Hezbollah presenti nel paese).

Ovviamente, qui il rischio deriverebbe innanzitutto dal dover invadere un altro paese sovrano (il che non farebbe che aumentare le difficoltà dei sostenitori occidentali), e poi ovviamente dal fatto che l’apertura di un quarto fronte – per quanto la Siria sia sicuramente il ventre molle dell’Asse della Resistenza – non farebbe che aumentare le difficoltà (e le perdite) per l’IDF.
Tra l’altro, la presenza in territorio siriano sia delle forze russe che di quelle statunitensi renderebbe l’operazione estremamente rischiosa, davvero sul filo del rasoio, e potrebbe risolversi in un drammatico allargamento del conflitto (Resistenza Islamica irachena, innanzi tutto, ma forse anche lo stesso Iran, che non può permettere che salti l’anello siriano).
L’unico modo per ottenere un risultato, evitando il rischio di una deflagrazione generale, sarebbe quello di conseguire una rapida vittoria su Hezbollah, grazie alla manovra di aggiramento. Ma quanto ciò sia effettivamente possibile è dubbio, ed equivale a puntare tutto su un terno al lotto.

Inevitabilmente, si torna sempre allo stesso punto. La mancanza di un disegno strategico da parte della leadership israeliana sta trascinando il paese, una camera dopo l’altra, in una tragica tonnara; e anche se qui è Israele a compiere la mattanza lungo il percorso, alla fine è lui il tonno che rischia di rimanere intrappolato e di soccombere. E purtroppo, una volta imboccata, per il predatore pelagico è impossibile fare dietrofront e tornare indietro.
Per quanto difficile – e dolorosa – per Israele non c’è effettivamente altra scelta che tornare alla politica, alla negoziazione. Ma nella consapevolezza che, come dice il Presidente del Parlamento libanese Nabih Berri, “ciò che il nemico non può ottenere con la forza non sarà ottenuto con la politica”. Resta da capire se Netanyahu ha la forza e la lucidità per capirlo ed accettarlo.


1 – Chiusa la stagione delle guerre con i paesi arabi, Israele si è sempre confrontato con le formazioni armate della Resistenza, che ovviamente non erano assolutamente in grado di competere sul piano strumentale (quantità e qualità dei sistemi d’arma utilizzati). Ciò nonostante, Tsahal ha continuato a fare affidamento sullo stesso modello (struttura gerarchica verticale e supremazia tecnologica), mentre dal canto suo la Resistenza imparava invece ad adattare le proprie modalità operative in modo tale da eludere, o quanto meno aggirare, i propri handicap. L’attacco palestinese del 7 ottobre, infatti, ben al di là di sterili (e un po’ sciocche) speculazioni sul fatto che fosse noto o meno in anticipo, ha comunque mostrato come l’intelligence israeliana – nonostante fosse ben informata sulle formazioni della Resistenza (quanti uomini, esistenza della rete di tunnel, tipo di armamenti disponibili…) – ne ha totalmente sottovalutato la capacità operativa. Di più, ha lasciato che la Resistenza raggiungesse questa capacità, sottovalutandola per un verso, e sopravvalutando la propria per un altro. In pratica, l’apparato militare israeliano, nel suo complesso, non è stato in grado di impedire che le formazioni combattenti palestinesi raggiungessero una capacità offensiva, ed una resilienza militare, di cui il 7 ottobre è solo la parte più appariscente. Molto più significativo, infatti, è che ad un anno dall’inizio dei combattimenti, e nonostante immani devastazioni inflitte alla popolazione ed al territorio, la Resistenza si dimostra capace di non dare tregua all’IDF sul terreno. E già questo rappresenta una sconfitta strategica per il sistema di sicurezza militare israeliano.
2 – Tutti ricorderanno quando, mesi addietro, Netanyahu e i vertici dell’IDF affermavano di aver distrutto 22 delle 24 brigate della Resistenza, e che bisognava assolutamente entrare a Rafah perché lì si trovavano le ultime due brigate ancora operative… E infatti, dalla scorsa primavera ad oggi gli scontri sono continuati dappertutto, e in queste settimane si sta combattendo una durissima battaglia nel campo di Jabalia, al centro di Gaza City, al punto opposto rispetto a Rafah.
3 – Questo lo riconosce persino un giornale filo-israeliano come il New York Times, che in un articolo (“Hamas’s Guerrilla Tactics in North Gaza Make It Hard to Defeat”, Patrick Kingsley e Aaron Boxerman, New York Times) afferma che Hamas è “ancora una potente forza di guerriglia con abbastanza combattenti e munizioni per intrappolare l’esercito israeliano in una guerra lenta, logorante e ancora impossibile da vincere”. L’articolo menziona anche il fatto che, per quanto riguarda la rete di tunnel, “gran parte (…) rimane intatta nonostante gli sforzi di Israele per distruggerla, secondo analisti militari e soldati israeliani”. L’articolo peraltro dà credito ai dati forniti dall’IDF, secondo i quali “Hamas ha perso più di 17.000 combattenti dall’inizio della guerra”; considerando che il numero dei morti accertati è ad oggi poco superiore ai 42.000, e che di questi circa il 65% sono donne e bambini, restano circa 14.700 uomini adulti. Anche se fossero tutti combattenti – cosa ovviamente impossibile, poiché significherebbe che non è stato ucciso un solo civile maschio – ne mancherebbero un paio di migliaia. La cifra più attendibile, basandosi sui dati certi (popolazione totale, numero delle vittime, numero dei combattenti prima del 7 ottobre), è ragionevole stimarla in 3/5.000 combattenti uccisi, cioè il 10/15% della forza operativa.
4 – Citato in “Hamas’s Guerrilla Tactics in North Gaza Make It Hard to Defeat”, Patrick Kingsley e Aaron Boxerman, ibidem
5 – È nel corso di una di queste battaglie che le Brigate Al Qassam hanno ucciso il colonnello Ehsan Daksa, durante un’imboscata nella quale è caduta la sua colonna corazzata. In quell’occasione furono distrutti due carri Merkava ed altri corazzati, mentre l’effettivo numero di morti e feriti è rimasto nascosto dalla ferrea censura militare.
6 – Cfr. “Hamas’s Guerrilla Tactics in North Gaza Make It Hard to Defeat”, Patrick Kingsley e Aaron Boxerman, ibidem
7 – L’ANP è stata istituita, a seguito degli Accordi di Oslo, nel 1994. Esercita un potere amministrativo sui territori occupati della Cisgiordania, ed è costituita essenzialmente dal partito Al Fatah. Dipende pressoché interamente da finanziamenti esteri, ed è strettamente legata agli USA e – quindi – ad Israele, che mantiene comunque il controllo militare sui territori, e lo esercita a suo piacimento. A partire soprattutto dalla seconda Intifada (2000), e ancor più significativamente dopo l’operazione Al Aqsa Flood, una parte di Al Fatah, soprattutto giovanile, ha iniziato a partecipare attivamente alla lotta, anche armata, contro l’occupazione, dando vita alle Brigate dei Martiri di al-Aqsa. Ciò ha aperto una contraddizione all’interno di Al Fatah, poiché le Brigate non hanno rescisso i legami col movimento politico. Questa contraddizione si è acuita a seguito degli accordi di unità nazionale, siglati a Pechino il 23 luglio 2024, con i quali quattordici gruppi palestinesi hanno convenuto di rivitalizzare l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) accogliendovi tutte le organizzazioni che si battono contro l’occupazione. In quella occasione, il ministro degli esteri cinese Wang Yi accolse in particolare l’alto funzionario di Hamas Abu Marzuq e l’inviato di Al Fatah Mahmoud Aloul. Secondo il capo della diplomazia cinese, l’accordo prevedeva “la formazione nel dopoguerra di un governo ad interim di riconciliazione nazionale”.
La situazione attuale vede, di fatto, un accordo formale in tal senso, ma restano forti dissidi tra Hamas e Al Fatah, sia perché questa è contraria alla lotta armata, sia perché gli sponsor statunitensi dell’ANP rifiutano la presenza di Hamas (e di altre organizzazioni) in qualsiasi ipotesi di governo palestinese. Semplificando al massimo, si potrebbe dire che la parte più collusa (e più corrotta) di Al Fatah è quella che costituisce l’ossatura dell’ANP, la parte più combattiva fa capo alle Brigate dei Martiri di al-Aqsa, ed una terza fazione – più moderata e possibilista – fa capo al partito Fatah più che all’ANP.
8 – La blue line è una linea di confine stabilita dall’ONU nel 2000, a seguito del ritiro israeliano da una parte dei territori libanesi occupati (mantiene ancora il controllo dell’area delle cosiddette fattorie Sheeba). Israele e Libano non si sono mai accordati in modo completo e definitivo su una linea di confine reciprocamente ed internazionalmente riconosciuta (peraltro, Israele è l’unico paese al mondo a non avere confini definiti, poiché farlo impedirebbe qualsiasi espansione…), e quindi furono le Nazioni Unite a stabilirne una.
9 – Ad esempio, Hezbollah non solo non dispone di una flotta aerea (eccezion fatta per alcuni droni da ricognizione), ma non ha neanche un sistema di difesa anti-aerea in grado di contrastare l’aviazione israeliana. Così come non dispone di forze corazzate, ed avrebbe quindi difficoltà ad effettuare una manovra offensiva classica, a livello di brigata.
10 – Il sistema politico libanese è basato su un complesso quanto delicato meccanismo di distribuzione del potere su base confessionale (sciiti, sunniti, cristiani, drusi…), ereditato dal colonialismo (divide et impera…), ma che ovviamente non corrisponde più non solo alla realtà demografica, ma neanche a quella politica. In conseguenza di ciò, l’elezione del nuovo presidente, che richiede un accordo tra forze diverse, è da tempo bloccata. USA, Francia ed Israele, vorrebbero che fosse eletto un presidente in grado di ridimensionare il ruolo politico di Hezbollah – che va ben al di là della comunità sciita, peraltro.
11 – L’IDF ha annunciato che 594 soldati sono rimasti feriti sul fronte settentrionale, dall’inizio dell’invasione terrestre nel Libano meridionale; questo conferma la generale attendibilità dei dati forniti da Hezbollah. Il presidente del partito Yisrael Beytenu, Avigdor Lieberman, ha detto: “abbiamo perso circa 800 soldati nei combattimenti e circa 11.000 sono rimasti feriti”.
12 – “Enemy Army: We have reached the peak and then the decline”, Ali Haidar, Al Akhbar
13 – Ricordiamo, tra gli altri, il bombardamento con un drone contro la base della Brigata Golani a Binyamina, a sud di Haifa (5 morti ed oltre 30 feriti), quello della sede dell’Unità 8200 dell’intelligence militare, nella capitale, e quello contro la casa di Netanyahu, a Cesarea.
14 – “Will Israel’s Deadliest Month This Year Shift Public Opinion on the War in Lebanon?”, Amos Harel, Haaretz 

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